venerdì 31 luglio 2009

Bruce Springsteen and the E Street Band Udine 23 luglio Stadio Friuli



Ho scelto Udine questa volta per vedere Bruce. In mancanza di Milano mi è sembrata la scelta, per me, più logica visto che da quelle parti ho degli amici fantastici che hanno organizzato un mini-bus che ci ha portato prima in una cantina di Nimis ad assaggiare vari tipi di Refosco, poi in una ombrosa trattoria, Ramandul, di collina dove si è dato fondo alla nostra fame impenitente ed infine sul torrente Torre dove un tuffo nella fresca acqua di montagna ci ha tolto via i fumi dell’alcol e del cibo. Quando siamo arrivati, una ventina di persone, allo Stadio Friuli eravamo perfetti, pronti a calarci nella calura del concerto. In effetti Udine si è dimostrata una scelta azzeccata dal punto di vista della cordialità e della educazione delle persone, viva il Friuli e i paesi limitrofi, Slovenia, Austria e Croazia compresa, nessuna scena isterica di fan isterici, tanti giovani almeno nel prato, bella atmosfera rilassata e pacifica, acustica ottima, organizzazione efficiente sebbene l’uscita dalla zona stadio con le auto in Italia è sempre problematico. Tutto bene da questo punto di vista e tutto bene anche il concerto anche se,a dire la verità, ormai con Bruce non si tratta più di concerto ma di un immenso party felice e gioioso dove la gente canta, balla, grida, invoca, applaude, piange, sogna, agita le mani, sorride e desidera che lo show non finisca mai. Ci sono stati momenti davvero emozionanti durante lo show almeno per quanto riguarda la musica visto che al di là della festa e del calore collettivo che si respira in un concerto della E Street Band è la cosa che amo di più, quel qualcosa che mi scardina le corde della razionalità e mi immette in uno stato di esaltazione positivo, quasi erotico.. L’inizio di Sherry Darling è stata una sorpresa ma ancora di più è stato sentire e vedere quanto evocativo dal vivo sia Outlaw Pete con quelle immagini western rosso fuoco che rimandano all’immaginario di John Ford. Una ballata strattonata da molti springsteeniani della prima ora ma che nel tour attuale brilla come una delle cose fondamentali e rappresentative dell’intero show. Grande emozione per l’arrivo di Something In The Night una ballata dai toni epici e notturni che per chi è cresciuto con Darkness nel cuore è più che una dichiarazione d’amore, è qualcosa che ti avvinghia i sentimenti e ti rimanda ad un epoca in cui sognavi un mondo molto diverso da quello che poi ti è capitato di vedere. E’ una poesia, è una ode, è un miracolo di lirismo in bianco e nero che ti scorre davanti agli occhi e ti proietta in un film su New York con addosso la speranza di una vita da eroe. Qui Bruce si ricorda del suo passato e sciorina tutto il suo romanticismo da giungla urbana, cosa che succede anche in No Surrender, un canto di resistenza universale contro le brutture del mondo ed il tempo che uccide le speranze, rivisitata in un tempo accelerato e con una lievità diversa dall’originale. Singhiozzi al calore del boogie per Summertime Blues, finalmente udibile nel suo grandioso ed anfetaminico incedere alla Eddy Cochran dopo quella inascoltabile e inascoltata versione di San Siro dello scorso anno, quando gli amplificatori sputarono nientaltro che rimbombo e rumore. Delle canzoni dei cartelli Bruce ha scelto Be True. Niente da dire sulla sua scelta, l’ha scritta lui e ha il diritto di cantarla quando vuole ma vorrei trovare quello che ha innalzato quel cartello e chiedergli se non aveva altro di meglio da fare quel giorno perché Be True sarà anche una canzone del Boss ma in una possibile playlist non la metterei nemmeno tra le prime cento. Che Dio lo stramaledica visto che a Torino qualcuno, un santo, ha proposto Drive All Night e a Bilbao ovvero il concerto dopo Udine sono entrate in scena Factory e Because The Night oltre a This Hard Land e Does This Bus Stop at 82 Street, roba da far resuscitare i morti. Se aggiungete che sempre a Bilbao sono finite in scaletta anche You Never Can Tell di Chuck Berry e Jungleland vi rendete conto di come Udine, sebbene benedetta dalla grappa, sia stata un po’ troppo sotto gradazione dal punto di vista della scelta delle canzoni. Per fortuna Udine ha beneficiato di una grandiosa versione di Streets Of Fire, premiere europea del WOAD tour dove la E Street Band si è ricordata di che band fosse una volta e Nils Lofgren ci ha messo del suo per far capire che un conto è il party e un conto è il rock n’roll. Streets of Fire, a parere del sottoscritto,è l’assoluto highlights dello show, una intensità ed un vibrare elettrico da far paura. Bella anche la seguente My Love Will Not Let You Down, fresca e byrdsiana nonostante non sia nulla di trascendentale e di fatti era stata ripresa da Tracks ma che invecchia bene perché frizza come un prosecco dalla bollicina fine. Non capisco perché Bruce si ostini a presentare Waitin’ On A Sunny Day, è dal 2002 che ce la fa sentire, adesso è ora di metterla in archivio o almeno in standby , magari tirandola fuori sometimes, nel Minnesota o nel Kansas ma non da noi dove l’hanno sentita tutti, anche i bambini piccoli, che sono sempre di più ai concerti di Bruce, dimostrazione di un evento in cui la violenza non è di casa. Nonostante lo show abbia le sembianze di una festa, Bruce ha l’innata capacità di far pensare e riflettere anche nei momenti più allegri e spensierati. Lo dimostra la versione cupa e drammatica di American Skin con quei 41 colpi che rimbombano nelle coscienze di ognuno degli spettatori ricordando che l’America di oggi è Obama ma che la violenza, l’ingiustizia e l’intolleranza sono sempre dietro l’angolo. Per Lonesome Day valgono le considerazioni di Waitin On A Sunny Day mentre The Promised Land e Badlands non mi stancherò mai di ascoltarle. The Rising col tempo è cresciuta ed è ora uno degli inni del risorgimento americano, una canzone che parte dura e accorata e poi diventa un gospel di speranza e redenzione, un inno alla vita e alla rinascita. Bella la versione friulana. Non ho mai amato molto Born In The Usa ma a Udine è stato il primo pezzo dell’encore anche se tra il concerto e il bis e tra una canzone e l’altra non c’è stata praticamente una pausa. Bruce è tuttora un animale da palcoscenico, uno Stakanov del rock n’roll, una bestia elettrica che suona la Telecaster come fosse in una acciaieria. Born In The Usa è dura e martellante, Bruce la canta con parecchie cadute di voce, si vede che è stanco, che ha dato tutto, che con la sua energia ha portato avanti uno show ed una band che è soprattutto lui, il prigioniero del rock n’roll. Poi c’è il finale, American Land porta sul palco i Pogues, Bobby Jean fa scendere una lacrima ai più anziani, Dancing In The Dark serve a prendere per mano una ragazza (questa volta è di Maniago) e Twist and Shout mette a ballare lo stadio. Ho pregato perché il concerto non finisse con la canzone degli Isley Brothers ma è finita così. Speravo che nei bis ci fosse Jungleland o il piano di Racing In The Street o le scintille della Telecaster di Prove It All Night ma invece Udine si è dimostrata generosa per l’accoglienza e l’acustica e avara per la scaletta. Non avessi l’età che ho sarei andato davanti e avrei alzato il mio cartello con su scritto STOLEN CAR. Alla prossima.

Mauro Zambellini Luglio 2009

giovedì 16 luglio 2009

Concerti indimenticabili: Dave Matthews Band dal vivo a Lucca



Non è rock, non è soul, non è rhythm and blues, non è funky, non è jazz, non sono ballate ma è tutto insieme, un fiume inarrestabile di musica che si scompone in mille rivoli, in solismi e assoli di ogni genere, si frammenta in continui stacchi di tempo, in un groove contagioso ed ubriacante, si decompone e poi si ricombina in un'unica devastante onda sonora su cui galleggia come un surfista abile e pirotecnico Dave Matthews, con la sua voce quasi parlata, con la sua chitarra acustica dal suono cristallino, con quella verve indicibile da ragazzo della porta accanto che sta stregando un intera piazza, un intero stadio, una intera arena. Sembra sempre una ballata che parla delle cose quotidiane della vita, ora tristi ora allegre, un po’ di romanticismo e quasi mai rabbia, cantata in un modo quasi trasognato e accompagnata da una chitarra impugnata come fosse un cantautore folk-rock, però poi succede qualcosa, Carver Beaufort il batterista dalla tecnica immensa e dalla fantasia inarrestabile che suona ridendo e spezzetta il tempo come fosse un grissino, spiazza, scombina, riporta l’ordine, crea il disordine totale, rumoreggia l’estasi con un drum kit che è una sala da gioco, allora il batterista apre le danze e la ballata diviene qualsiasi cosa la musica possa abbracciare, un funky, un R&B, un rock, un soul, una danza erotica che ti entra dentro nel sangue, ti cattura, ti fa muovere, sognare e ti porta altrove. C’è fisicità nella musica della DMB, nella bella piazza Napoleone di Lucca domenica 5 luglio erano tante le donne a muoversi attorno a quell’erotismo non banale nascosto in quel fiume di note, che seduce, ammalia, abbraccia, ti spoglia di ogni rigidità, mette in movimento ogni cellula del corpo.
La DMB è un orchestra jazz che suona con l’energia del rock n’roll, c’è il cantante e poi un nucleo di strumentisti eccezionali in grado di rendere naturale il più complesso degli assoli, plasmando suoni e note a piacimento, creando solismi di straordinaria bravura che poi si amalgamano nell’insieme senza perdersi in improvvisazioni fine a sé stesse ma sempre riconducibili nella canzone che Dave Matthews tiene unita come fosse una ballata lirica, magnifica e totale. C’è tanto New Orleans nella sezione ritmica, il lontano ricordo dei migliori Neville Brothers, quelli dell’era Yellow Moon, ci sono i Little Feat del periodo Dixie Chicken e quel senso della sinfonia soul universale del Van Morrison dell’età dell’oro, ma i paragoni valgono per quello che valgono perché la DMB è quello è altro, è passato ma soprattutto presente anche se il rientrato Tim Reynolds fa gli assoli da vero sideman e Jeff Coffin col sax soprano rievoca un mondo di colossi del jazz. C’è un trombettista, Rashawn Ross che interviene potente, c’è un bassista, Stefan Lessard che non ha nulla da invidiare al povero Allen Woody dei Gov’t Mule, c’è un violinista Boyd Tinsley che si diverte sulle vette sonore come uno sciatore fuori pista suonando sempre al culmine dell’intensità.
Quello di Lucca è stato un concerto di una intensità rara, a dir poco eccezionale, di quelli che si ricordano per anni, tre ore e quindici minuti di puro delirio sonoro che hanno portato una intera piazza in paradiso a vedere da vicino Dio. Sono stati i brani dell’ultimo album Big Whiskey & Groo Grux a fare da ossatura al concerto anche se Shake Me Like A Monkey, Funny The Way It Is e Spaceman nella prima metà del lunghissimo show e poi Lying in the Hands of God, Why I Am e Alligator Pie sono state allungate, dilatate, ricreate con continui andirivieni strumentali ed una torrenziale prepotenza esecutiva divenendo delle jam all’interno della grande jam che è stata il concerto. Diciassette brani più altri sei divisi in due encore richiesti a gran voce con il finale rocambolesco di Pantala Naga Pampa e Rapunzel.
Un concerto colossale.

Mauro Zambellini Luglio 2009