lunedì 29 settembre 2008

Lucinda Williams > Little Honey


Da dieci anni, dall’uscita dello straordinario Car Wheels on a Gravel Road, Lucinda Williams ha conosciuto una ascesa artistica senza precedenti inanellando album sempre belli e diversi l’uno dall’altro e assurgendo al ruolo di migliore rockeuse/songwriter della musica americana di oggi. Una ascesa che continua con Little Honey, disco che segue solo di un anno l’acclamato West  ma non si limita a cavalcarne il successo perché introduce una serie di  cambiamenti che lo rendono diverso pur in una logica prosecuzione stilistica. Rispetto a West  il produttore non è più il rinomato Hal Willner ma l’ingegnere del suono di quel disco, Eric Liljestrand, il suono poi sterza verso  un mix di country, blues e rock n’roll suonato  con un atteggiamento disincantato e libero, un roots-rock  meno elegante rispetto al precedente lavoro ma spartano e diretto, con decise puntate hard-rocking che richiamano lo stile senza fronzoli di World Without Tears. Affiora il rumore di una band che sembra la quintessenza di quelle strade impolverate del sud  tanto decantate dalla Williams, poco avvezza alle raffinatezze ma in sintonia con quel misto di folk, blues e rock che costituiscono le radici dell’artista : Bob Dylan e Lightin Hopkins, i Cream e i Rolling Stones, Robert Johnson e Memphis Minnie. 

Per la prima volta, inoltre, la Williams sembra aver lasciato da parte quelle sue  ballate di oscura introspezione che l’hanno resa famosa, per rivolgersi all’esterno, ai temi delle relazioni umane e dell’amore con un ottimismo mai provato prima. L’insieme di questo aspetto e l’appoggio sempre più determinato della sua band, i Buick 6 con il bassista David Sutton, il batterista Butch Norton e i chitarristi Chet Lyster ( ex Eels) e soprattutto il riconoscibilissimo Doug Pettibone,  fanno si che Little Honey  suoni differente da West  e riporti una fresca aria roots nella carriera dell’artista della Louisiana. Aggiungete inoltre l’uso di una sezione fiati (cosa mai avvenuta prima) nella soffice ed epica Rarity, il brano che più strettamente ripropone  l’ombrosità delle sue vecchie ballate, un duetto con Elvis Costello nel mini dramma in salsa country di Jailhouse Tears e la presenza di una leggenda come Charlie Louvin e avrete un album che riesce ancora una volta ad entusiasmare senza essere la copia del disco precedente riassumendo al contempo tutti gli elementi che hanno reso la Williams una delle più celebrate songwriter viventi. Presenti nel disco anche Susanna Hoffs e Matthew Sweet, la quale aiuta ad arrangiare con un potente wall of sound la prorompente Little Rock Star.

Come afferma la stessa autrice, Little Honey è più luminoso rispetto ad altri suoi lavori “ perché mi trovo in una differente fase della mia vita e quindi ci sono più momenti felici. Questa volta ho voluto cercare più al di fuori di me stessa che dentro il mio animo”.  Ecco perché Little Honey è più rockato, a cominciare dalla sferzante Real Love  che apre il disco con con un riff di chitarra stoppato e poi invoca con decisione e passione rollingstoniana un real love sensuale e a tutto ritmo. Gli fanno immediatamente eco  Circles And X’s, scritta nel lontano 1985, strimpellata come un arruffato country-blues di scuola Keith Richards e sottolineata dal sapiente organo di Rob Burger e la lenta Tears Of Joy,, anche qui il blues ad indicare come i paesaggi dell’anima più volte descritti dalla Williams in modo cerebrale e triste  siano adesso illuminati da una luce diversa. Ciò non toglie che l’introspezione e le ballate siano nel dna della sua musica, basta aspettare la rarefatta  e visionaria Rarity, il gorgheggio melodico di Wishes Were Horses, la lenta e notturna The Knowing per trovare riscontro ma è l’intenso e crudo potere del rock n’roll in Honey Bee ed il crescendo spectoriano di Little Rock Star a marchiare il disco con un rock da  strada chitarristico e senza piagnistei. La vivace Long Way To The Top  chiude il disco sui ritmi di un rock n’roll spregiudicato e molto rollingstoniano e fotografa alla perfezione la Lucinda Williams di Little Honey..


Mauro Zambellini     Settembre   2008


venerdì 26 settembre 2008

Black Crowes > Warpoint


Sette anni dopo il mediocre Lions i Black Crowes tornano alle origini ripristinando un tumultuoso e sporco rock-blues sudista, così come ce lo hanno fatto amare nei loro dischi migliori, i primi tre tanto per intenderci. Abbandonate le infatuazioni glam e il ricorso ad un rock spettacolare da Mtv, perso definitivamente il bravo chitarrista Marc Ford, i Corvi Neri hanno ingaggiato il tastierista Adam McDougall e messo Luther Dickinson dei North Mississippi All Stars al posto di Ford. Di nuovo in sei con Chris e Rich Robinson, il batterista Steve Gorman ed il bassista Sven Pipien hanno lavorato duro, scegliendo Paul Stacey come produttore e infilandosi negli Allaire Studios, stato di New York ai piedi della Catskills Mountains, non molto lontano da Woodstock, per portare a termine un disco che non sconfessa le loro influenze e rimette in pista un rock n’roll vintage intriso di blues e R&B. Finiti i tempi delle major i Black Crowes hanno ideato una loro etichetta, la Silver Arrow e con la spavalderia ed il coraggio che li ha sempre contraddistinti sono tornati alle origini, al rock impiastrato di blues, di soul e di R&B con cui avevano aperto le danze, sciorinando chitarre e suoni sporchi, tastiere anni settanta ed una ritmica sordida da cantina che sembra direttamente estrapolata da Exile On Main Street. Il sound è quello anche se le canzoni non risultano ugualmente brillanti, manca loro un quid per essere veramente memorabili.
Nuova linfa al gruppo l’hanno portata le tastiere sotterranee ed honky-tonk di McDougall che in Goodbye Daughters Of The Revolution e in Wee Who See The Deep sembra fare il verso al lavoro fatto da Ian Stewart con gli Stones e la cinetica slide di Luther Dickinson, sempre più decisiva nel riversare sulle canzoni una copiosa dose di fango del Mississippi. Il risultato è un sound da juke joint che sa terribilmente di blues e di Faces, che occhieggia ai Led Zeppelin primo periodo in Movin’On Down The Line e che nell’iniziale Goodbye Daughters Of The Revolution col suo carico di ribellismo rispolvera il rock barricadiero di Street Fightin’ Man.
Gli Stones early seventies sono dappertutto in Warpoint, soprattutto nella abrasiva cover di God’s Got It di Reverend Charlie Jackson ma il dato che più risalta è la nuova vocazione balladiera dei Crowes che si consuma in splendide ballad quali Oh Josephine dal finale epico, nel semi folk di Locust Street e nella conclusiva Whoa Mule che con tabla, sitar e chitarre acustiche riprende la strada di un rock avulso da condizionamenti commerciali e solo rivolto ad un messaggio di fratellanza universale. Pacifisti, libertari e antiproibizionisti i Black Crowes sono una band fuori dal tempo e dalle mode, suonano come fossero nel 1971 e cantano con l’innocenza di Volunteers chiamando i loro sostenitori brothers and sisters. C’è bisogno di altro per amarli?

Mauro Zambellini (16 mar 2008)

giovedì 25 settembre 2008

Willy DeVile a Trezzo sull'Adda


(14 marzo 2008) Sono passate due settimane ma il ricordo è ancora vivo e pulsante. Pensavo di trovarmi un DeVille acciaccato e stanco, seduto sullo sgabello a cantare i suoi dolenti Delta blues sporchi di Messico ed ecco invece il concerto che non ti aspetti, un concerto che nessuno osava prevedere alla vigilia, che ha riportato in auge il sound eccitante e sporco di Mink deVille. Un concerto ad alto tasso elettrico con il rock sugli scudi che ha riproposto lo stile spavaldo e i modi crudi del DeVille newyorchese degli anni ’70 e primi ’80, con tanto di Gibson alla Chuck Berry e la voce affilata che canta  Spanish Stroll,  Savoir Faire,  Venus Of Avenue D,  White Trash Girl,  Cadillac Walk e Italian Shoes con una determinazione ed una forza che era da parecchio tempo che mancava negli show del gitano.

Quello al Live Club di Trezzo è stato un concerto che ha rammentato il DeVille velenoso e duro del CBGB’s, pur con le differenze d’età e di un fisico ormai ridotto all’osso. Alto, magnetico, pallidissimo e magro da morire, Willy è apparso però più forma che nelle precedenti esibizioni italiane quando seduto sullo sgabello con la chitarra acustica incantava i presenti con commoventi ballad che traevano spunto dai suoi amori per il soul, il blues, New Orleans ed il vecchio jazz di Bourbon Street. Questo lato intimo di DeVille non è andato perso perché anche a Trezzo Willy ha alternato ai momenti più lancinanti e rock alcuni siparietti in cui ha fatto il bluesman di razza con una fangosa Muddy Waters Rose Out Of The Mississippi Mud oppure strizzando il cuore dei presenti con le struggenti Trouble In Mind, Heart and Soul  e Let It Be Me o spingendosi nei quartieri dello spanglish con la sua personale versione di Hey Joe e con l’ormai classica  Demiasado Corazon.

Ha anche avuto il tempo di “promozionare” Pistola alla sua maniera ovvero con soli due brani, So So Real e Been There Done That, dando ulteriore conferma della sua totale indipendenza verso i modi e i calcoli dello show business  e poi ha evocato da vero sciamano gli spiriti del bayou con la cantilenante Cheva. Ma gli highlights  dello show sono arrivati dal Mink De Ville tagliabudella delle notti newyorchesi, quando era di casa al Cbgb e il suo pachuco rock era la cosa più pericolosa della città almeno in termini di contaminazioni tra rock bianco e i suoni dei “negri” e degli ispanici. Così al pubblico più stagionato è sembrata magia riascoltare intense riproposizioni di  Mixed Up Shook Up Girl e Venus Of Avenue D recuperate dal primo album Cabretta e la devastante versione di Steady Drivin’ Man, punto sintesi tra Phil Spector, NY sound e i Rolling Stones, felice eredità di quel capolavoro che risponde al nome di Return To Magenta.

Vestito di nero con una palandrana da pirata dei bassifondi di Parigi più che dei Caraibi, imponente sul palco nonostante la sua magrezza, Willy ha fumato solo una sigaretta, bevuto succo di frutta e lanciato rose bianche ai presenti ma la sua musica è apparsa sconvolgente e stordente come quando si imbottiva di droghe e metteva paura a chiunque lo incontrasse nella notte e nelle stradine della Lower East Side di New York.

A dividere il palco con lui una Mink De Ville Band assemblata attorno a due vecchie conoscenze, il bassista Bob Curiano ed il batterista Shawn Murray, con Willy negli anni 80 e 90. Oltre a loro il chitarrista Mark Newman, non certo al livello del grande Fred Koella ma volonteroso ed efficace, il percussionista Boris Kinberg, il bravo Davin Brown al piano e le imponenti presenze femminili di Dorene e Madonna Wise, due vocalist che hanno tinto di gospel i brani di più recente scrittura. Una band non virtuosa ma compatta, energica, essenziale allo stiletto-rock di un DeVille che ha dimostrato una volta di più la sua imprevedibilità . Grande, unico, meraviglioso ed immortale. L’ultima delle rockstar. 


Mauro Zambellini

mercoledì 24 settembre 2008

John Fogerty a Milano 12 giugno 2008


Strepitoso. Una festa del rock n’roll. E’ arrivato in treno alla stazione Centrale di Milano alle 20.45 come un lavoratore qualsiasi e alle 21.35 era sul palco pronto con Travelin’ Band ad incendiare l’aria dell’ Alcatraz  con il migliore canzoniere del rock n’roll esistente, facendo cantare 2800 persone con una musica gioiosa, coinvolgente, trascinante e senza tempo. 

John Fogerty è un miracolo della natura, la sua voce non ha subito negli anni la minima scalfittura, è bella, potente, espressiva e la sua musica è calda e solare come un pomeriggio estivo californiano. Se qualcuno pensava di trovare un residuato dei sixties è rimasto seccamente smentito, quello di Milano è stato uno show memorabile con un John Fogerty da favola. Il miglior concerto rock di questa prima metà del 2008. Commovente, esaltante, vario, duro e tenero, con tante, tantissime canzoni dei Creedence in pista, specie nella prima parte dello show (Bad Moon Rising, Green River, Who’ll Stop The Rain, Susie Q, Born On The Bayou, Looking Out My Backdoor, Midnight Special) e nell’ultima (Swett Hitch-Hiker, Down On The Corner, Up Around The Bend, Hey Tonight, Fortunate Son) , una parte centrale in cui si sono sentiti echi di musica country e cajun con tanto di violino e fisarmonica e alcuni estratti del recente Revival (Don’t You Wish It Was True, Gunslinger, Broken Down Cowboy) ed infine un bis all’insegna del sing along collettivo con tanto di  Rockin’ All Over The World e Proud Mary. Unico neo della serata la mancanza della struggente Deja Vu (All Over Again)  ma glielo si può perdonare a questo “Beatles dei poveri” che nel magico biennio 1969/1970 con i suoi Creedence Clearwater Revival superò gli stessi baronetti in quanto a 45 giri nelle top ten. 

Con lui sul palco dell’Alcatraz c’era un fenomenale band di sette elementi, una armata che in certi momenti aveva cinque, dico cinque, chitarristi e poi basso (Dave Santos) e batteria, e che batteria perché Kenny Aronoff è un monumento del drumming, un picchiatore dinamico e versatile che ti fa vedere le stelle solo guardarlo. Imponente, muscoloso, energico, dominante ma anche appartato quando è necessario (in pezzi come Midnight Special. Cotton Fields, Broken Down Cowboy), è il miglior batterista rock che mi sia capitato di vedere, assieme a Charlie Watts. Poi, quando i chitarristi rimanevano “solo” in tre (Fogerty, il rockabilly cat Billy Burnette e lo scatenato barbuto Hunter Perrin), Matt Dolan si piazzava all’organo e Jason Mowery (ex Keith Urban band) prendeva il violino. Una band a geometria variabile, pronta ai cambi di scenario delle canzoni del leader, perfetta nei suoni e potente come poche ad esprimere il miglior suono del rock n’roll americano. Ma è John Fogerty il mattatore, l’working class hero, il rocker dalle cento energie, capace di stregare una intera platea con la sua camicia a scacchi e il suo bandana rosso attorno al collo (stesso look di Cosmo’s Factory anno 1970), i suoi modi schietti, le sue canzoni semplici, la sua voce squillante e la spontaneità dei gesti, come quando all’inizio di ogni brano confabulava coi musicisti quasi a scegliere lì per lì il pezzo da eseguire. Una vitalità da far invidia ad un ventenne, mobile sul palco, sicuro col microfono, pronto ad ogni brano a cambiare chitarra, dalla Fender alla Gibson all’acustiche e a cambiare velocità e umori passando dal rock n’roll alla Berry, al country-rock, dalle ballate (poche in verità) al R&B, dalla musica cajun  a quello strambo connubio di pop, roots e swamp-rock che sono le sue inconfondibili canzoni. Un vero artista del rock n’roll, popolare e sincero come la sua musica, capace di entusiasmarsi e gioire come il pubblico che si è trovato di fronte, un pubblico magnifico che ha cantato, applaudito, osannato, partecipato e gli ha strappato più di una volta un sentito i loooove youuuu e “non dimenticherò mai questa serata”..

Quello di Milano è stato uno show speciale per tante ragioni, per la vitalità del leader e la bravura della sua band, per il pubblico, per lo splendido e immortale spettacolo del rock n’roll, perché il 12 giugno del 2008 era la prima volta che questo artista si esibiva in Italia. 

Un evento eccezionale che non ha avuto nessun momento retorico e celebrativo ma solo tanti momenti musicalmente memorabili, dall’inizio al fulmicotone di Travelin’Band a quella  Who’ll Stop The Rain che arriva sempre puntuale nei giorni di pioggia, da una pregnante e scura versione di I Heard It Through The Grapevine con un il grande  lavoro di Hammond da parte di Dolan alle dureKeep On Chooglin’ e Ramble Tamble trattate alla maniera psichedelica ampliando i tempi con lancinanti assoli di chitarra, da quella specie di autobiografia che è Old Man Down The Road alle note di speranza di Have You Ever Seen The Rain  capace di far cantare anche l’ultimo degli stonati, fino alla micidiale Fortunate Son. C’è stato spazio anche per una scalpitante versione di Night Time Is Right Time di Ry Charles (la fanno anche gli Stones nelle ultime tournee) e un inedito, Comin’ Down The Road che, come ha detto Fogerty, è stata tenuta per tanto tempo nel cassetto e stasera la voglio dedicare a voi.

Una serata magica quella del 12 giugno all’Alcatraz. 


MAURO ZAMBELLINI     GIUGNO   2008


lunedì 8 settembre 2008

BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND MILANO SAN SIRO 25 GIUGNO 08



È stato un concerto memorabile per l’entusiasmo di tutti, in primis Bruce ed il pubblico ma anche della E Street Band che è apparsa un po’ meno “legata” rispetto al concerto milanese del 28 novembre. Non sono d’accordo con chi dice che questo è stato il concerto di Bruce migliore di sempre ma certo la gioia e la commozione e l’entusiasmo che hanno avvolto San Siro sono stati un evento biblico tanto che ad un certo punto, prima del finale con Twist and Shout, Bruce ha guardato negli occhi Little Steven e ha proferito unbelievable! Incredibile in tutti i sensi, uno show in cui Bruce è stato tutto, rocker e giullare, entertainer e songwriter, soulman e bluesman, capace di essere contemporaneamente Bo Diddley ed Elvis Presley, Bob Dylan e James Brown, Eddie Cochran e the saint of the city. Peccato non ci fosse nella scaletta a richiesta It’s Hard to Be A Saint of The City ed invece la bella ragazza delle prime fila preferisse una piuttosto anonima None But The Brave, degna solo di essere abbastanza rara ma non certo emotivamente storica. Ma i gusti non si discutono, visto che se avessero chiesto a me avrei suggerito Roulette visto che Scajola è in fregola col nucleare e magari ricordare cosa sia successo a Three Miles Island non fa male oppure Candy’s Room che Bruce ha prontamente letto nel mio pensiero e l’ha fatta senza battere ciglio. Peccato fosse nella prima parte dello show quando mi trovavo nel prato abbastanza a ridosso del palco e l’audio sembrava quello di uno scadente bootleg dei primi anni ottanta. Basso pompato, chitarre impiastrate, distorsioni a palla e la voce che si faceva fatica a sentire. Ho temuto il peggio e quasi mi mettevo a piangere, ho solo avvertito l’onda d’urto di Summertime Blues, ho fatto finta di gioire con Spirit of The Night, uno dei miei pezzi preferiti e ho cercato un rimedio all’ incapacità tutta italiana di offrire un suono come si deve rifugiandomi nelle note di Darkness. Poi ho deciso di allontanarmi e di spostarmi sulla destra del palco, più o meno nella zone delle birre ed è stato un altro concerto, il sound è migliorato, la notte è scesa, Bruce si è illuminato e San Siro si è incendiato. Libero da vincoli, da resse, dall’impegno di ricordarmi per forza tutti i passaggi del concerto, tutti i trucchi e gli assoli, cose tipiche di un recensore attento e responsabile, mi sono liberato e ho vissuto la musica di Bruce e della E Street Band come fosse stata la prima volta che la vedevo e la vivevo dal vivo.

È stata una epifania, sono nato di nuovo come springsteeniano, ho gioito come un bambino, ho ballato come uno sballato, mi sono emozionato come un innamorato, ho abbracciato e baciato la mia ragazza su I’M On Fire, ho suonato la chitarra con Because Of The Night come fossi stato al Bottom Line di New York nel ’78, sono salito in cielo quando è arrivato il sontuoso, imponente, mistico e sublime finale di Racing In The Street, roba mai sentita prima in una versione di così tanto lirismo anche se sono un veterano della Zurigo del ’81, ho scambiato la mia birra col primo che passava perché entrambi avevamo il sorriso e la felicità addosso quando Bruce cantava Long Walk Home. Mi è perfino sembrata bella Last To Die e ho goduto sia nel sentire un’altra volta, l’ennesima, l’asfalto bruciante Born To Run sia nel non sentire Thunder Road che come ho confidato ad Antonio e Matteo, lì vicini, ebbri di birra e kilometri (otto ore per venire da Portogruaro a Milano su quella infernale autostrada che non è assolutamente fatta per correre) a costo di essere lapidato da uno stadio intero, non ne posso più di sentirla, con quel coro oh oh oh thunder road oh thunder road che mi fa venire in mente l’ ecumenismo dei papa boys . Non abbiatemene a male ma preferisco il rock laico. Ho sudato l’ultima goccia di una giornata torrida con la Detroit Medley ricordandomi di tutti quei bootleg comprati negli anni settanta quando Springsteen era una cosa da carbonari ma quei carbonari sapevano già che fantastico come lui nel rock non ci sarebbe stato nessuno, nemmeno Elvis e Dylan, Young e Van the Man e poi ad un certo punto mi è venuto il magone perché quando è arrivata Bobby Jean mi ha assalito la paura, una malinconia infinita, una stretta al cuore, quasi una certezza vedendo quell’uomo così generoso e forte ma non più giovane e quegli amici ormai un po’ malconci e stanchi che facevano di tutto per sembrare quelli di sempre, che quella fosse l’ultima volta che avremmo visto Bruce con la E Street Band. Mi sono fatto coraggio dicendomi che se i Rolling Stones erano ancora in giro avrebbero potuto esserlo anche loro ma quelli hanno fatto il patto col diavolo ed invece questi sono come noi, umani, mortali, vulnerabili. Quasi uno sconforto mi ha preso, uno sconforto felice perché intanto la musica andava avanti e American Land batteva come una danza celtica di orgoglio e amore universale ma nel mio intimo sapevo che quegli uomini che stavano sul palco e avevano reso la mia vita e quella degli ottantamila presenti migliore di come era stata programmata, una volta che non ci sarebbero stati più ci avrebbero resi orfani di una delle cose più belle che l’esistenza ci ha regalato. Una volta andati avrebbero portato con sé una parte importante della nostra vita.

Che Dio o il rock n’roll renda eterni Bruce Springsteen e la E Street Band. Non è possibile vivere senza.


MAURO ZAMBELLINI

Zambo's Place


Insegnante di matematica (ancora per poco), biker in estate e velista nelle stagioni di mezzo. In inverno va in piscina.
È nato in provincia di Varese ma avrebbe preferito Baton Rouge, si è adattato alla grigia Padania (in tutti i sensi) grazie alla musica della Louisiana, al rock di John Fogerty e alle storie blue collar di un tale Bruce Springsteen. Ha collaborato per tanti anni col mucchio selvaggio poi è passato alla rivista concorrenziale buscadero perché sempre di Peckimpah si tratta. Ha scritto libri sul rock-blues, sul southern rock e trasmesso dalla mitica Radio Varese degli anni '70, a Radio Popolare e RAI Stereo Notte. Oggi cura molto la sua vintage Honda four 500 del 1978 e sta preparando un libro su “exile on main street”

work in progress


Questo è un trasloco. Il blog originale era qui (ed è li infatti che trovate l'archivio dei post), ma il cattivo funzionamento del sito ci ha obbligati a trasferirci su Blogger. 
Siate i benvenuti: mi casa su casa.