sabato 23 gennaio 2010

il 'fascista' di Van Morrison


"Radio Varese fu un’esperienza per molti di noi fondamentale, capace di mettere in contatto esperienze umane sparse sul territorio che avevano bisogno di un’occasione per incontrarsi e conoscersi. Almeno per quanto riguarda la prima versione della Radio, quella nata nel 1976 e conclusasi con la polemica e politica dimissione di alcuni di noi circa un anno dopo, fu un esperienza positivamente devastante che lasciò un segno indelebile nelle nostre vite.
Dispersi in quella parte degli anni ’70 a cavallo tra utopie e movimento, si cercava di riporre la nostra creatività e la nostra voglia di vivere al di fuori di gruppuscoli, partiti e slogan e così qualche nome da giungla come Tambo, Zambo, Dundo, Bongo si trovarono a fianco ad un inatteso concentrato della sinistra rivoluzionaria varesina, l’anarchico Roberto, lo stalinista Nedo e il gramsciano Chico. Più che per le idee politiche, il gruppo si solidificò per la militanza nella Radio e per l’amore verso i linguaggi musicali americani, Woody Guthrie e il folk, il blues, il jazz e soprattutto il rock. Non sembrava vero ai nostri di potere “praticare” tranquillamente i propri gusti e miti lontano dalla fastidiosa spocchia dei “professorini” della politica, forgiati in quel grigissimo Marx-Lenin-Mao Tze Tung pensiero che faceva di un disco dei Grateful Dead un pericoloso nemico dei proletari del mondo. I “gerarchi” della sinistra rivoluzionaria organizzata non vedevano di buon occhio questi renegades, li consideravano alla stregua dei freakkettoni. Troppo anarchici, troppo indisciplinati, troppo snob con quei loro dischi strani di importazione che arrivavano dal cuore dell’imperialismo americano. Ai nostri piacevano le teste da morto dei Grateful Dead, quegli “scoppiati” degli Stones, quel tossico androgino di Lou Reed, quei buzzurri della Allman Brothers Band e dei Lynyrd Skynyrd che osavano suonavano con la bandiera sudista alle spalle. Roba da scomunica, roba politicamente scorretta, roba da compagni che sbagliano.
Il problema è che i duri e puri della politica stavano sulle palle anche ai nostri, che consumate le rispettive esperienze gruppettare trovarono in Radio Varese l’occasione per poter affermare quanto non era mai stato possibile all’interno del movimento ovvero che si poteva essere di sinistra e contemporaneamente ballare coi Creedence Clearwater Revival e i Rolling Stones. Radio Varese divenne ben presto l’unica radio libera dell’Occidente occupato non solo per la sua collocazione “non allineata” a sinistra ma anche per l’indipendenza culturale verso i blocchi mentali della sinistra più o meno ufficiale.
E così Waiting For My Man e Jessica riempirono l’etere senza vergogna, creando uno zoccolo duro di rock che dalle trasmissioni specializzate invadeva anche le fasce orarie e gli interstizi tra le trasmissioni più serie e i notiziari. Non si era politically correct ma la rivoluzione fu proprio quella di cadenzare l’informazione e i dibattiti con il rock n’roll, per di più di matrice americana.
C’era Scatola Calda di Zambo al pomeriggio, il blues del reverendo Skala, il jazz-rock di Bongo, il country-rock in odore di West Coast di Girompini, i nuovi american songwriters di Gaucci che per primo portò in radio Tom Waits, Gigi Prevosti con le sue scelte eclettiche, Bolotto coi figli di Jackson Browne ma anche chi, della redazione, “riempiva i buchi” come Tambo non perdeva l’occasione di mettere Jessica o Ramblin’ Man.
Il pubblico recepì, la Casa del Disco cominciò a farsi grande da lì e Carù Dischi aumentò le vendite del genere, entrambi interessati alla pubblicità sulla radio e concerti, oggi impensabili per Varese, come quello di Bruce Cockburn fecero il tutto esaurito. Certo la mano dei nostri non era di quelle leggere se anche uno sbarazzino e un po’ ruffiano programma di musica a richiesta per casalinghe aveva come sigla Rock n’ Roll di Lou Reed ovvero un pezzo di dieci minuti dal vivo di assoluta violenza elettrica.
Altri tempi, assurdamente più free di questi. Si scopriva un mondo musicale che neppure i giornali specializzati dell’epoca (Ciao 2001 perchè il Mucchio Selvaggio dove nascere di lì a poco) trattavano. Radio Varese legittimò il rock (e naturalmente altri idiomi) al di fuori di una ristretta cerchia di carbonari, creando curiosità e cultura oltre che piacere. Un mondo distante anni luce da quello odierno dove lo stesso termine è usato per identificare una realtà di gossip e scemenze fatta di video insulsi, di canzoni che durano un mese, di produzioni tanto laccate quanto inesistenti e dove il rock sembra essersi trasformato nelle pistolettate dei rapper, nel culo di Jennifer Lopez, nei capricci di Mariah Carey nelle liti degli Oasis.


Non tutto era comunque rosa e fiori nella Radio. Al direttore Lovisolo tutto sto’rock non è che piacesse tanto, a Salomone qualcosa di più napoletano avrebbe fatto piacere e a Ciardiello, responsabile della pubblicità, un po’ più di “italiano” avrebbe permesso un dialogo un po’ più tranquillo con gli inserzionisti, i quali sborsando il grano non volevano che i loro soldi finanziassero né Brown Sugar né un derelitto degli Appalachi che con la chitarra acustica cantava Mr. Bojangles.

Ma era la storia di Radio Varese ai suoi albori, con le sue incogruenze, ingenuità, contraddizioni, piccole gelosie. I nostri che erano tra quelli che stazionavano per più tempo in redazione si sentivano dentro una piccola comune dove la vita di ognuno interagiva con quella degli altri e investiva quello che c’era intorno con la legittimazione di chi “si sentiva investito da una missione, la missione Radio Varese”. La radio era al centro di tutto, era la discussione nelle cene, nelle bevute, nelle fumate, travolgeva amici e fidanzate tanto da incuriosire e interessare anche chi della radio non ne faceva parte. La provincia parlava di radio Varese ma pure amici di Milano sapevano cosa fosse e come si viveva a Radio Varese.
Rinaldo era uno di questi. Era amico di Zambo ma per quel flusso di scambio intellettuale ed epicureo che si diceva prima era diventato amico anche di Chico, Tambo, Nedo e via dicendo. Una sera i nostri varesotti calano a Milano, per una bevuta in compagnia a casa sua, in un monolocale a Chiesa Rossa, sui Navigli. Macchina, strade, rock a manetta nello stereo dell’auto, parole, discussioni e risate. Il silenzio era una cosa che non esisteva, se non dopo le tre di notte. Si parlava in radio, si parlava nelle riunioni di redazione, si parlava al bar, al telefono, in strada, da Quinto con la pizza fumante che ustionava le gengive, in macchina, si parlava ovunque. Tranne che in famiglia. Spesso si straparlava. Era la parte finale della gioventù, creativa, allegra e un po’ fumata, erano gli anni settanta vicino al punk e i nostri bazzicavano l’ area di parcheggio, quella specie di stand by che non vuole ancora saperne di un lavoro e una vita definitiva.

Rinaldo ci accoglie col solito ciaoooooo in quello slang milanese un po’ cazzuto e svogliato che lo faceva personaggio non convenzionale, snob nell’inflessione vocale ma randa nei modi, un boscaiolo dei Navigli con un po’ di amici che uscivano dalle chiacchiere della Briosca, un locale dei Navigli che sarebbe andato bene nella prime canzoni di Jannacci o Gaber.
Ci beviamo delle birre, cazzeggiamo, parliamo di musica e di dischi, ridiamo e fumiamo e diamo fondo all’universo raccontato, tra sarcasmo, ironia, prese in giro e verità, della Radio. Spieghiamo la rava e la fava, caratteri e macchiette, personaggi e fatti, a chi la Radio se la immagina dal di fuori pur potendola ascoltare anche a casa propria, a Milano, grazie alla potenza ed efficienza tecnologica del tendem Salomone-Lovisolo.
Ad un certo punto viene l’idea di zittire lo stereo col solito Lou Reed, il mito musicale per eccellenza di Rinaldo e sintonizzarsi sui 100 e 700 di Radio Varese. “Dai Rinaldo che ci sentiamo un po’ di musica dalla Radio” Ma sono le undici e c’è Metropolitana, una trasmissione di avanguardia musicale con rock elettronico e progressismi vari condotta da Riccardo, un tipo preciso che fa una trasmissione tra il colto, lo sperimentale e lo sballato. Per i nostri la musica di Metropolitana è una palla incredibile, troppo cervellotica e ambiziosa con tutta quell’elettronica, quelle melodie che non ci sono e quei suoni che paiono artificiali, da laboratorio. Ai nostri piace il soul, il R&B, il rock sudista, la chitarra elettrica, i Rolling Stones, caso mai il jazz di Charlie Parker e John Coltrane, già coi Beatles ci vanno piano, troppo per bene e incensati. I nostri si sentono insomma dei ragazzi cattivi. Metropolitana va in onda tardi di sera, Riccardo (con il suo socio Mauro) ci mette enfasi e fascino nelle presentazioni ma spesso la sua trasmissione, per i nostri, è un ottimo sonnifero. Le sue atmosfere rarefatte portano veramente in un mondo di sogni.
Riccardo (o forse Mauro) introduce dicendo che quella di stasera è una puntata speciale di oltre due ore, dedicata al Kraut rock, al rock elettronico tedesco e ai corrieri cosmici, in particolare a Edgar Froese, ai Tangerine Dream e Popol Vuh. E parte una lunga divagazione di rumori acquosi e minimali, intitolata per l’appunto Aqua senza nessuna melodia e ritmo, solo una sequenza impercettibile di variazioni sonore al cui cospetto Philip Glass sembra Sam Cooke.
I nostri sono preparati ma Rinaldo rimane di stucco. “che cazzo è sta roba, ma chi cazzo è sto qui per mettere ste palle a quest’ora”. Ridiamo ma in cuor nostro rimaniamo un po’ sconcertati nel sentire il frutto del nostro orgoglio, Radio Varese, ammosciare così una allegra serata e deludere i nostri ascoltatori “di città”.
“Dai Rinaldo, telefonagli e digli di cambiare musica, di mettere……. c’è il nuovo Van Morrison dal vivo che è una bomba”. Ottima idea, dice Rinaldo. Telefono alla mano, un paio squilli, “pronto, Metropolitana?” Si, perché ? “Non potresti cambiare sto tormento senza estasi con qualcosa di più eccitante, magari il Van Morrison di It’s Too Late To Stop Now, siamo dei fedeli ascoltatori di Radio Varese, è una serata particolare e vorremmo un po’ far festa con della buona musica, qualcosa che ci dia delle buone vibrazioni e ci tenga allegri?” No, non è possibile, si sente rispondere dall’altra parte del filo, questa è Metropolitana e questa è una trasmissione speciale sull’elettronica tedesca che i nostri ascoltatori aspettano da tempo.
“Senti pezzo di merda” risponde Rinaldo con un perentorio slang dei Navigli “l’unica cosa che devi fare è andare di là, nella saletta dove c’è l’archivio dei dischi e ruscare sotto la M, prendere un disco di Van Morrison, metterlo sul piatto e tirar su il cursore del mixer. Dai fa il bravo, facci sto piacere, poi puoi mettere tutto il rock tedesco che vuoi”. Fine della telefonata.
Dopo qualche minuto, l’onda sonora proveniente dalla radio viene bruscamente interrotta, come se nell’Aqua di Froese (cosi’ mi sembra si chiamasse) fosse stato buttato un sasso. Aperto il microfono, il conduttore con voce grave e preoccupata dice “amici, compagni che ci seguite da tempo, un grave atto intimidatorio di stampo fascista sta turbando Radio Varese e le nostre emissioni, vi preghiamo di vigilare, rimaniamo sintonizzati affinchè la provocazione fascista in atto non arrechi danno alla Radio, contiamo sulla responsabilità democratica nostra e dei nostri ascoltatori. Non ci faremo intimidire”.
Come non detto. Ritornano ancora le oscillazioni metronomiche tedesche nell’etere e noi rimaniamo tra lo stupefatto e il divertito “ma va sto pirla, adesso siamo fascisti perché abbiamo chiesto in modo un po’ rude Van Morrison, ma roba de matt…..”
Di nuovo la musica si interrompe, il conduttore irrompe nell’etere “compagni, amici, finisce qui questa puntata speciale di Metropolitana, la vigilanza ci induce a lasciare perdere, le trasmissioni continueranno con il notturno in musica. Ciao”.
Rimaniamo allibiti, ma come? non doveva essere una puntata speciale di due ore che gli ascoltatori aspettavano con ansia ? ma vai a farti fottere Metropolitana, sparati un Lou Reed in vena”!.
Colpa di quel fascista di Van Morrison la serata si chiude in quattro e quattr’otto. Salutato Rinaldo, la notte ci inghiotte, stanchi e un po’ delusi la strada ci accoglie con le sue luci e i suoi fari, un mutismo che dura fino al casello di Gallarate regna sovrano nell’abitacolo della 128 Fiat rosso opaco di Chico. Poi ognuno va per la sua strada, chi a Varese, chi nel sud della provincia. Domani è un altro giorno".

MAURO ZAMBELLINI 2003, dal libro "Radio Varese 100 e 700 L'Unica Radio Libera dell'Occidente Occupato"

sabato 16 gennaio 2010

Gypsy Soul #3


(continua)

Smokin’ R&B and late night jazz

Di tutt’ altro tipo le radici nere di Bob Seger, cresciuto nella banlieu di Detroit a stretto contatto tra rischi di devianza e l’alto tasso di negritudine della sua città. Già agli esordi nel 1967 con il singolo Heavy Music il suo rock macina un tribalismo bianco di chitarre fumanti e giungla urbana che sa di underground garagista ma anche di ritmi negroidi, visto che la Tamla-Motown è di casa in città e non si può del tutto ignorarla.
L’amore per la musica afroamericana e per i suoi idoli radiofonici, che rispondono ai nomi di Wilson Pickett, Chuck Berry, Muddy Waters, James Brown, Bo Diddley, viene a galla nel 1972 quando Bob Seger sfodera Smokin’ O.P’S un disco interamente incentrato sul rhythm and blues.
Con quella copertina giocata sui colori e la grafica del pacchetto delle Lucky Strike, il disco era un invito esplicito a perdersi nei bar della suburbia attorno a gonne facili e fiumi di birra. Torrido R&B e sporco rock n’roll tutto da ballare, un po’ come facevano i Creedence, più che l’anima è il corpo a pulsare animalesco in questo disco che precede di poco la consacrazione del Bob Seger mainstream.
Relegate le soffici soul-ballads della Motown in centro città, la periferia rock di Seger si alimenta del groove selvaggio della Stax, del jungle beat di Bo Diddley e di un organo Hammond che deborda dappertutto, spargendo un suono vintage da manuale. La ruvida versione gospel di Love The One You’re With di Steve Stills non ha equivalenti nel sistema solare mentre lo spirito blue collar del personaggio è orgogliosamente sbandierato da una intensa versione di If I Were A Carpenter di Tim Hardin.
Hummingbird di Leon Russell è soul-rock come lo suonavano Delaney and Bonnie con amici in quei giorni ovvero pregno di umori sudisti e la seconda facciata è uno scatenato party R&B con Let It Rock e Heavy Music (molte le analogie con Gimme Some Lovin’) , col traditional Jesse James infradiciato di boogie e con Turn On Your Lovelight che da blues di Bobby Bland diventa danza tribale alla corte del maestro di cerimonia James Brown.
Un disco che va riscoperto assolutamente anche perchè è stato recentemente ristampato dalla Capitol.

Come va riscoperto The Heart of Saturday Night (Asylum, 1974), Tom Waits prima maniera alla sua seconda uscita discografica con voce ancora indenne e romanticismo da vendere. Un album che ci fa apparire sublime una Los Angeles notturna e sudicia, popolata di prostitute e perdenti grazie a un blues alcolico che deve più a Bukowski che a Muddy Waters.
Tom Waits è il regista di un film dai toni bluastri in cui il cuore del sabato notte è sezionato in tutto il suo poetico realismo. Tra luci al neon, asfalti bagnati, drop-outs, vagabondi e fantasmi ambulanti, sublimando amarezze e miserie in ballate cariche di romanticismo, Tom Waits ci fa sembrare la strada più calda e confortevole di una famiglia.
E’ duro immaginarsela una città così ma Tom Waits con quel disco la seppe inventare e ce la fece a sognare. Tengono banco il pianoforte, qualche arrangiamento jazz e la voce malinconica da crooner degli sbandati. Tom Waits è un Philip Marlowe del blues, va a braccetto con il Sinatra di In The Wee Small Hours e si ubriaca felice sotto la luna.
Prima che il be-bop della beat generation entri prepotentemente in scena e radicalizzi un rauco suono all’whiskey che porterà prima a Foreign Affairs e poi a Blue Valentine lasciatevi sedurre dalla trilogia The Heart of Saturday Night/Nighthawks at the Diner/Small Change che sono l’equivalente di falchi della notte del pittore Edward Hopper.

(3 - continua)

sabato 9 gennaio 2010

Like a Rolling Stone


Like a Rolling Stone

di
Gian Paolo Ragnoli detto Giambo

Francia del sud, anni ‘70
Lo so, lo so, qualsiasi idiota potrebbe dire c’ero anch’io, le backing vocals sono basse nel mix e non si distinguono chiaramente. Non ho mai capito se fosse stata una scelta stilistica di Keith e di Jimmy Miller o fosse capitato per caso, registrando nelle cantine di casa di Keith invece che in uno di quegli studi pazzeschi che gli Stones si sarebbero potuti permettere. Ma era un periodo strano, questo esilio francese, e il fatto che fossero quasi sempre quasi tutti strafatti contribuiva a dare alle cose un tocco surreale, a farti pensare che c’era un’accorta regia mentre invece le cose succedevano come al solito, come pare a loro, e noi stavamo lì a ricamarci sopra qualche disegno superiore, il tuo karma è negativo, amico, no , guarda, è solo che tu sei troppo fuori anche solo per capire l’espressione karma negativo, insomma dialoghi così, come un Corman girato a doppia velocità. Comunque c’ero anch’io, secondo voi il testo su Angela Davis chi l’ha scritto? Me ne stavo a Villefranche, guardavo il sole tramontare, bevevo Côtes du Rhône, aspettavo l’estate come se questo significasse che stavo facendo qualcosa di sensato. D’altra parte non mi capita quasi mai…

Keno’s ROLLING STONES Web Site

ROLLING STONES LYRICS SWEET BLACK ANGEL (aka Black Angel)
Mick Jagger wrote this song in support of Angela Davis, back when she was facing murder charges, using a text by Ted Malvern, a Nomansland poet friend of Gram Parsons who, in the Spring of ‘71, was living in the South of France, near the Keith’s mansion where the Stones recorded the most of Exile on Main Street. The song was recorded in one night, from midnight to six, the night between 20 and 21 March, 1971, the first day of Spring. The song was later released on Exile On Main Street in 1972. Lead Vocal & Harmonica: Mick Jagger Backing Vocals: Keith Richards, Gram Parsons, Ted Malvern Guitars: Keith Richards & Mick Taylor Bass: Bill Wyman Drums: Charlie Watts Marimbas: Richard “Didymus” Washington Percussion: Jimmy Miller

SWEET BLACK ANGEL
(M. Jagger/K. Richards) aka Black Angel (T. Malvern/M. Jagger/K.Richards)

Ho appeso al muro un angelo nero
E’ bella come un’attrice ma non è una star
E’ una prigioniera politica
E’ una sorella in catene
Perchè ha lottato per la libertà di tutti
I porci hanno tentato di piegarla
Ma non ci sono riusciti
Lei è un angelo nero
Non una schiava dei padroni
Sta contando i minuti
Sta contando i giorni
Aspetta di uscire per continuare la lotta
Liberiamo tutti i prigionieri del sistema
Liberiamo l’angelo nero

Questo testo lo scrissi di getto, per una rivista che usciva allora, The Red Mole, la dirigeva Tariq Alì e la pagava Vanessa Redgrave. Un po’ troppo trotzkista per i miei gusti, ma che”You can’t always get what you want” l’avevo già imparato. Angela, Angela Davis si chiamava l’angelo nero, era davvero bella come una star, ma era una professoressa, insegnava all’Ucla e, non so come mai, era amica di Lebowski. Siamo usciti insieme qualche volta, la guardavano tutti ma anche starla a sentire non era male. Era stata assistente di Marcuse, sapeva un sacco di cose, era marxista, femminista, incazzata ma sapeva anche essere divertente. Le piaceva Jim, naturalmente, ma in quel periodo lui era troppo sballato anche solo per metterla a fuoco correttamente sulla retina. Insomma, per farla breve c’era un’amica e una compagna in galera e si era creato un movimento di solidarietà intorno al suo caso, per cercare di tirarla fuori. Volevano appiopparle l’omicidio di un giudice, i porci.

Qualche tempo dopo ero nel sud della Francia, ad ammazzare il tempo a colpi di bottiglie di Côtes du Rhône quando a Villefranche incrociai in un caffè, La Fiancée du Pirate, Gram Parsons, che conoscevo dai tempi del giro folk, insieme a un tipo sconvolto che si presentò con impeccabile stile inglese, molto piacere, Keith Richards.
Keith aveva affittato una villa vicino a Villefranche e lì gli Stones stavano registrando il nuovo album, lontani dai guai londinesi, dal fisco, dagli arresti per droga, dal fantasma di Brian. Le cantine della villa erano state attrezzate a studio, c’erano Jimmy Miller, Andy e Glyn Johns, girava Robert Frank insieme a Dominique Tarlé, un fotografo francese che aveva fatto amicizia con gli Stones, e scattavano foto a tutti, Ian Stewart, Nicky Hopkins e un sacco di altri tizi erano pronti a suonare, in caso di bisogno. In realtà poi il vero “produttore” era Keith, anche se sempre strafatto quando era l’ora di suonare acquistava una lucidità sorprendente. Mick era spesso a Parigi, da Bianca, erano sposati da poco e lui sembrava più interessato alla sua vita privata che al disco da fare, ma alla fine arrivava in tempo per registrare la voce, un drink, un tiro e di nuovo via.

Una sera Keith suonava vecchi pezzi country con Gram, eravamo in giardino, stava cantando Send Me Back Home di Merle Haggard. Mi unii al coro, cantammo un po’ di vecchie cose, sapevano anche The Union Maid, Keith mi disse di aver sentito il Collettivo, una volta, bella voce quello col banjo, disse, ma mi sembra un po’ strano. Detto da Keith Richards…Arrivò anche Mick, appena tornato, come seguendo l’invito di Haggard. Tirò fuori una bottiglia di Château Latour, un sacchetto di Acapulco Gold (il ragazzo sapeva vivere, va detto), poi di colpo mi fissò e disse: ma non sei tu quello che ha scritto il testo su Angela Davis? Sì Mick, sono proprio io. Mick e Keith sembravano due a cui non fregasse assolutamente nulla del mondo esterno, ma ero già abbastanza vecchio da averne conosciuti altri che indossavano questa maschera di indifferenza come una corazza per difendersi dal dolore, dalle delusioni, dai tradimenti. Venne fuori che leggevano Red Mole, ogni tanto la finanziavano, conoscevano Tariq e la sua banda di trotzkisti internazionalisti. Mi venne una delle rare buone idee della mia vita, dissi a Mick: Hey, perchè non ci fai una canzone da quel testo? Avere gli Stones dalla nostra parte avrebbe un certo peso, non so se mi spiego. Avevo fumato troppo, cominciavo a sentirmi la testa pesante. Mick rispose: chi lo sa, Ted, potrebbe anche darsi…La notte dopo, a mezzanotte circa, Mick tirò fuori l’armonica e disse agli altri musicisti, gli Stones più Jimmy Miller e un altro percussionista, Didymus:
bene, stasera facciamo un pezzo nuovo, da un’idea di Ted, l’amico di Gram. Voi due potete cantare, se sapete le parole, disse rivolto a noi, ridacchiando assieme a Keith.
Poi partì il pezzo. Se l’erano già studiata, era quasi perfetta. Alla seconda take entrammo nel coro anche io e Gram, la canzone avrebbe potuto non finire mai, era un momento di gioia condivisa, fuori dallo spazio e dal tempo.
La seconda take poi fu pubblicata su Exile e quindi lì ci sono anch’io, ma soprattutto di lì a poco Angela fu scarcerata.
La rividi anni dopo, ad un corteo contro una delle tante guerre americane. Le raccontai la storia di Black Angel, lei mi guardò e disse: Ted, solo un anarchico piccolo borghese come te può pensare che mi abbiano liberato i Rolling Stones. Guardando la faccia da idiota che stavo facendo scoppiò a ridere e aggiunse: sei proprio scemo, Ted. Ti pare che direi sul serio una frase simile? Dai, andiamo a farci una birra, paghi tu, tanto sei amico degli Stones, sarai anche tu pieno di soldi…

Dopo molti anni mi tornò in mente questa storia e la scrissi per una rivista diretta da un amico irlandese, The Wild Rover. Pensavo fosse finita lì, ma pochi giorni dopo ricevetti una lettera da Villefranche, scritta da Madcap, un amico dei vecchi tempi.

Villefranche-sur-Mer (Alpes-Maritimes), le 3 juillet 2008
Mon vieux, ça c’est vraiment bizarre! J’ai reçu ton message pendant que je prenais mon pastis exactement au café de la Fiancée du Pirate de Villefranche: ça c’est un signe du destin incroyable. Je suis de passage ici, en train de me déplacer vers l’Atlantique: j’ai un rendez- vous demain à La Rochelle avec un étrange type qui m’a promis des trucs très intéressants pour ma recherche sur le période vendéen de Simenon (je suis payé par l’Université de Liège, ça va sans dire). J’ai passé tout la soirée de hier à parler du bon vieux temps avec Jannot, le patron du café, qui m’a montré quelque photo que lui avait donné Dominique à ce temps-là. Dans la première série on voit Keith avec une incroyable chemise hawaiienne et Anita ravissante dans sa robe blanche au centre d’un bordel de camionettes, de caisses et de cartons: peut-être que c’etait le jour de l’arrivée du RS Mobile Unit chez Keith. Dans la deuxième série on voit l’intérieur du café et ç’est facile de reconnaître Gram avec toi et une jolie femme qui rit avec vous (c’etait Tina Aumont, peut-être?). Le lieu n’est pas trop changé, l’enseigne de la bière Pelforth est toujours là. Derrière le zinc, à coté de l’affiche de Manuel Amoros en maillot bleu, il y a un exemplaire de Exile couvert de signatures (on peut lire très clairement: Ted, Charlie, Nicky…). Merde, ça fait du mal aussi de se plonger dans le passé. Bon, de toute façon ton message m’a fait vraiment plaisir. J’attends avec impatience ton nouveau livre à mon adresse bourguignon (6 rue Bocquillot, 89200 Avallon). Nathalie t’embrasse bien fort. Le carton de Chablis est toujours sur la rampe de lancement… Hasta siempre.

Madcap

lunedì 4 gennaio 2010

Gypsy Soul #2


(...continua)

Moondance
Non è automatica le connessione tra il soul nero e i cantautori bianchi ma è fuori di dubbio l’influenza che la black music esercitò in molti dischi dei primi anni settanta. Van Morrison, che si può tranquillamente considerare il capostipite di questa tendenza, aveva alle spalle un background di musica nera di tutto rispetto visto che negli anni sessanta con i Them aveva saccheggiato un intero repertorio di R&B e di blues (se ne trova rispondenza nell’ottimo doppio cd della Deram del 1997 The Story Of Them Featuring Van Morrison) ma è con Moondance e St.Dominic’s Preview che il suo Caledonia Soul esplode in tutta la sua bellezza. Assemblando in modo originale blues, folk, soul, jazz ed elementi di musica celtica in canzoni lunghe, epiche, dense di un lirismo elusivo e sensuale e modulate da una voce potente e dinamica, Van Morrison crea uno stile unico che gli darà continuità per tutta la carriera.
Le basi di questo stile vengono poste con T.B Sheets, Madame Gorge e Beside You registrati, subito dopo aver lasciato i Them, nei Bang Masters (Sony, 1991) con il produttore e autore soul Bert Berns ma è con l’introspettivo Astral Weeks e con l’estroverso Moondance che viene raggiunto l’apice.
Come i Basement Tapes aiutano a spiegare la transizione di Dylan da Blonde On Blonde a John Wesley Harding, così i Bang Masters aiutano a capire la trasformazione di Van Morrison dal rauco e aspro R&B dei Them alla melodiosa trascendenza di Astral Weeks, Anche se è Moondance (Wb, 1970) a completare l’opera di rifinitura del Caledonia soul con l’introduzione di un ampia sezione fiati e con un approccio decisamente jazz. La prima facciata del disco con la sequenza Stoned Me, Moondance, Crazy Love, Caravan, Into The Mystic è roba da mille e una notte, la personalissima voce di Van Morrison, ora potente e ora gentile, capace di esplosioni improvvise e di momenti di grande rilassamento, regala emozioni impagabili.
Difficile fare meglio, St.Dominic’s Preview (Wb,1972) viaggia sulle stesse coordinate musicali con il folgorante R&B Jackie Wilson Said, omaggio ad uno dei suoi soulman preferiti mentre I Will Be There la si potrebbe ascoltare da un orchestra jazz in un club alle due di notte. St. Dominic’s Preview offre un cuore straziato e Listen To The Lion e Almost Independence Day sono due estesi viaggi nel mistico e in quella spiritualità che What’s Goin’ On aveva così bene predicato.

Due album in grado di fare scuola, di creare uno stile, di influenzare. Ne sanno qualcosa Dirk Hamilton e Bruce Springsteen. Inutile negare che quest’ultimo sia stato stregato dal Van Morrison di Moondance, lo si avverte in The Wild, The Innocent and The E-Street Shuffle (Cbs, 1973) dove gli umori latin e soul-jazz sono quasi prevalenti rispetto al rock e dove le percussioni, l’organo Hammond e il sax giocano un ruolo di primo piano creando quello shuffle da strada, erotico e festoso, che fu l’immagine dello Springsteen di Rosalita, Incident On 57th Street e Kitty’s Back.
Ce ne è conferma anche nel dvd del concerto del 1975 all’Hammersmith Odeon di Londra incluso nella riedizione del trentennale di Born To Run dove, tra le note di The E Street Shuffle e Kitty’s Back, si rintracciano citazioni di Moondance, di Havin’ a Party di Sam Cooke, di Shaft di Isaac Hayes a dimostrazione di un circolo di influenze in cui musica nera e rock bianco si rincorrono e si confondono.

Anche il Dirk Hamilton degli inizi, in particolare quello di Alias I (oggi disponibile in una edizione in digipack della Akarma con due bonus tracks) è della partita. Il rocambolesco R&B di The Eyes of The Night e The Ballad Of Dicky Pferd, le ballate di For Diana, Alias I e Joanna Ree hanno il merito di introdurre un songwriter brillante e dalla scrittura senza freni, che predilige canzoni a ruota libera e melodie dal volto umano con un folk-rock che si tinge di soul, dove a fianco del classico allineamento basso/chitarra/batteria ci sono ottoni, percussioni, tastiere e fisarmoniche.

(2 - continua)