mercoledì 23 settembre 2009

Cheap Wine > Spirits (Cheap Wine Records)



Spiriti inquieti, spiriti dell’alcol. Si intitola Spirits il nuovo disco dei pesaresi Cheap Wine, due anni dopo Freak Show. Ed è un disco molto diverso. Come è abitudine dei Cheap Wine ogni loro disco possiede una specie di concept, un tema che lega i vari brani, nel precedente lavoro era la metafora del freak show che denunciava un mondo che andava al contrario in cui i pagliacci erano ( e sono) al potere, i mediocri in trionfo, i millantatori applauditi, la falsità elargita ed invece l’intelligenza torturata e la verità estinta, in Spirits il tentativo di redenzione è rappresentato da due personaggi “scomodi” e controcorrente. Il primo è Silvio Corbari, giovane partigiano faentino con un talento per la recitazione ed il travestimento che durante la Resistenza “giocò” i fascisti e liberò il paese di Tredozio con un autentico coup de fou. La storia è narrata in A Pig On A Lead (i testi sono tutti inclusi nel booklet interno al CD, confezione e foto splendide) la canzone che è un po’ il manifesto di questi nuovi Cheap Wine (se ne è andato Zano Zanotti, batterista e grafico ed è subentrato Alan Giannini) molto più orientati verso un intrigante suono acustico su cui svettano gli arpeggi e gli assoli della chitarra acustica di Michele Diamantini. E’ uno dei momenti topici dell’album A Pig On A Lead, una ballata fresca dal tono zingaresco dove oltre alla stellare cavalcata acustica di Michele e alle percussioni di Giannini, si fanno apprezzare la voce ispirata di Marco Diamantini ed il bell’inciso di violino di Luca Nicolini.
Il secondo personaggio del disco è “La Buveuse” ovvero la modella Suzanne Valadon, nome d’arte di Marie-Clementine Valide, lei stessa pittrice a madre di Maurice Utrillo, ritratta dal pittore francese Henri de Toulouse Lautrec. Più che a La Buveuse, a cui è dedicata la canzone dallo stesso titolo, l’omaggio va Toulouse Lautrec, un artista tanto famoso quanto scomodo e denigrato dai suoi contemporanei per aver rappresentato senza edulcorazioni la “feccia” e i perdenti della sua epoca ovvero i miserabili, gli emarginati, le prostitute ed i frequentatori di bordelli.
A differenza di A Pig On A Leaf, La Buveuse è un brano principalmente elettrico, che gode di un mirabile lavoro di basso da parte di Alessandro “fruscio” Grazioli ma è una elettricità contenuta, un talking lento ed ipnotico, loureediano, accompagnato dalle distorsioni della chitarra e da uno azzeccato arrangiamento con la tromba (Gigi Faggi) che proietta il brano in un mondo notturno ai confini del jazz e del primo Tom Waits. Solo due episodi ma bastano a far capire quanto i Cheap Wine siano cambiati, quanto siano lontane la aggressività e la cruda immediatezza di Freak Show ed invece Spirits brilli proprio per gli umori riflessivi, gli arrangiamenti e per un sound che se da una parte non ha completamente dimenticato l’estemporaneo graffio rock n’roll dall’altra si è aperto a suggestive parti acustiche .
Il lato rock si diceva, non è andato perso, i Cheap Wine non potrebbero farne a meno, è nella loro natura, nelle loro origini, nei loro concerti. Ecco quindi brillare le chitarre elettriche in Leave Me A Drain dove si ritrovano i paesaggi di un rock urbano asciutto e duro oppure sentire il lamento blues della slide che introduce The Sea Is Down, un brano che parte con John Campbell e arriva ai Led Zeppelin. Ma le novità introdotte da Spirits e che fanno di quest’album quello “più ascoltabile” dell’intera discografia dei Cheap Wine sono il mezzo tempo bluesy dell’introduttiva Just Like Animals, l’intermezzo strumentale di Alice, un esercizio di chitarra acustica che evoca la Little Martha degli Allman di Eat A Peach e le tre ballate, Circus Of Fools, Dried Leaves e Lay Down che in qualche modo identificano il suono dell’album.
Poi ci sono le cover, Man In The Long Black Coat del Bob Dylan di Oh Mercy! è offerta con tutto il suo carico di avvolgente mistero, le sue ombre sinistre, le sue lentezze, l’armonica quasi western di Marco, Pancho & Lefty di Townes Van Zandt è toccante, timidamente eroica, punteggiata da una tristezza affascinante che la chitarra acustica, la voce qui in basso profilo di Marco e le backing vocals tengono ancorata al crepuscolo di un orizzonte americano. E’ la ciliegina sulla torta di un disco coraggioso e “adulto” che presenta un gruppo tuttora in crescita e alla ricerca di nuove vie. Che la fortuna gli sia amica.

Sul sito www.cheapwine.net le date del loro tour.

Mauro Zambellini Settembre 2009

venerdì 18 settembre 2009

Little Feat a Londra: una notte al Rainbow


Londra, 3 Agosto 1977.

Afa rifiuti e lattine di birra popolano le vie della colorata Earl's Court, quartiere dove staziono da alcuni giorni prima di fuggire nella verde isola irlandese; nelle vetrine dei negozi, nelle entrate dei pub drappi e fotografie ricordano che, nonostante tutto, la vecchia regina è più mercificata dei Sex Pistols (è l'anno del giubileo...)Fa caldo, Londra in estate è insopportabile, fuori luogo anche gli angoli scuri in cerca di delitto, qualche apparizione dei Kids in Chelsea, i fogli murali annunciano un concerto dei Fairport Convention ad Holland Park per il sabato seguente, e alcune performance live di punks minori. Compro Time Out e nella pagina quattro leggo LITTLE FEAT al RAINBOW THEATRE per 4 sere. Bevo una pinta di Guinness e benedico le mie fortune.
Sono le 19.00, il concerto è annunciato per le 20.30, cerco la più vicina stazione underground, cambio due linee, mi danno delle informazioni sbagliate, faccio 1 Km. a piedi cercando di quietare le ire dei 3 miei compagni di avventura (che di Little Feat non hanno mai sentito parlare).
Alle 20.00 sono davanti al Rainbow, fuori poca gente, come prevedevo i biglietti sono stati tutti venduti in prevendita, falconano i bagarini a 10 sterline a biglietto (prezzo regolare 2,50 sterline). Mi sembrano eccessive e molto più per i miei compagni di avventura che di Little Feat non hanno mai sentito parlare.
Il giorno seguente devo lasciare Londra, l'occasione dei Feat in concerto è unica e non rimandabile, non mi dò per vinto e tento il colpo gobbo. Individuo facilmente tra i check-man quello più vulnerabile, è un esponente del black people, gli propongo 10 sterline per tutti e quattro, lui mi fa cenno di aspettare e al momento opportuno con una losca ed abile manovra ci fa passare. Per il superamento della seconda entrata il gioco è ancor più facile e completamente gratuito.
Dopo la tensione e la paura la giusta ricompensa. Dei Little Feat conosco bene il bootleg Aurora Backseat, il primo loro album e l'ultimo Time Loves a Hero, il teatro è zeppo, il pubblico non è quello della new-wave inglese, niente giacche di pelle, niente spille, tante facce regolari, abbondanza di baffi, barbe, long-hair e altri cimeli della Londra che fu, tanti black-people e la musica poi dimostrerà il perché… insomma un ambiente sano.
Alle 20.30, senza preavviso e nella maniera più informale possibile arrivano i Feats nella loro tipica line-up: Lowell George e Paul Barrere alle chitarre, Bill Payne tastiere e poi l'incredibile sezione ritmica Kenny Gradney basso, Sam Clayton percussioni e Ritchie Hayward batteria.
Iniziano subito, tiratissimi e senza preamboli, tra i primi pezzi ricordo Oh Atlanta, Fat Man in the Bathtub e su tutti A day at the dog races (un giorno alle corse dei cani) contenuto sull'allora ultimo Time Loves a Hero ma purtroppo non incluso sull'attuale live Waiting for Columbus.
Ciò che mi sorprende e mi affascina subito è la vivacità di Paul Barrere, la nera voce di Lowell George e l'uso singolarissimo che Bill Payne fa del sintetizzatore e delle tastiere.
Grande affiatamento, musica compatta e sostenuta che lascia però spazi anche all'improvvisazione individuale, una elettricità che non è mai fine a se stessa ma è la reale nevrosi del rumore e del ritmo della città, di città come Los Angeles, contradditorio punto d'incontro tra il nord e il sud, tra il bianco e il nero, tra il ricco e il povero, tra il bello e il brutto, tra le ville di Beverly Hills e la violenza nella metropolitana, tra l'America degli Hearst e quella dei simbionesi.
Rock urbano, molte influenze bluesy, musica che prende ma mai scontata, in continuo
cambiamento, musica del nostro tempo.

Dopo un'ora di concerto ad altissimo livello entra in scena la sezione di fiati dei Tower of Power, gruppo R&B di Oakland, spiritosamente vestiti con cilindri, smoking di raso rosa o verde smeraldo, e altre clownescherie. Un attimo di incertezza, può essere la fine del suono ascoltato prima e invece il suono dei Feats si carica di quel ritmo e quella energia nera che conferiscono un immagine spettacolare ad un concerto live. I fiati si muovono e ballano in modo incredibile, vanno e vengono sul palco, mimano, ironicamente, le pose dei sax del fu Detroit sound, spiritosizzano la scena, fanno Spanish Moon, Rocket in My Pocket e i neri in sala cominciano a muoversi e a contorcersi.
Il concerto va avanti, spettacolare la versione di Dixie Chicken che già conoscevo sul bootleg, fantastico il fraseggio di Pavne al piano, indovinatissima l'entrata dei fiati nella miglior tradizione dixie e poi il sintetizzatore usato in maniera tutta americana, diretta, senza la pretesa di costruire delle opere ma ricavandoci immediatezza, ritmo e comunicazione; miscelata con Dixie Chicken ecco Tripe Face Boogie con le inaudite violenze chitarristiche e vocali di Lowell George e Paul Barrere.

Alle 22.30, dopo già 2 ore di concerto senza interruzioni, i Feats non fanno molte storie per il bis, alcuni attimi e lo show sembra concluso ma poi Willin e Don't Bogart That Joint e la platea del Rainbow, già incandescente, esplode letteralmente.
In sala c'è Mick Taylor, Paul Barrere lo invita sul palco e si assiste ad una magica interpretazione di Apolitical Blues con Taylor che tira la chitarra come ai tempi di Love in Vain.
Esce di scena Taylor, un po' stranco in verità, e i Feats si congedano con un ultimo lungo pezzo.
Ovazioni, entusiasmo, esco dal Rainbow soddisfattissimo, i miei tre compagni d'avventura (li ho visti muoversi per tutta la seconda parte del concerto) sono sù di giri, ci si caccia nel pub più vicino e si aspetta l'ultima corsa della metropolitana per far ritorno a Earl's Court.

Non solo un fantastico ricordo: a 7 mesi di distanza esce Waiting for Columbus registrazione di quel concerto al Rainbow, il più bel disco rock del '78!

Mauro Zambellini (Il Mucchio Selvaggio n. 8, maggio 1978)

martedì 15 settembre 2009

Traffic Going Up The Country



Una storia controcorrente quella dei Traffic campagnoli che presenta analogie con l’esperienza americana di The Band tra le montagne di Woodstock.
I Traffic furono la più esotica ed eclettica tra le band inglesi degli anni ’60 e la storia dei loro album incisi tra il 1967 ed il 1969 dimostra ancora una volta come l’originalità e la bellezza delle creazioni artistiche sono spesso in disaccordo con il pensiero dominante. Non è che qui si voglia entrare in politica o in filosofia, ci mancherebbe altro ma raccontare una delle più singolari e affascinanti avventure del rock anni ’60 che prese piedi proprio nel momento in cui Londra era diventata il centro pensante della nuova musica ed invece un gruppo di musicisti del milieu londinese intrapresero un’altra strada, abbandonarono l’euforica e pulsante scena cittadina e si rifugiarono in campagna, in un cottage della verde ed umida provincia inglese per vivere, comporre e suonare in una specie di comune hippy.
In quei giorni, simili scelte comunitarie erano frequenti, spesso fomentate dall’attrazione verso le religioni orientali e la ricerca spirituale, dettate da un misticismo del vivere e del sentire che stabiliva un rapporto privilegiato con la natura e l’autocoscienza. Il mondo del pop ne fu sedotto, i ritiri spirituali dei Beatles con il santone indiano Maharishi Mahesh Yogi e la scelta bucolica degli scozzesi Incredibile String Band ma ci furono anche esperienze più “laiche” come l’invito della Band a riconsiderare il retroterra culturale dell’America rurale attraverso un periodo di ripensamento trascorso in una casa isolata tra le montagne dello stato di New York e come l’ isolamento tra i boschi e le vallate della California da parte di un bluesman di provata fede urbana come John Mayall (Blues From Laurel Canyon ), esperienze diverse che testimoniano di quante tossine da smaltire avesse lasciato la sbornia psichedelica e quanta inquietudine spirituale ci fosse in giro.

Se nella grande casa rosa di legno di Surgeries The Band assieme a Dylan scrisse le tavole del testamento roots con due opere destinate a diventare leggendarie, Music From Big Pink e The Basement Tapes, in Inghilterra furono i Traffic i pionieri della svolta campestre. Lontano da Londra e dalla frenetica attività dei club riuscirono a catturare l’energia e l’ispirazione che si sviluppò in un lungo periodo di vita e lavoro in comune tra le colline del Berkshire, nella fattoria Sheepcott Farm dove nacquero i primi loro due album, quello conosciuto come Mr.Fantasy ed il secondo, Traffic, unanimemente riconosciuto come uno dei più importanti dischi del decennio.
Che i Traffic fossero un gruppo particolare che sfuggiva alla banalità pop lo si era capito fin dall’inizio quando pubblicarono nel giugno del 1967 il singolo Paper Sun, una sorta di concentrato di pop fosforescente imbottito di sitar, flauti e tamburelli che cavalcava con intelligenza l’ondata psichedelica del ’67 e poi presero a modello gli Small Faces di Lazy Sunday e i Kinks di Waterloo Sunset inventando la dolciastra marcetta hippy di Hole In My Shoe che con frasi come bibblegum trees where happiness reigned all year round giocava ironicamente con il non sense e con le rime sballate dell’epoca.
In quel fatidico 1967 non era facile farsi largo in mezzo a tutti quei tamburelli e a quel pregnante fumo d’ incenso ma loro con due 45 giri riuscirono a far meglio dei Rolling Stones con un intero album visto che di paccottiglia mistico-psichedelica era infarcito anche Thei Satanic Majesties Request. Furono altrettanto chiare le differenze esistenti all’interno del nuovo ensemble perché Paper Sun era il lavoro della scrittura del duo Winwood-Capaldi, rispettivamente cantante/organista/chitarrista e batterista del gruppo mentre Hole In My Shoe proveniva dalla penna di Dave Mason, il chitarrista che non smise mai di andare e venire ma che regalò ai Traffic canzoni di una bellezza incomparabile quali You Can All Join In, Cryin’ To Be Heard, Vagabond Virgin e soprattutto Feelin’ Alright, uno dei classici senza tempo del rock.

I Traffic si erano formati quando il tastierista Stevie Winwood, la cui voce era un precoce assemblaggio di puro soul che pagava pegno sia a Sam Cooke che a Ray Charles, aveva lasciato lo Spencer Davis Group un brillante combo di R&B di Birmingham che aveva bruciato le classifiche con Gimme Some Lovin’, un brano destinato ad offrire una delle più indimenticabili prestazioni vocali di un cantante bianco, oltretutto poco più che ragazzino (era appena diciassettenne). Il suo ululato, amplificato dal lamento dell’organo e dall’incalzare del basso del fratello Muff Winwood sembravano strapparlo fuori dal suo corpo. Stevie Winwood, cantante, autore, chitarrista, organista e pianista, era un polistrumentrista che non aveva bisogno di dividere il palco con Davis. Era entrato nello SDG all’età di 15 anni e gli erano bastati pochi mesi per oscurare la pallida figura del leader e capire che il suo futuro era altrove. Dopo un paio di singoli fortunati tra cui Keep On Running ed almeno un album degno di nota (Autumn ’66 ) nel 1967 Winwood lasciò il gruppo di Birmingham ed iniziò a gravitare attorno alle jam session dell’Elbow Rooms a Londra in Aston High Street frequentate da Dave Mason, Jim Capaldi e Chris Wood.
Mason era stato il roadie dello Spencer Davis Group per tre mesi finchè se ne era andato Winwood, aveva cantato in Somebody Help Me e suonato la chitarra in Keep On Running. Con tutti gli altri futuri Traffic aveva partecipato alla registrazione di I’M a Man, l’altro grande hit dello SDG, fu naturale quindi che i quattro si mettessero assieme. Nella nuova formazione Stevie Winwood era l’anima R&B, un cantante dotato come pochi che faceva venire in mente Ray Charles ed un organista di poliedrica abilità mentre Dave Mason e Jim Capaldi avevano assorbito profondamente la tradizione folk inglese anche se non si potevano definire dei puristi visto il loro approccio con il pop e con il blues. Chris Wood era invece il musicologo ed il jolly della squadra per via di quella sensibilità jazzistica che riusciva ad apportare con i suoi flauti e i suoi sassofoni, tanto da caratterizzare in maniera esotica un’ alchimia sonora che rese i Traffic unici tra tutti i gruppi dell’epoca, generalmente chitarro-centrici.
Nella loro versione a quattro con Mason in organico o semplicemente in trio con Winwood/Capaldi/Wood i Traffic potevano giocare su una brillante versatilità strumentale ed in particolare Winwood, che suonava tutti gli strumenti, si poteva permettere di essere un vero one-man band in grado di registrare come successe in Means To An End ed in qualche titolo di John Barleycorn tutto da solo.
Tre mesi dopo l’uscita di Hole In My Shoe i Traffic debuttarono dal vivo, il 24 settembre 1967 al Saville Theatre di London, il locale che aveva visto esibirsi Hendrix, Who, Cream, Pink Floyd e che fino all’agosto di quell’anno fu di proprietà di Brian Epstein, il manager dei Beatles. In pochi mesi il gruppo si era conquistato una attenzione fuori dell’ordinario sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori così che Chris Blackwell li assunse sotto l’egida della Island, una delle etichette più progressiste dell’epoca. Erano degli hippies, vivevano come studenti fuori sede in un appartamento a Notting Hilll e quando suonavano avevano problemi col vicinato per via del rumore, non potevano fare quello che volevano e così ben presto presero la decisione di andarsene dalla città e affittare il cottage di un guardiacaccia ad Aston Tirrold nel Berkshire, un luogo contornato da boschi di noccioli e di pini. Sheepcott Farm era ad un quarto di miglia dalla casa più vicina e per tre anni divenne il loro rifugio. Tappeti indiani furono piazzati vicino al camino (ben in vista sulla copertina dell’album Mr.Fantasy ) per dare più atmosfera all’ambiente, teatro ideale di tante conversazioni notturne concernenti l’astronomia e il Libro Tibetano dei Morti, uno dei testi d’obbligo nell’’intellighenzia hippy del periodo. In un clima bucolico e pressoché idilliaco l’idea di creare musica open mind divenne un processo naturale, non ci furono problemi nell’amalgamare il folk coi ritmi latini e con i links di jazz di Wood, le strutture della musica classica con la voce R&B di Stevie Winwood e le chitarre di Mason. La differenza con un normale un gruppo pop era costituito dalla presenza di Chris Wood il cui background esulava dai clichè tipici del rock e del pop, perché oltre al jazz, in particolare quello di Rahsaan Roland Kirk, e al folk i suoi interessi erano sconfinati e andavano dalla musica africana a quella classica giapponese.
A Sheepcott Farm i Traffic potevano suonare a qualsiasi ora senza problemi usando un generatore ausiliario perché non c’era né corrente elettrica né acqua corrente ma l’atmosfera che si creò in quelle lunghe session che si protraevano fino alle 5 dell’alba fu magica e irripetibile. Per non sentirsi completamente esclusi dal mondo reale ogni tanto qualcuno di loro faceva un giro a Londra per vedere costa stava succedendo in città e quando gli amici venivano a trovarli, ad esempio Pete Townshend, Leon Russell, Stephen Stills ed Eric Burdon, la festa si protraeva per diversi giorni con l’obbligo di un giro notturno sulla jeep di Mason nelle valli adiacenti.
In quel cottage in mezzo alle colline inglesi successe qualcosa di straordinario, mentre il resto del mondo inneggiava alla swingin’ London quattro musicisti dalla personalità molto diversa convivevano insieme isolati in campagna dividendosi compiti ed impegni e creando that pastoral rock n’ roll vibe, come abilmente la definì anni dopo il loro superfan Paul Weller. In terra inglese i Traffic furono la prima vera alternative band .

Purtroppo l’idillio non durò a lungo ed in dicembre, ancora prima della pubblicazione dell’album Mr.Fantasy il conflitto tra i due leader Winwood e Mason esplose e quest’ultimo lasciò il gruppo. I due erano attratti da stili musicali differenti e soprattutto avevano caratteri diversi ma fin quando il sodalizio funzionò la musica dei Traffic beneficiò di una ricchezza esemplare (come dimostra il secondo album del gruppo) perché i due erano complementari l’uno all’altro e si incastonavano perfettamente nel melange sonoro creato. Da una parte c’era l’ indolente attitudine folk-rock di Mason sintetizzata da una ballata epocale come Feelin’ Alright, dall’altro il colorato soul-pop leggermente acido di Winwood incarnato da Dear Mr.Fantasy. In mezzo i ritmi scomposti e spiazzanti di Jim Capaldi e l’eclettico Chris Wood che con le sue partiture di flauto e sax inventava spazi di jazz rarefatto, come è possibile ascoltare in No Time To Live e Don’t Be Sad oppure creava un esotismi sonori come in 40.000 Headmen, tre titoli facenti parte del bellissimo secondo album.
Fu il brano Dear Mr.Fantasy a suggerire il titolo del primo long playing del gruppo, lavoro che consentì al trio rimasto di imbarcarsi in un tour americano mentre Mason produceva per i Family Music In A Doll’s House e poi registrava con Hendrix e suonava in Beggar’s Banquet dei Rolling Stones.
Mr.Fantasy è un disco ancora grezzo e ingenuo nelle sue aperture verso la musica etnica ed indiana. Un cospicuo uso di sitar, tamburelli, campane, tablas trasforma alcune canzoni in veri e propri raga ( Utterly Simple )mentre altri brani ritmati come fossero delle marcette (Berkshire Poppies, House For Everyone, Hope I Never Find Me Never) emanano il profumo dei Kinks e dei Beatles più barocchi. Le composizione migliori sono firmate dal trio Winwood/Capaldi/Wood e almeno quattro sono da annoverare tra le cose migliori del loro songbook: il bucolico e rilassato canto d’amore di Heaven Is In Your Mind, la sognante e velata ballata No Face, No Name, No Number (ripresa in Italia dall’Equipe 84) bell’esempio di come la voce “nera” di Winwood potesse adattarsi ad una melodia di derivazione folk, l’incredibile ed intensa libertà artistica di Mr.Fantasy prototipo di un fare jam music che poi sarà esplorato con vigore da Al Kooper e Michael Bloomfield nelle loro Live Adventures e copiato dai Beatles di Hey Jude ed il negroide jazz-soul di Coloured Rain.
Anche se poco ricordato va segnalato infine il finale Giving To You, un intreccio strumentale di blues, jazz e rock composto da tutti e quattro i musicisti che fotografa al meglio la disinvolta unione strumentale e la libertà esecutiva delle lunghe jam notturne a Sheepcott Farm.
Il colpo di scena avviene l’anno seguente, sotto la spinta del vento del ‘68 Dave Mason rientra nel gruppo ed in dieci giorni i quattro sotto la direzione del produttore Jimmy Miller, l’uomo di Brooklyn che già aveva lavorato con lo Spencer Davis Group, registrano Traffic dimostrando che tutti quei mesi di misticismo e collettivismo in campagna non erano andati perduti. Come The Band era stata ispirata dalla vita a Big Pink e i Grateful Dead dalla comune di 710 Ashbury, i Traffic incanalarono le vibrazioni di Sheepcott Farm direttamente nella loro musica.
Album sublime, pastorale e raffinato al tempo stesso, Traffic abbraccia R&B, jazz, folk e psichedelia secondo modalità del tutto inespresse prima (e anche dopo) evidenziando una spregiudicata abilità nel manipolare e fondere linguaggi e stili diversi. Tutto suona magnifico in quel disco, dal sinuoso ed ipnotico folk-rock di You Can All Join In dove Mason, come d’altra parte in Feelin’ Alright, dà il meglio di sé nelle vesti di autore, cantante e fine chitarrista al ritmato affondo psycho-rock di Pearly Queen, dai successivi contributi di Mason, decisamente smagliante in quest’album ovvero l’eterea Don’t Be Sad contrassegnata dalle doppie voci di Mason e Winwood e la meditativa Cryin’ To Be Heard arricchita da un clavicembalo rinascimentale alle jazzate Who Knows What Tomorrow May Bring e 40.000 Headmen, oltre a Coloured Rain e all’intensissima No Time To Live. Traffic cattura uno spirito di avventura e una visione libera della musica.
Per promuovere l’album vengono messi sul mercato due singoli, paradossalmente entrambi composizioni di Mason: You Can All Join In diventa un sampler molto richiesto in Inghilterra mentre Feelin’ Alright fa il giro del mondo. In entrambi i casi sul retro compare una composizione di Winwood Withering Tree che oggi viene inclusa assieme a Medicated Goo, Shangai Noodle Factory e ai due brani della colonna sonora del film Here We Go Round The Mulberry Bush nella ristampa con bonus tracks di quell’album epocale.
A dispetto però del successo ottenuto dal disco i vecchi attriti tra Mason e Winwood riesplosero ed il gruppo si trovò sull’orlo di una crisi di nervi. La Island prese tempo pubblicando Last Exit mentre Winwood ripensò al suo futuro e se ne andò per un periodo in Olanda e gli altri tre si unirono al tastierista Mick Weaver (alias Wynder K.Frog) cercando di ripetere l’esperienza nel Berkshire questa volta trincerandosi in una fattoria del Worcestershire. Tentativo che fallì miseramente dopo solo due mesi. Tornato dall’Olanda Winwood si unì a Eric Clapton, al bassista Rich Grech e al batterista Ginger Baker per la breve ma chiacchieratissima avventura dei Blind Faith e poi, deluso, raccattò nuovamente Chris Wood e Jim Capaldi per dar vita ad un altro capolavoro dei Traffic, John Barleycorn Must Die il cui titolo riprendeva una vecchia canzone folk inglese degli Watersons. Ma questa è un’altra storia.

Mauro Zambellini Giugno 2009