martedì 28 settembre 2010

Old Rockers Never Die


Come succede nella cinematografia anche nel rock è venuta a mancare quella che in un lontano passato definii come la Serie B ma col coltello tra i denti. Escono tanti film grandi e grossi, in genere di produzione hollywoodiana, alcuni belli altre sonore bufale o semplici blockbuster per gonzi e giovinetti ma quei filmetti di serie B, molti noir, altri road-movie, qualche commedia ed un paio di western fuori tempo massimo, mancano all’appello se si eccettua qualche film di James Gray (Little Odessa, Two Lovers, I Padroni della notte) oppure il recente State of Play di Kevin McDonald o qualche altro mohicano fuggito all’eccidio. Perché di eccidio si tratta, i produttori non investono più sui film di mezzo, quelli che con un budget ridotto possono dare risultati sorprendenti (l’archetipo è Easy Rider) probabilmente perché non esiste più un pubblico disponibile e recettivo per un tale prodotto o meglio opera artistica. Quei film che si vedono senza mangiare popcorn e bere Coca Cola, che in genere si da soli al cinema a vederli perché nemmeno la fidanzata sa dell’esistenza e che non possono permettersi il tormentone televisivo con cui vengono lanciati, niente spot o strillo in siti internet. Roba da cinephiles ma anche questo tipo di fauna è cambiata perché al vecchio, caro filmetto americano indipendente o semi-indipendente questi preferiscono l’ultima palla di qualche staterello africano o il dramma neo-realistico di una storia asiatica che in Italia è stata raccontata 50 anni fa. Li facessero uscire i B-movie in DVD un modo per salvarsi ci sarebbe ma questo sembra succedere solo in parte negli Usa perché da noi gli scaffali dei vari noleggiatori sono spietatamente invasi sempre e solo dagli stessi titoli e dagli stessi attori e anche se si ha l’intrepido coraggio di stare svegli fino alle 3 e 45 anche la Tv non aiuta.
Per il rock è più o meno la stessa cosa, pur non in modo così radicale. Passati gli anni o anche i decenni in cui si viveva con una sana, splendida ed esaltante serie B adesso si è nel baratro ed il salvagente sembra lanciarlo qualche sopravvissuto degli anni 60 che in barba alla propria età ancora fa musica. E meno male che ci sono loro.
Per più di un decennio, a parte qualche nome da novanta come Springsteen, Dylan, Mellencamp, Petty, si è vissuto soprattutto coi gregari che non erano gli avanzi del sistema ma bensì quelli che in termini di creatività, feeling, autenticità offrivano linguaggi, modi, attitudine e stimoli al rock che da loro prendeva la benzina per poter continuare la propria corsa. Negli anni ottanta ci furono i Dream Syndicate, i Blasters, i Green On Red, i Beat Farmers, Joe Ely, Steve Earle, i Los Lobos, i Del Fuegos, i Del Lords, tanto per citarne qualcuno e negli anni novanta i Gin Blossoms, gli Uncle Tupelo, Wilco, i Son Volt , Slobberbone, Todd Snider, i Jayhawks, Whiskeytown, Alejandro Escovedo, Joe Henry, James McMurtry, Blue Mountain, Black Crowes ancora per citarne qualcuno e tuuti questi riempivano i nostri ascolti senza che si sentisse il bisogno di ricorrere alla seria A o almeno facevano da base continua, permanente, assidua, insistente a quello che era il verso sentire del rock, il suo cuore, il suo sangue, salvo poi ubriacarsi con Springsteen quando veniva in tour o appassionarsi a qualche album degli U2 o sperare che Dylan fosse di luna buona.
Adesso non è più così, consumata l’ondata che è andata a rimorchio dell’alternative country e del roots-rock da cui per fortuna sono usciti gli unici che tengono ancora a galla l’eroica Serie B col coltello tra i denti ovvero Drive By Truckers, Lucero, Ryan Adams, Calexico, Ray LaMontagne, Cracker più qualche jam.band come Dave Matthews e Gov’t Mule (oltre naturalmente agli inossidabili Black Crowes che hanno saputo rinnovarsi senza perdere l’anima), di outsider in grado di dare linfa al nuovo/vecchio rock n’roll o almeno di segnalare una possibile strada secondaria in cui vivere qualche sogno di rock n’roll non se ne vede neanche l’ombra e così per riflusso e riflesso si è tornati a ridare fiducia a vecchi rockers che per fortuna non sono morti e continuano l’onesto loro lavoro. Probabilmente fossimo ancora negli novanta gli ultimi dischi di Robert Plant, in particolare Band Of Joy e il Clapton omonimo di questi giorni nemmeno li avrei comperati tanto avevo di altro per sollazzarmi. Avrei avuto di meglio da sentire e altri titoli su cui investire il mio tempo e i miei soldi, dischi e artisti con grinta da vendere, fame di arrivare, energia da spendere, idee da mostrare, passione da condividere.
Serie B insomma ma col coltello tra i denti.
Ed invece nella penuria di squadre agguerrite, giovani e pimpanti come quelle offerte da una battagliera serie minore mi tocca tornare genufletto al tempio del rock e godere, in realtà piuttosto freddamente e con un orgasmo ridicolo, di gente che preferivo quando urlavano l’hard-rock o facevano il blues dei crossroads o cantavano di Zuma.
Plant, Clapton e Young sono solo un esempio, perché sono gli ultimi in ordine di apparizione e i loro dischi poi non sono affatto male, anzi, forse un po’ troppo eleganti, formali e pensionistici per i miei gusti (per il Neil Young di Le Noise il discorso è diverso e lui dovrebbe prendere esempio da Dylan, fare meno dischi e gestire meglio l’ispirazione) ma i tempi sono cambiati e visto l’aria che tira in tutti campi specie in quello politico, è forse meglio avere qualche vecchio saggio che sa cosa fare che qualche rampante che si crede il futuro del rock n’roll o il salvatore della patria.
Certo è una vita che al massimo si sorride ma non si ride più.

Mauro Zambellini

giovedì 23 settembre 2010

Ron Wood > I Feel Like Playing


Il ragazzaccio è tornato a fare dischi, il suo settimo come solista, il primo dal 2001
e ha invitato alla sua festa Slash, Flea dei Red Hot Chili Peppers, Billy Gibbons degli ZZ Top, Ian Mc Lagan e i maestri del country e del soul Kris Kristofferson e Bobby Womack. Non ha mai fatto dischi memorabili Ron Wood e nemmeno questo lo è ma c’è una onestà nella sua musica che contrasta col suo essere rockstar, con la sua vita dissipata e glamour, con la sua sovraesposizione mediatica. E’ quell’amore verso il rock n’roll originario, verso le radici blues e la passione soul che anima le sue canzoni e la sua musica e si traduce in un allegra rappresentazione del rock come l’ hanno inventata i Faces e portata al successo gli Stones. Un disco di Wood non è poi così diverso da uno degli Stones, solo che manca la band ed è come togliere il pecorino dalla carbonara. Manca il quid che rende unico ed originalo il piatto anche se, come accade qui, il menù non è certo scadente, anzi si lascia gustare con estremo piacere, non è una cosa da grandi chef parigini ma se la trattoria è questa ci torno anche domani.
I Feel Like Playing è divertente e onesto, un disco da corsaro del rock con tutto quello che comporta in termini di it’s only rock n’roll but we like it. Basta accontentarsi di divertirsi, ballare, sorridere e qualche volte pensare, come accade nella bellissima ballata iniziale Why You Wanna Go and Do A Thing Like That For una ballata romantica e crepuscolare, cantata alla Dylan e suonata come facevano gli Stones in Tattoo You, una ballata che scivola addosso sulla pelle e scalda come il sole del sud. Ci sono altre ballate nel disco ma questa è veramente super, roba che nemmeno gli Stones fanno più. Ma oltre il cuore è il Ron Wood gaglioffo e smargiasso a tenere banco, quello di Thing About You un rockaccio un po’ glam scelto come singolo o quello aromatizzato reggae di Sweetness My Weakness, imitazione delle giamaicate di Keith Richards oppure di Lucky Man altro pezzo da novanta e ancora quello blues di una sincopata e funky Spoonful e del più tradizionale I Gotta See che altro non è che una trasposizione di I Got The Blues dei Rolling Stones. Torrido il finale con la sarabanda elettrica di 100%, punteggiata dalle venature blues dell’armonica e con i suoni acidi della rovente Fancy Pants misto di Pearl Jam e BoDiddley prima del romantico film da strada di Tell Me Something che chiude il disco con un bel assolo di chitarra.
Dodici le tracce di I Feel Like Playing ognuna con un Ron Wood diverso e divertito e con un paio di ballate che ricordano da vicino il Peter Wolf di Midnight Souvenirs. L’artwork di copertina è dello stesso Wood.
Uno di quei dischi fatti per infilare in macchina e guidare contenti magari pensando a quel nasone, a quell’improbabile taglio di capelli e a quella simpatica faccia da schiaffi che è Ronnie, uno dei pirati del rock n’roll ancora in circolazione.

Mauro Zambellini Settembre 2010

mercoledì 22 settembre 2010

vintage: i più selvaggi del 1979


Da Il Mucchio Selvaggio degli ani settanta: i più selvaggi del 1979, di Mauro Zambellini

Bop Till You Drop - Ry Cooder
Lubbock - Terry Allen
Lost In Austin - Marc Benno
Dancing In Dragon's Jaws - Bruce Cockburn
Farewell To Winterland - Grateful Dead
Live In The Promised Land - Bruce Springsteen
Live In Philadelphia - Dire Straits
Tom Verlaine
Down On The Farm - Little Feat
Mingus - Joni Mitchell
Fretless - Chris Darrow
How Cruel - Joan Armatrading
I'm The Man - Joe Jackson
Specials
Reggatta de Blanc - Police