venerdì 30 luglio 2010

Narcao Blues Festival 2010


Nella panoramica dei festival estivi dedicati al blues Narcao si segnala per la longevità e soprattutto per la caparbietà con cui ha promosso in Sardegna, luogo a torto considerato alla periferia dell’impero, il blues in tutte le sue forme. Va dato atto agli organizzatori di non essersi mai arresi alle difficoltà e di aver perseguito con tenacia e passione la propria “missione” ovvero far conoscere il blues in una regione che spesso è ricordata solo per le vacanze dei vip. Nel corso degli anni da Narcao sono passati grandi e piccoli nomi del blues internazionale e nazionale ma la scelta non si è limitata solo all’ufficialità del genere perché le assolate terre del Sulcis hanno assaporato le gesta di outsiders non sempre apprezzati dai puristi come ad esempio Anders Osborne, Neville Brothers e Willy De Ville.
In una cornice che assomiglia molto ad un paesaggio del New Mexico, nell’entroterra della provincia di Carbonia ad una ventina da un mare che non ha equivalenti nell’intero Mediterraneo, tra il 21 ed il 24 luglio è andato in scena il 20esimo (dico venti, un numero importante) Festival del Blues, quest’anno partito con una serata dedicata a Jimi Hendrix, morto il 18 settembre di quaranta anni fa.
Sonny Landreth e Popa Chubby gli artisti selezionati per onorare la mano sinistra di Dio, due chitarristi dallo stile differente che hanno onorato il compito con due set infiammati e potenti appagando gli esteti del Fender sound e i giovani affamati di rude e torrido rock-blues. Il pubblico, mai così numeroso, è andato in visibilio sia con Sonny Landreth, autore di un set tecnico ed inappuntabile, sia con Popa Chubby artefice di uno show viscerale e muscoloso. Assieme a Sonny Landreth e alla sua inseparabile Fender Stratocaster rossa c’erano il bassista David Ranson, anche lui nei Goners di John Hiatt ed un batterista, Brian Brignac, che mi ha stupito in quanto a dinamismo e tempismo, un batterista che mi ha ricordato Stewart Copeland. Il set di Landreth è stato tutto all’insegna del virtuosismo e della velocità, poche parti cantate, ridotte le parti melodiche in favore di un suono che scende come un torrente di note, di scale armoniche, di assolo e ritmo con poche ballate ed un drive impressionante. La straordinaria tecnica chitarristica messa in campo ha sacrificato un po’ il feeling ma il pubblico ha apprezzato e applaudito le cavalcate di Z Rider, di The U.S.S Zydecoldsmobile, di Milky Way Home, di Wind In Denver, di Promised Land, di Hell At Home e dell’ omaggio a Hendrix di I Don’t Live Today. Quando sale sul palco il voluminoso Popa Chubby l’atmosfera è già sufficientemente surriscaldata e ci vuole poco prima che il trio del newyorchese richiami sotto il palco tutta la sezione giovani del festival che suda e si attorciglia attorno ai brucianti assolo di Hey Joe e Spanish Castle Magic. Chubby è in forma e sta bene, sembra non soffrire il caldo perché la notte è calata e il suo hard-rock/blues da power trio gronda sangue, sudore e polvere da sparo. Esegue qualche brano del suo repertorio (Rock n’Roll Is My Religion, NYC 1977 Till, Already Stoned) enfatizzando assolo e cantato, omaggia la sua città New York con una versione sincopata e funky di Walk On The Wild Side di Lou Reed e poi si scatena in un finale ad effetto con citazioni di Black Sabbath e Led Zeppelin e con una bella e intensa versione di Little Wing. Alla fine Piazza Europa è in ebollizione.
Di tutt’altro tenore la serata seguente, quella del 22 luglio, con Eric Bibb e Larry Carlton Band. Quest’ultimo dispiega un jazz/rock elegante che concede poco al blues e molto più alla fusion ma molto più emozionante mi appare Eric Bibb il cui vellutato country-blues vociferato con calda e profonda voce soul arriva al cuore senza il bisogno della chitarra elettrica. Inizia lento, quasi dimesso con Kokomo e Stagolee poi sale e diventa un gigante infarcendo il blues con spezie caraibiche e reminiscenze di Mississippi John Hurt. Il suo intimacy of the blues cattura il cuore e gli animi sensibili con Right On Time, River Blues, Don’t Ever Let Nobody Drag Your Spirit Down e con classici quali Nobody’s Fault But Mine e Goin’Down The Road Feelin’ Bad dove rapisce letteralmente il pubblico che contraccambia con un sentito, commovente e lungo applauso, a dimostrazione della maturazione raggiunta dopo aver partecipato a ventanni di concerti blues in tutte le salse, comprese quelle più povere e difficili come quella di un Erci Bibb solo ed in acustico.
Delusione, non si può chiamarla in altro modo l’esibizione di Peter Green pur applaudita da un pubblico comprensivo del suo precario stato psicologico. L’artefice di tanti dischi che mi hanno fatto sognare in gioventù facendomi appassionare al rock/blues non c’è più, è solo un pallido ricordo l’autore di Then Play On, di Rattlesnake Shake, di Oh Well, di Black Magic Woman, degli incredibili live al Boston Tea Party, di tutta quella meraviglia firmata Fleetwood Mac. Purtroppo Peter Green ha smesso di essere The Supernatural da parecchio tempo ma gli amici che lo accompagnano attualmente, Friends, sono i peggiori amici che uno può avere e non giovano minimamente alla sua già precaria causa, una band imbarazzante che non aiuta e non può aiutare il già stentoreo Green. Musicisti piuttosto improvvisati e dilettanteschi che contribuiscono a comporre un set dove Green possa pungere con efficacia. Chi si salva è lo stesso Green perché dopo un avvio incerto ed una voce stentorea la sua Gibson SG prende quota e dopo essersi scaldata con un po’ di classici ( Key To Highway, You Don’t Love Me, When The Lights Out, Stranger Blues, Blues Get Off My Shoulder) riesce ancora a spiccare il volo con Oh Well, Albatross, con la lunga e melodica versione di Oh Pretty Woman di Albert King, con la dolce e commovente riproposizione di Rainy Night In Georgia di Tony Joe White e con una ritmata ripresa di Off The Hook dei primissimi Rolling Stones lasciando venir fuori il suo lirismo e la sua magia, sprazzi di una grandezza che fu.
All’insegna dell’allegria più sfrenata e contagiosa la conclusione del Festival dopo che sul palco erano passati il Mark DuFresne Organ Trio e il Joe Cleary Trio. Letteralmente invaso dalla sarabanda della Dirty Dozen Brass Band l’ensemble di ottoni, percussioni e chitarre che ha riversato l’euforia e la gioia di vivere di New Orleans nelle terre del Sulcis-Iglesiente con una cascata di suoni, colori, ritmi, gag, improvvisazioni, assolo che hanno trascinato l’intera piazza facendo ballare anche i morti e riproponendo la vitalità di una musica che non ha eguali sul nostro pianeta. Tra Saints Go Marchin’ In , echi voodoo, ritmi tribali e caciara da Bourbon Street si è consumato il rito di una New Orleans indomita anche alle catastrofi, benedetta da una yellow moon che nel cielo blu di Narcao sovrastava il finale frizzi e lazzi di un festival che almeno una volta nella vita bisognerebbe vedere.

MAURO ZAMBELLINI

lunedì 26 luglio 2010

Cronaca di una spedizione selvaggia (Springsteen a Zurigo)


A complemento della lettera di Federico Bartolo del post precedente, ci è sembrato naturale riportare l'articolo apparso a firma Mauro Zambellini sul Mucchio Selvaggio n. 42 del 1981

Un concerto di Springsteen non è uguale agli altri concerti. Per tante ragioni. Prima di tutto, già dal mattino, bisogna sopportarsi le assurde nuove scarpe di Rinaldo, la cravatta démodé di Blue Bottazzi e la cassetta di Dalla che insistentemente Anna infila nello stereo della macchina.
La Svizzera è vicina, pulita e fastidiosamente perfetta. La sporcano le decine di macchine e autobus italiani in pellegrinaggio, che si incontrano all'altezza del lago dei Quattro Cantoni.
Sono tanti i tifosi della E-Street Band, dentro l’Hallenstadion. Quasi il 50% acclamerà Springsteen con accento tipicamente latino. Quale miglior pubblico per un tarchiato italoamericano?
Cercare l’Hallenstadion, quando si è incolonnati in otto macchine, non è cosa semplice. Ci si scontra con una lingua poco malleabile, con l'ottusità di uno svizzerotto, che per un leggero tamponamento chiede in cambio metà della Lombardia più la contea di Camerino, con una segnaletica più adatta alle intermittenze dell’albero di Natale.
Raggiungiamo il Zentrum grazie alle intraprendenza mitteleuropee di Blue e dopo il Zentrum è gioco da ragazzi arrivare fin sotto lo stadio coperto dove è programmato il concerto. I nostri biglietti sono verdi come la speranza, ma questa cade subito quando raggiungiamo i posti numerati: in linea retta il punto più distante dal palco! Dopo una passeggiata sotto il palco, mi accorgo che gran parte dei fans italiani sono confinati nei punti meno graziosi e più periferici dello stadio e pensare che i'organizzazione aveva perfino invitato una rock magazine come "Sorrisi & Canzoni” alla conferenza stampa del boss. Mi piacerebbe proprio sapere le domande rivolte: “Cosa pensi dell’amore???”
Strani scherzi, ma poi neppure tali, del grande circo del rock.
Sorpresi sì ma avviliti no, noi ammucchiati siamo presenti per gustare lo spirito primitivo e sensitivo del concerto lontani mille miglia dai pettegolezzi e le moine style Montecitorio che avvengono dietro le quinte o dentro le stanze degli hotel e rendono improvvisamente grandi piccole cariatidi dall’universo di pastafrolla.
Il pubblico, non più di 7/8 mila, non è quello delle storiche band degli anni 60 e neppure quello della new-wave ma piuttosto una miscela poco colorata di innamorati di rock sanguigno e rythm & blues, di Little Feat, di Tamla Motown, di musica che sia identità ludica e non esibizione di simboli.

Alle 19.05 si spengono le luci a compare Bruce che attacca da solo Factory parlando delle fabbriche di plastica viste dall'autostrada che lo ha portato dalla Germania a Zurigo.
Anna tende a svenire (è una grossa fans di Springsteen, non delle fabbriche) ma Max il biondo la rinviene e la E-Street Band attacca Prove it all night. Tutti si alzano e abbandonano le proprie postazioni, scavalchiamo, scivoliamo, spingiamo e conquistiamo il diritto di vivere il concerto nel suo giusto spirito.
C'è qualche apprensione dopo la cancellazione delle date inglesi ma svanisce di colpo. L'immaginazione che per anni si è nutrita di bootleg e di cronache riportate è soddisfatta e finalmente è realtà.
Springsteen dal vivo e la più vera e sudata incarnazione dello spirito del rock. Sintetizza nel suo act tutto quanto il rock & roll ha prodotto: emozione, feeling, dramma, compiacimento, power, rabbia e amore.
Sul palco è un vero Jake La Motta del rock. Si muove e salta come un eroe del ring, impugna la chitarra come un Winchester, incita il pubblico ad unirsi a lui nella soddisfazione di ciò che sta facendo.
Attorno a lui i «boys» Tallent e Van Zandt, quest'ultimo in completo nero sembra un becchino francese, e «Master of Universe» Clarence Clemmons, colui che si mangia due grattacieli alla volta, completano il primo piano della stage rispondendo alle continue esortazioni di entusiasmo di Springsteen.
Dietro, in secondo piano, la professione e la precisione di Bittan, Federici e Weinberg completano la scena e sorreggono un lirismo che a volte diventa epico.

L'eccitazione è alta e l'acustica ottima, dopo una drammatica Darkness of edge of town, Bruce attacca Who’lI stop the rain dei Creedence Clearwater e il pubblico lo ricompensa con una ovazione generale a mani alzate.
Sembra incredibile ma quasi tutti conoscono i pezzi eseguiti per cui nei ritornelli si crea un aottofondo cantato che esalta la figura di questo cantautore popolare contornato dal carisma presente in figure simili della musica USA (Guthrie, Presley, Dylan, Young, Browne).
Rende omaggio a Woody Guthrie eseguendo con la chitarra acustica This land is my land e appare chiaro come dentro di lui si rifletta buona parte della cultura e storia americana.
Non è rock della trasgressione il suo anche se le sue liriche pullulano di situazioni “balorde”, queste hanno però una risoluzione compatibile con la tradizione populista dell'ideologia americana. Il suo romanticismo,la sua ricerca della libertà, le sue fughe, conservano lo spirito primitivo e ingenuo dell'avventura così come è stata codificata nell' american dream.
Ha però la capacità di farle rivivere nel rock con una tale intensità ed un tale senso dello spettacolo che alla fine sembrano stravolte e carica il sogno dell'ascoltatore di contenuti radicalmente deviati. Può essere benissimo per tali ragioni il nuovo Elvis Presley; anche allora il SIGNIFICATO fu ribaltato dall'EFFETTO.

Le emozioni raggiungono l'apice, il rock è allo stato puro quando esegue Badlands e si cala tra le prime file dei pubblico lancinando una chitarra usata come estrema e finale possibilità della voce.
Il sudore scende dalle braccia e incontra il metallo della chitarra, riflette la bellezza e perché no il tono leggendario del concerto. Si chiude la prima parte e ce n'è proprio bisogno.
Quando riprende, Springsteen lo fa con Sherry Darlin’ e con una bella ragazza catturata fra il pubblico, balla, la bacia e la invita ad aspettarlo dopo l’act. Fortuna da rock & rollstar. Noi, comuni mortali, continuiamo a dimenarci sulle sedie. Anche i più “inglesi”, come Glauco e il grande capo lakota perdono le staffe, per non parlare dei biondi Max e Anna ormai virati al rosso per l'eccitazione.
Una sequenza mozzafiato di brani tratti da The River e Springsteen se ne va sugli amplificatori a realizzare la celebrazione estetica della chitarra. Chi non ha posato almeno una volta con quel “simbolo” puntato come fosse la propria forza scagli la prima pietra! Clemmons lo imita, meno agilmente, dall'altra parte del palco facendo la gioia dei fotografi appiccicati sotto.
Arriva Racin’ in the street, il cui lirismo è pari solo alla commozione e alla bravura di Roy Bittan. Poi è la volta di Backstreets e di Rosalita con cui, tra l'ovazione del pubblico, viene presentata in maniera chiccosa tutta la E-StreetBand. È la fine del concerto.
Il bis non si fa attendere ed è Born to run ad esaltare ancor di più «the spirit of rock & roll », poi con la Detroit Medley Springsteen trascina Clemmons, Tallent e Miami Steve in un carosello rituale di puro omaggio ai grandi interpreti di rythm & blues.
Tutti cantano, anche i muti. Il suono è possente, energico, pulito, nello stesso tempo, Springsteen riesce a comunicare drammaticità e entusiasmo con una generosità al limite dell'incredibile.
Se ne va dopo tre ore di concerto. Penso come sia possibile sostenere un tour di 40 date con un dispendio di energie del genere: è proprio il Jake La Motta del rock! So che ama la Coca Cola, ma i miei pensieri sono molto, molto più maliziosi...
Acclamato concede il saluto finale al “favoloso pubblico di Zurigo” eseguendo Rock & Roll over the world di John Fogerty terminando con quel suo tipico salto all’indietro a Fender sguainata.
Miglior saluto non poteva esserci per i fans più incalliti. Mi siedo, mi accendo una sigaretta e non aggiungo una parola di più.
Fuori incontro Stefano, un elegante chitarrista milanese, è stravolto. È stato per tutto il concerto nella calca sotto il palco, non ha più un filo di voce ma riesce a dire: “Dio esiste, l'ho visto a Zurigo!”.

Il ritorno è nella notte, in compagnia della pioggia e di qualche blues.

Mauro Zambellini

foto di Blue Bottazzi

REPERTORIO ESEGUITO DURANTE IL CONCERTO DI ZURIGO

l' PARTE
Factory- Prove ti all night- Qut in the streets - Tenth Avenue Freeze out -Darknessin on the edge of town - Independence day - Who’ll stop the rain -Two hearts - Promised Land - This land is my land - The river - Badlands-Thunder road.

II’ PARTE
Cadillac ranch - Sherry darlin’ - Hungry heart - Fire - You can look -Wreck on the higway - Racin’ in the street - Backstretts - Ramrod - Rosalita - Born to run - Detroit medley: Good Golly Miss Molly, Devil with the blue dress, c.c. rider, Jenny Jenny - Rock & Rollover the worid

giovedì 22 luglio 2010

Messina, USA


Questa volta invece di scrivere io, lascio spazio a una bellissima lettera ricevuta da Federico Bartolo:

"Stavo mettendo un po’ d’ordine alla mia perenne confusione cercando di sistemare i giornali musicali che in oltre 30anni ho conservato quando una copia del Mucchio Selvaggio con Springsteen in copertina (numero 42 anno 1981) è saltata fuori. Il nastro dei ricordi si è riavvolto e magicamente seduto li in terra in mezzo alla polvere delle cose che stanno in soffitta ho riaperto quel numero che raccontava del concerto all’Hallenstadion di Zurigo. Lo ricordavo perfettamente quel reportage di Zambo parola per parola anche perché se non ho mai visto Bruce dal vivo in parte è colpa di quel meraviglioso resoconto. A quel tempo insieme alle canzoni di Bruce, Clash e Tom Waits, il Mucchio è stato la mia giacca per il freddo. Oggi rileggendolo ho pianto come in quella mattina. Lacrime sulla città Bad Scooter cerca il suo buco ed io sono solo assolutamente solo e non riesco ad andare a casa. A 18 anni quella mattina di Giugno sarei dovuto andare a scuola, ma passando dal tabacchi-edicola l’unico posto dove arrivava il Mucchio lo vidi appeso con la molletta da bucato che penzolava nel vento. In copertina c’era Bruce e Big Man per cui non ci pensai due volte a fare colletta dato che di soldi non ne avevo. Ma allora la gente era generosa e in breve tempo raggiunsi la somma necessaria comprai il giornale e mi incamminai verso il porto. Mi sedetti sugli scalini del molo dove alcuni anziani stavano pescando. Rimasi li tutta la mattinata leggendo e rileggendo quel racconto guardando le navi e lo stretto di Messina mentre le lacrime mi inondavano il viso. Poi bighellonai senza meta per la città, andai alla stazione a guardare i treni e poi al bar del porto , dove mi conoscevano tutti quelli che lo bazzicavano che non erano stinchi di santo, ma erano buoni con me. Vagai solitario per una zona radioattiva e ne usci con l’anima intatta mi nascosi nell’ira della folla ma quando mi dissero siediti io mi alzai oh.. crescevo.
Bruce lo conobbi per caso spulciando le copertine in un negozio di dischi che si chiamava Parametro, mi ritrovai in mano la copia di Darkness on the edge of town è fu un colpo al cuore. Guardavo quella faccia dura e spigolosa irriverente e malinconica guardavo quel teppista ed era come guardarmi allo specchio. Ma come al solito soldi non ne avevo quindi nascosi il disco nel reparto della musica classica per sottrarlo ad un eventuale compratore perché di copie ne avevano una sola. Non sapevo neanche chi fosse quel tizio dal cognome impronunciabile ma quella faccia mi aveva detto tutto, tutto quello che c’era da sapere. Conoscendomi sapevo che avrei trovato il modo per racimolare il denaro, mi serviva solo un pò di tempo. Il mio amico Sal (come Dean) mi venne in aiuto pochi giorni dopo. Trovò un lavoretto che avremmo fatto di domenica, si trattava di un trasloco. Ci spezzammo la schiena quel giorno, dalle sei del mattino alle undici della sera a trasportare una montagna di scatole, mobilia, suppellettili che non servivano a nulla ma si sa la gente ama circondarsi di cose inutili. Alla fine della giornata ero distrutto ma avevo i soldi in tasca ed era quello che contava. Di primo mattino suona il fischio della fabbrica l’uomo si alza dal letto, si veste prende il suo pranzo ed esce nella chiara luce del mattino. È vita, vita,niente altro che vita di lavoro. L’indomani il negozio che si trovava vicino alla scuola che frequentavo era aperto già di buon’ora dato che vendeva anche articoli di cartoleria per cui prima di entrare in classe comprai il disco che misi dentro la carpetta da disegno che ogni studente che frequentava il tecnico geometri doveva avere. Quelle sei ore di lezione furono lunghissime di tanto in tanto sbirciavo la copertina cercando di memorizzare quel cognome, ma continuavo a fissare il volto ero ipnotizzato da quello sguardo. Ero prigioniero, mi sentivo soffocare cercavo la mia strada , ma qual’era la mia strada. “tutto mi sembrava un vicolo cieco il r’n’r arrivò in una casa dove non esistevano né musica nè libri né qualunque scampolo di creatività, e s’infilò ovunque” Suonai quel disco a tutto volume per giorni ero il terrore del vicinato tutti si lamentavano con i miei genitori ma a me non dicevano nulla di certo il mio aspetto e il mio sguardo faceva la differenza cosi evitavano di affrontarmi alla fine non dissero più nulla deposero le armi e di certo mi odiarono. Quelle canzoni le mandai giù a memoria ogni nota ogni passaggio lo conoscevo perfettamente quelle canzoni erano state scritte senza filtri senza veli , dopo Woody, era la voce della classe operaia , di chi aveva perso tutto, era la voce dei perdenti, dei ribelli sognatori a qui ridava dignità rispetto speranza. Sì la speranza, di credere in se stessi che non è cosa da poco. Sei nato con nulla e cosi sei felice appena hai qualcosa mandano qualcuno per cercare di portartela via.
Nessuno tolti i Clash dopo DARKNESS è riuscito a cantare quei temi con quella violenza e quel romanticismo disarmante perché certe cose non vengono dal nulla ma ti abitano dentro dopo sarai libero di respirare, l’angoscia se ne andrà, svanirà nel buio e pagherai un prezzo perché c’è sempre un prezzo da pagare. Bruce non le canterà mai più con quel intensità che aveva nel tour del 1978, non avrebbe mai più potuto farlo. Ma da lui in quei giorni imparai a lottare e a non arrendermi mai. Le illusioni ti indeboliscono i sogni e le possibilità invece ti rendono forte”.
Sono cresciuto nella periferia nord della città in una valle dove c’era una sola strada e la Fiumara (il mio fiume). Ero circondato da alberi di limoni e mandarini e c’era una grande gebbia dove d’estate mi tuffavo insieme alle rane ai girini e al lippo (muschio) dopo aver giocato scalzo al pallone con 40 gradi di temperatura perche un paio di scarpe da calcio non le ho mai avute. Con il mio amico Pino andavamo a caccia di tiraombra e a mangiare le nespole e le ciliege dagli alberi ed avevo sempre un cane randagio con cui dividere il mio panino con il pomodoro, e c’era mia madre affacciata al balcone. Ho imparato a tenere la guardia alta e a difendermi dai più furbi ho fatto a botte ne ho prese e ne ho date è stata dura avvolte ma crescevo solitario e forte. Sto pensando, sono un perdente su questo percorso sto morendo ma non posso tornare indietro perché dall’ombra sento invocare il mio nome e ti accorgi di come ti hanno giocato questa volta. Sono tutte menzogne ma sono impigliato nei fili di ferro di queste strade di fuoco. Molto presto mi resi conto che non avrei avuto molte possibilità per la mia vita se non quelle già tracciate da altri prendevi un diploma poi facendo le giuste anticamere ovvero leccando il culo al politico di turno potevi finire a fare l’impiegato alle poste o in ferrovia o prendere il posto di tuo padre se era stato servizievole con il suo padrone. Se decidevi di fermarti alla terza media finivi a fare il manovale o a vendere la frutta per strada. Io di leccare il culo non ne ho mai avuto voglia pertanto ero in fuorigioco ero una scheggia impazzita in un sistema perfetto a renderti una nullità il rock mi ha salvato la vita, Bruce mi ha salvato la vita.
Sono andato giù al fiume e mi sono giocato il tutto per tutto da solo con le mie forze. C’è chi nasce sotto una buona stella e chi invece la buona stella se la procura in qualsiasi modo. The River me lo regalò (mesi dopo l’uscita ufficiale) mio cugino per il mio diciottesimo compleanno.

Nel frattempo Zambo sul numero 35 (nov. 1980) del Mucchio scaldò i motori non pago della recensione con un articolo e un paio di testi tradotti. Sulla copertina del disco c’era sempre lui ma stavolta era un Bruce agreste non più metropolitano da bassifondi. Con camicia a scacchi e il viso sicuramente più rilassato sembrava un novello John Fogerty. The River al di là delle apparenze è un disco di canzoni folk vestite di rock. Canzoni che si possono suonare con una chitarra acustica a differenza di quelle di Darkness, disperate, elettriche fino al midollo. Quando finalmente arrivò sul piatto del mio piccolo HI-Fi fu una festa di paese, la mia casa si riempi di amici avevo fatto proseliti anche nel vicinato curiosi di ascoltare una musica diversa da quella che passavano in radio. In quell’estate del 1981, complice il fatto che i miei genitori partirono per andare a trovare una zia, bevvi birra a fiumi e fumai come un turco ascoltando uno dei migliori dischi di sempre. Wreck on the Highway è una ballata folk di tre accordi struggente e bellissima una delle migliori di questo gigantesco doppio ed è la fine di The River e l’inizio del capolavoro Nebraska. A volte mi sveglio nell’oscurità e osservo la mia bambina mentre dorme poi mi metto nel letto e la stringo forte. Rimango li la notte pensando ai rottami sull’autostrada. Quel concerto lo avevo sognato lo sentivo nel profondo che quella era la mia occasione di vedere il mio Bruce ma al solito dovevo fare i conti con le mie possibilità che erano uguali a zero. Quando quel giorno lessi quella diretta del concerto di Zambo capi che quella magia era irripetibile avevo perso la mia occasione dopo non sarebbe stato più lo stesso. Arrivò Nebraska e poi i giorni di gloria, cosi al bivio me ne andai per le mie strade blu, in cerca delle mie possibilità come lui mi aveva insegnato. A volte il vecchio fuoco si è riacceso penso a The Ghost of Tom Joad, a 41 Skin, Devil & Dust. Ma quando ho voglia di rincontrare il mio vecchio amico è sempre al fiume che scendo, al buio ai margini della città. La porta a vetri sbatte il vestito di Mary svolazza come se fosse una visione balla sotto la veranda mentre la radio suona con Roy Orbinson che canta per le persone sole.
Telefonai a mia madre da una cabina telefonica verso l’una per tranquillizzarla, sapevo che era in pena per me mi vedeva smarrito e silenzioso. Verso le otto di sera andai alla fermata degli autobus ed aspettai il sette sbarrato per far ritorno a casa. Quando scesi alla fermata vicino la chiesa alzai gli occhi e la vidi affacciata al balcone anche lei mi vide e rientrò in casa. Mi incamminai lentamente sali le scale del palazzo e suonai il campanello. Lei venne ad aprirmi e con la sua ruvida dolcezza mi chiese dove fossi stato tutto il giorno. Senza neanche stare a pensarci gli risposi a Zurigo mamma con Mauro Zambellini , mi guardò sorniona e pensando che la stavo prendendo in giro mi rispose "ed io a New York". Le sorrisi e l’abbracciai e fu la prima volta che lo facevo.

Messina 30 GIUGNO 2010 BARTOLO FEDERICO

A MAURO ZAMBELLINI CON PROFONDA GRADITUDINE

venerdì 9 luglio 2010

Città del Rock: Los Angeles


I LOVE L.A (Randy Newman)

Odio New York è fredda e umida
E la gente veste come se fossero tutti frati
Lasciamo Chicago agli eschimesi
Quella città è un po’ troppo inclemente per noi, per te, ragazzaccia

Venendo giù per l’Imperial Highway
Con una grossa, volgare rossa al mio fianco
I venti di Santa Ana che soffiano caldi dal Nord
...siamo nati per correre

Abbassa la tapparella, chiudila metti i Beach Boys, baby
Non fermare la musica
Andremo avanti così finchè ce la faremo

Dalla South Bay alla Valley
Dal west side all’east side
Tutti sono tanto contenti
Perchè c’è sempre il sole
Ed ogni giorno è perfetto

Amo L.A (noi l’amiamo)
Amo L.A (noi l’amiamo)

Guarda le montagne guarda quegli alberi
Guarda quel tipo laggiù, uomo
È inginocchiato a guardare quelle donne
Non ve ne sono come loro, in nessun posto

Century Boulevard , l’amiamo
Victory Boulevard, l’amiamo
Santa Monica Boulevard l’amiamo
La sestta strada l’amiamo, l’amiamo

Amo L.A
Amo L.A noi l’amiamo