mercoledì 26 novembre 2008

The Gabe Dixon Band


Ecco un piccolo grande disco passato inosservato in questo autunno pieno di novità discografiche. Non è il tiro delle chitarre o la verve rocknrollistica a conquistare in questo disco ma l’intrigante appeal melodico che scaturisce dalla maggior parte delle canzoni. Fautore di una attitudine melodica così spiccata e brillante è il cantante  Gabe Dixon la cui abilità al piano e alle tastiere gli ha valso una attiva collaborazione con Paul McCartney. Forte di una personalità e sensibilità artistica  non comuni, Gabe Dixon è in grado di caratterizzare in maniera unica  un trio la cui musica vivace e ispirata riporta alla mente episodi illustri del songwriting anni ’70 come il Jackson Browne di For Everyman , l’Elton John di Tumbleweed Connection, la Carole King di Tapestry e Joni Mitchell oltre a fornire scampoli di soul  nello stile Stevie Wonder.
Lontano dai gesti rudi dei gruppi di americana e dal rock chitarroso di tante giovani band americane, Gabe Dixon ha scelto di percorrere una via meno spettacolare e diretta affidandosi alle melodie, alle ballate, alla voce armoniosa, al piano e ad alcuni arrangiamenti che non tradiscono la sua educazione classica e la sua curiosità verso il jazz. Con questi strumenti e con l’aiuto del valido bassista Winston Harrison e del batterista Jano Rix, Gabe Dixon  arriva al cuore con la dolcezza e con una musica ben congeniata mai noiosa ma ricca di  aperture luminose. 
Gabe Dixon è un musicista di talento, tecnicamente dotato e con un buon songwriting, qualità che riversa in canzoni ricche di dettagli e di potenti metafore,  storie romantiche e spirituali che parlano di viaggi e di stati mentali come fossero punti di una mappa esistenziale. Dall’ispirata Disappear, alla splendida Further The Sky, cantata con Mindy Smith fino a Find My Way,  un r&b ritmato  e  nervoso e  a Far From Home ovvero Steve Wonder meets Ben Folds, il disco emana una  atmosfera positiva e un aria ottimista anche se sono le ballate non rinunciano ad andare sottopelle e scavare nelle emozioni nascoste. Sono queste il traino della musica della Gabe Dixon Bande non potrebbe essere diversamente visto che le chitarre stanno a guardare un pianoforte che la fa da padrone.
La bella foto di copertina di suggestione southern è di Henry Diltz i cui scatti hanno reso celebri  Neil Young, i Doors e Crosby, Stills & Nash ovvero alcuni degli eroi del nostro.  Che sia di augurio?

MAURO ZAMBELLINI          SETTEMBRE 2008

giovedì 20 novembre 2008

Paul Weller Live at the BBC


Uno strepitoso box formato libro con quattro cd racconta la storia delle registrazioni per la BBC di Paul Weller. Come nella migliore tradizione dei grandi artisti inglesi anche per Paul Weller è arrivato il momento degli archivi della BBC e mai come questa volta l’operazione appare superba, ricca, magnifica, varia: quattro CD con tanto di booklet e splendide fotografie raccontano la storia delle registrazioni di Paul Weller per la famosa emittente inglese  dal 1990 al 2008 attraverso 74 tracce, alcune acustiche in solitario con la chitarra e col piano, qualcuna unplugged con la band generalmente effettuata live in studio , tante in elettrico con la band al completo ricavate da concerti  registrati dalla BBC al Town and Country Club, a  Finsbury Park, alla Royal Albert Hall e  al Phoenix Festival. C’è tutto Weller in questi quattro CD, brani che ricordano il duro e tagliente punk-mod act dei Jam e brani risalenti al Cappuccino Kid degli Style Council,  ballate pastorali ispirate dai Traffic come Wild Wood  ed il brillante brit-pop-rock del vendutissimo Stanley Road, autentiche frecce spezzacuori come Broken Stones  e gemme di soul puro risalenti all’album Studio 150 , un crudo rock chitarristico da club londinese ed il trasognato e contorto crossover di funky, jazz e avanguardia esplorato nel recentissimo 22 Dreams. L’artista Paul Weller è sezionato  in tutti i suoi aspetti con registrazioni che mantengono la spontaneità e l’immediatezza delle sessions e delle prove uniche,  atti non ripetibili proprio perché la seduta radiofonica non concede ripetizioni anche se regala la possibilità di fare qualcosa che  non apparirà mai in un disco o nella programmazione di un tour. Ecco quindi rarità come la cover di The Poacher di Ronnie Lane, la versione acustica di Clues (era sul suo omonimo primo disco solista del 1992) e la rilettura di un minor hit dei sixties quale Pretty Flamingo dei Manfred Mann.
Paul Weller si conferma artista  flessibile, poliedrico, ricco di sfaccettature, bravo come autore, cantante e musicista, capace di tenere la prova acustica con sola voce e chitarra, spesso una trappola per artisti non troppo dotati e nello stesso tempo sfoderare una carica elettrica da vero rocker quando con la band infila una serie di pezzi che dalle terre inglesi battute dai Kinks, Who e Beatles arrivano ai lidi americani del soul, di Curtis Mayfield, di Dylan, di Dr.John di cui viene ripresa in strepitosa chiave psichedelica di Walk On Gilded Splinters. 
Live At BBC appare come la migliore retrospettiva in presa diretta di Weller  ed uno dei box  rivelazione dell’anno, con belle versioni acustiche di Fly On The Wall, Pink On White Halls , Among Butterflies, una Wild Wood semplicemente strepitosa e spigolose versioni di Whirlpool’s End, Out Of The Sinking, Broken Stones, The Changimen, Mermaids dove affiora l’inossidabile urgenza mod del personaggio. Molte anche le ballate tra cui una Time Passes da lacrime agli occhi con quel giro di chitarre che è una poesia. 
Contemporaneamente all’uscita del cofanetto quadruplo viene pubblicato anche il DVD con lo stesso titolo Live At BBC che comprende le esibizioni di Paul Weller tratte dalle trasmissioni televisive Later With Jools Holland, BBC In Concert e Top Of The Pops più vari video clip promozionali. 
Chi non avesse paura del british rock qui può trovare pane per i suoi denti. 

MAURO  ZAMBELLINI


martedì 18 novembre 2008

Fleet Foxes in concerto


MILANO (MAGAZZINI GENERALI ) SABATO 15 NOVEMBRE

Non so perché mi piacciono visto che la mia formazione rock è più rootsy e più esposta verso quel mondo di strade blue che incrociano gli Stones con Springsteen e Dylan ma i Fleet Foxes visti nel precario spazio dei Magazzini Generali hanno risvegliato in me l’amore verso quel folk underground che negli anni ’60 accompagnava certe esperienze eclettiche e fuori pista. 
Già per come si abbigliano e per come portano i capelli, Robin Pecknold e soci sembrano usciti da una cantina o da un club di San Francisco del 1967 ed anche il loro approccio verso lo show e verso il pubblico trasmette quella informale spontaneità che caratterizzava la prima stagione del rock quando le esibizioni non erano così impacchettate ed ingessate come quelle di oggi. 
I cinque ragazzi di Seattle soffiano l’aria fresca della north-west coast americana proponendo una musica che è rock negli strumenti e folk nelle liriche e nelle voci. Il concerto dimostra quanto siano fuori corrente anche se lontanamente imparentati con il freak folk: una selezione di brani, in pratica il loro album omonimo al completo, basati su una armonia vocale sorprendente, spesso ardua nei toni alti alquanto vertiginosi e su  una intelaiatura strumentale tra l’acustico e l’elettrico dove la fanno da padrone il suono delle chitarre, l’accompagnamento di una tastiera o di un mandolino. 
Il loro è uno strano folk/rock di natura  underground che non nasce nella tradizione di Dylan e simili, piuttosto rimanda al folk inglese dei Fotheringay e dei Renaissance e ad un coraggioso quanto mai improbabile connubio di  Beach Boys e canto gregoriano. C’è un che di liturgico nell’unisono delle voce dei Fleet Foxes, un’atmosfera che ammalia e affascina e coinvolge emotivamente al di là delle incertezze strumentali che ancora rigano il loro set e a qualche comprensibile caduta vocale del loro cantante leader, scivolato su un paio di vette davvero ardite. Dal vivo appaiono meno immacolati che su disco, tengono  la scena con la leggerezza e l’incoscienza degli esordienti, spargono spontaneità e benessere con canzoni dall’aria candida e con armonie vocali che sembrano uscite da una chiesa gaelica. Fanno funzionare bene i titoli più conosciuti come Sun It Rises, Ragged Wood, Quiet Houses, la sontuosa ed epica Your Protector strimpellano le chitarre con caustica convinzione come fossero una trasposizione di qualche gruppo underground  dei sixties senza però lasciarsi trasportare dai watt e dagli assoli,  scherzano col pubblico, numeroso e soddisfatto, come si trattasse di una esibizione tra amici e si perdono nei paradisi artificiali delle loro armonie con fare trasognato. 
Sono completamente originali, freschi e luminosi e che siano bravi anche nel songwriting lo si vede quando il frontman Pecknold si cimenta da solo con la chitarra acustica evocando gesti di una lontano poetico ed innocente Greenwich Village. Che sia una nuova primavera del folk ?
 
Mauro Zambellini

venerdì 14 novembre 2008

Il tempo è dalla nostra parte


45 anni con i Rolling Stones, a cura di Mauro Zambellini 

Chi l’ha detto che i Beatles sono stati i migliori ? Dalle cifre sembrerebbe di no. A differenza degli illustri Fab Four, i Rolling Stones sono ancora in scena oggi, vivi e pimpanti più che mai, dopo quarantacinque anni di musica, concerti, dischi, tour, film, video, droga, alcol, donne, morti, dollari e tutto quanto fa spettacolo. Dopo 60 album ed una valanga di dischi singoli, Ep, box antologici e raccolte, i Rolling Stones fanno ancora parlare di sé e sono ancora il simbolo di quell’ eccitante  rock n’roll nato dal blues e dalla insoddisfazione giovanile, basta vedere le immagini dello splendido film di Martin Scorsese , Shine A Light,  che li ha ripresi dal vivo durante un concerto dell’ultima tournè al Beacon Theatre di New York. Come hanno fatto a resistere così a lungo? Semplice, primo hanno venduto l’anima al diavolo, la ricordate Sympathy For The Devil ?, secondo non hanno mai venduto il loro cuore, che è sempre stato innamorato del blues dei grandi vecchi (Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Elmore James, Jimmy Reed) e dello sprizzante rock n’roll degli anni cinquanta, in particolar modo quello di Chuck Berry. In 45 anni di storia sono rimasti fedeli ai loro primi amori (musicali) e proprio per questo hanno resistito al tempo, al cambio delle mode, degli scenari e delle generazioni, forgiando un rock tinto di soul e di blues tanto imitato quanto ineguagliato, uno stile che è diventato il classico dei classici.
Il Tempo è dalla Nostra Parte, un testo di 120 pagine con annessa discografia completa e videografia essenziale, scritto da Mauro Zambellini racconta la storia dei Rolling Stones non dalla parte dei pettegolezzi e degli eccessi ma dalla parte della musica e dei dischi tracciando un vero e proprio viaggio che inizia con le radici dei musicisti e finisce con il loro film con Scorsese. L’ultimo capitolo del libro, opera della penna di Marco Denti, ricompone il rapporto tra gli Stones ed il cinema ma prima di arrivare a Shine A Light  il libro racconta la lunga avventura musicale della band inglese attraverso Stonesville ed In Esilio sulla Costa Azzurra  dove viene analizzato il loro periodo più creativo e decadente, quello che porterà alla genesi di un album così importante, per loro e fondamentale, per il rock n’roll, come  Exile On Main Street.
Avvincente, scorrevole, ricco di informazioni e scritto senza le deformazioni del fan tout court ma col ritmo delle canzoni degli Stones,  Il Tempo è dalla Nostra Parte, che esce annesso al DVD Shine A Light per la collana Real Cinema della Feltrinelli, è un viaggio in 45 anni di luci e ombre ed un sincero atto d’amore verso la più grande rock n’roll band della storia..