sabato 25 dicembre 2010

2010 in Rock


Top Ten

1) Mojo > Tom Petty & the Heartbreakers
2) Croweology > The Black Crowes
3) Midnight Souvenirs > Peter Wolf
4) The Open Road > John Hiatt
5) God Willin’ & the Creek don’t Rise > Ray LaMontagne
6) Street Songs of Love > Alejandro Escovedo
7) Leave Your Sleep > Natalie Merchant
8) 7 Walkers > 7 Walkers
9) Band of Joy > Robert Plant
10) Tin Can Trust > Los Lobos

Ristampa
The Promise: The Darkness on the Edge of Town > Bruce Springsteen

Dvd
London Calling Live in Hyde Park > Bruce Springsteen & The E Street Band

Italian Shoes
Cheap Wine > Stay Alive!

Altri suoni
Evasio Muraro > O tutto o l’amore

Drunk n’ beat
Pills and Ummo > Southside Johnny & The Asbury Jukes

Live Album
Gov’t Mule > Mulennium

Concerti
John Hiatt and The Combo : Milano 25/10/2010

Delusioni
John Mellencamp > No Better Than This
Deer Tick > The Black Dirt Session

Rock Books
Life > Keith Richards

mercoledì 22 dicembre 2010

7 Walkers


Non finisce di sorprendere New Orleans nonostante in questi ultimi anni non sia stata risparmiata dalla sfiga. La musica continua a pulsare dentro il cuore della città ed è per questo che la Big Easy ha sette vite. Sette come i 7 Walkers che in realtà sono in quattro e si sono formati nel 2009 quando il chitarrista, autore e cantante Malcom “Papa Mali” Welbourne ha radunato attorno a sé il batterista dei Grateful Dead Bill Kreutzmann, il bassista dei Meters George Porter Jr ed il multistrumentista Matt Hubbard. Ne è nata una strana creatura, di quelle che hanno alimentato le leggende e le dicerie scure della città. Una specie di jam-band che mischia un background inconfondibilmente New Orleans con schegge di minimalismo sperimentale degne dei Latin Playboys, ballate ipnotiche e bluesy da assolati pomeriggi nel Delta, ne è esempio la splendida King Cotton Blues con la partecipazione di Willie Nelson con dondolanti nenie che paiono figlie del Gris Gris di Dr.John. Insomma un altro rito voodoo con cui festeggiare degnamente il santo Natale visto che il disco è uscito in questi giorni . Un mondo sfuggente e oscuro esce da 7 Walkers fatto di intrugli magici e di piogge scroscianti nel bayou, di strambi personaggi che rispondono ai nomi di Chingo, Mr.Okra e lady Sue di Bogalusa e di tipastri che piacerebbero tanto al compianto DeVille, lui che in queistiluoghi ci ha vissuto come un lupo mannaro. L’universo dei 7 Walkers è fosco, intrigante e la musica sgorga sinuosa, quasi improvvisata secondo una danza che evoca antichi spiriti, figure misteriose, segreti primordiali.
Un disco non collocabile in nessuna categoria di genere se non figlio di quell’immenso crogiolo di suoni e umori che è New Orleans, un lavoro affascinante che vede la voce roca e vetrosa (e un po’ Ted Hawkins) di Papa Mali innestare sghembe cantilene da Tom Waits dell’officina (Chingo) o rovistare negli armadi del classicismo americana per ricavare deviate versioni di Hey Bo Diddley ribattezzata Hey Bo Diddle o ancora sincopare con il reggae che gli è rimasto nell’ugola e nel sangue dopo l’esperienza con i Killer Bees brani che si contorcono attorno ad un briciolo di ritmo e si piazzano nella testa senza più uscirne.
Papa Mali è la voce e la chitarra di questo rito ma funzionali al suo gris gris sono il basso funky di George Porter, la batteria poliritmica di Bill Kreutzmann e i diversi strumenti usati da Matt Hubbard, le tastiere, l’armonica e il trombone. Un ruolo importante lo gioca anche Robert Hunter con le liriche, l’uomo che ha firmato tante canzoni dei Grateful Dead e ha lavorato recentemente con Bob Dylan. Ma è l’atmosfera del disco a stregare più delle presenze e delle tecniche, una musica che si insinua sotto pelle e vi rapisce in un mondo distante da quello in cui è la luce a dare vita. Blues dell’oscurità, con tutto il fascino che ne segue.

Mauro Zambellini

venerdì 17 dicembre 2010

Mauro Ferrarese > Wounds, Wine & Words


Wounds, Wine & Words letteralmente ferite, vino e parole, è un disco di blues acustico di sofferenza, euforia e parole. Ne è autore Mauro Ferrarese un tipo che sembra uscito da un festival di musica acustica della California post-psichedelica, capelli lunghi ingrigiti, pizzetto, look da montanaro, sguardo arguto e faccia simpatica. Abita nel Sud Tirolo ma ha fatto la gavetta a New Orleans dove ha imparato l’arte di arrangiarsi facendo il busker ed ha imparato la legge del blues. “La strada è il miglior palcoscenico per un uomo di blues” dice Ferrarese a chi gli chiede in quali festival ha suonato e così aiutandosi con la chitarra e con il dobro Ferrarese canta un blues spartano e felicemente parco che trae origine dal Delta (Son House è il suo maestro) e poi sconfina nel vicino Texas. Un blues scheletrico e primitivo ma non scolastico con una esecuzione pulsante e viva nonostante la strumentazione ridotta all’osso ed un allargamento verso il ragtime, il gospel, il di folk di Woody Guthrie e il country di Hank Williams.
Wounds, Wine & Words è un affresco di musica americana della strada che spazia dal fantasioso stompin blues di Frontdoor Blues, brano legato allo stile di Son House al più oscuro SoulTrain dove Ferrarese mette in luce il suo slidin’ ed una voce chiara, pulita, autorevole. Ipnotico come può esserlo un blues del deep south, SoulTrain è l’esempio delle molteplici facce mostrate da Ferrarese. Come scrive lo stesso sulla copertina del disco “il grande Son House raccontava nei suoi blues di una donna e di un uomo….io non ho molte parole se non in queste dodici tracce. 1 Thing nasce come elaborazione di un vecchio canto di lavoro che chiamavano Rosie, Earthquake e We’re All Alive sono nate nell’aprile del 2009 dopo una visita agli amici di L’Aquila. Le altre sono storie più o meno recenti che hanno attraversato la mia strada e dove ho incontrato anche voi”.
Parla la musica in Wounds, Wine & Words e i testi si fanno carico di un’ironia hanno che trasmette positive sensazione anche quando sono di scena l’abbandono, la sofferenza, la malinconia. Ma Mauro Ferrarese con la sua voce convincente, la sua pregevole tecnica col dobro ed il suo spirito sa essere un nostrano Leon Redbone che diverte con una musica dei vecchi tempi più di quanto non riescano tante moderne rock n’roll band.
Blues, folk, country di montagna ed una salutare ventata di old-time music, la stessa che Ferrarese sviluppa quando si esibisce con i Red Wine Serenaders (vederli assolutamente dal vivo), un concentrato di swing e buon umore con Ferrarese coadiuvato dall’ottimo chitarrista Max De Bernardi e dalle frizzanti Veronica Sbergia e Alessandra Cecala due musiciste e cantanti che con washboard ukulele e contrabbasso riempiono la scena più di un’orchestra. Se li trovate in giro dalle vostre parti non perdete il loro set.

MAURO ZAMBELLINI

giovedì 2 dicembre 2010

Bruce Springsteen > The Promise: The Darkness On The Edge Of Town Story


The Promise: Darknes on The Edge of Town Story racconta con 3CD e 3 DVD la registrazione al Record Plant di New York di quell’album ed il successivo tour del 1978, considerato dagli appassionati il più esplosivo della lunga carriera live di Bruce Springsteen.
Il primo DVD intitolato The Making of Darkness of Edge of Town ricostruisce la genesi del disco, quello che successe al Record Plant , le difficoltà nel trovare il suono giusto (fu fondamentale l’arrivo del tecnico del suono Chuck Plotkin), le tensioni e la stanchezza, il cameratismo tra i musicisti e i tecnici Jimmy Iovine e Thom Panunzio, le motivazioni e la rabbia che Springsteen si portava addosso dopo che la causa legale col suo ex manager Mike Appel gli avevano impedito di lavorare in studio per più di un anno. Il film è una sorta di viaggio nella creazione artistica di quel disco, il regista Thom Zimny ha ricostruito con le immagini e le riprese dell’epoca intercalandole con interviste di oggi dove i protagonisti, a cominciare da Springsteen, parlano di Darkness e di quel periodo tanto importante per lo sviluppo del rock n’roll.
“Quel disco fu una svolta, una riflessione, una nuova maturità. Fu una sorte di grande resa di conti con il mondo degli adulti, con una vita di limiti e compromessi ma anche una esistenza con capacità di ripresa ed impegno verso la vita. Mi chiedevo come potevo rimanere leale verso le cose con cui ero cresciuto, la mia famiglia, i miei luoghi, i miei amici, il lavoro, la comunità, Born To Run mi aveva portato dappertutto, mi aveva portato il successo e la notorietà ed era stata una grande tentazione ma io non volevo tradire la mia vita interiore. Darkness fu il disco in cui volevo cercare di capire come farlo”. (B.S)

Springsteen aveva cominciato a scrivere le canzoni dell’ album in una casa a Holmdel nel New Jersey, avrebbero dovuto costituire l’ossatura del suo quarto album se la causa con Appel non gli avesse impedito di registrare, in realtà le outtakes messe a disposizione da questa ristampa dimostrano come Darkness sia contiguo in un senso a Born To Run e nell’altro a The River e molte canzoni potevano appartenere al disco che doveva esserci tra Born To Run e Darkness.
Darkness non nasce come reazione ai problemi legali sofferti da Bruce piuttosto è una reazione al successo che gli aveva procurato Born To Run e alla paura di sentirsi inghiottire in un mondo distante dalle sue origini. Il nuovo album matura difatti in un microcosmo provinciale e suburbano, nella vita della gente delle piccole cittadine del New Jersey e proprio la comprensione verso la gente comune generalmente tagliata fuori dalla vita americana ( e non solo) è l’immagine dominante del disco, quella working- class nelle cui case non c’erano libri, non c’era musica, non c’era nient’altro ed il rock n’roll si infiltrò per cambiare scenario, visioni, aspettative. Springsteen ha una visione ed è in cerca di una visione, scrive della gente che cerca di rompere queste catene, Darkness on the Edge Of Town è uno dei dischi più complessi e lucidamente rivelatori mai realizzati, una grandiosa opera di folk urbano suonato rock che aiuta a sopravvivere e non mollare mai.
Per rendere esplicito il carattere realistico dell’opera andava ridimensionata l’esuberante speranza espressa in Born To Run, necessitava un suono più scarno, più essenziale, più rado ed è proprio qui che Bruce, Jon Landau, Jimmy Iovine e Thom Panunzio lavorarono fino all’ossessione per creare un suono aspro dai colori netti, un bianco e nero cinematografico dove le chitarre e la batteria fossero preminenti rispetto alle melodie del sassofono e alla maestosità orchestrale del precedente album.
“Volevamo ridimensionare la portata, il sound di Born To Run era una specie di tecnica wall of sound, ora c’era invece questo vasto campo cinematografico. C’era questa atmosfera sinistra e speranzosa, il termine che usavamo per descrivere il sound del disco era film sonoro, volevamo un sound solitario, disincantato per mischiare terminologia audio e video, volevamo dare alle canzoni più durezza e meno dolcezza, un grande senso di implacabilità. Volevamo un disco nero come il caffè. Per Born To Run l’ispirazione era stata il Brill Buliding e Phil Spector, per Darkness l’idea era più interiore e rurale”. (Jon Landau)

Il risultato è un’opera d’arte che unisce il realismo urbano americano con le suggestioni noir dei film in bianco e nero. Un sound livido e urbano diventa la poesia della gente comune, esseri dimenticati nelle tante smalltown della provincia americana e nelle periferie metropolitane. Il cambio è netto rispetto al passato, radicale, non appena si ha in mano la copertina di Darkness. E’ questione di tonalità, mai foto (Frank Stefanko) sono risultate così rivelatrici rispetto ad un contenuto, c’è quella faccia da operaio che si immagina identica a quella dei personaggi delle canzoni, c’è immedesimazione tra artista e protagonisti della storia, come se Springsteen dicesse “sì, questa è la mia storia ed è anche quella dei personaggi delle mie canzoni”.

Già dalle battute iniziali di Badlands si capisce che questa è musica arrabbiata e ribelle ma anche adulta. La chitarra urla, l’organo ulula, le voci ruggiscono, il basso pulsa , la batteria è uno schianto, il suono è fresco e implacabile, nell’oscurità ai margini della città puoi trovare la forza per resistere. Patti Scialfa, solitamente parca di commenti, sintetizza con lucido candore nel DVD “adoro l’immagine del lupo solitario e scaltro che vedo quando ascolto questo disco”.
Fu però l’intervento decisivo di Chuck Plotkin, un tecnico del suono di Los Angeles, a togliere le castagne dal fuoco e a porre fine a quelle massacranti settimane di registrazioni. Fu il salvatore del disco, colui che seppe ridurre l’ enfasi delle canzoni con un mixaggio più stringato e moderno alzando i livelli di chitarra e batteria e trasformando Darkness in un ideale di rock n’roll da strada, “un sound elettrico evoluto da Highway 61 e condensato a livelli esplosivi destinato a diventare standard per un ‘intera generazione a seguire”. (Marco Denti)

Darkness on the Edge of Town venne pubblicato il 6 giugno 1978 in un anno in cui si contano almeno una quindicina di dischi imperdibili. Originariamente avrebbe dovuto intitolarsi The Promise in onore di una delle più belle ballate scritte e poi accantonate, oggi The Promise è il titolo dell’ intera ristampa, tre CD e tre DVD raccolti dentro il mitico block notes su cui Bruce scriveva appunti, titoli, testi di canzoni, minutaggio dei brani e scalette che offrono il materiale originale e le outtakes, gli estratti del tour del ’78 ed il concerto a porte chiuse tenuto ad Asbury Park nel 2009 con l’intero Darkness. Un’opera sontuosa e completa all’altezza di un grande avvenimento discografico e culturale.

Sono ventuno le outtakes incluse nei due CD delle Lost Sessions di Darkness on the Edgle of Town. C ‘è una Racing In The Street monca del colossale crescendo piano/organo nel finale ma con un violino in più e una Factory sotto mentite spoglie ovvero Come On (Let’s Go Tonight), una Talk To Me finita in Heart of Stone di Southside and The Asbury Jukes e altre “sconosciute” già bootlegate. Niente di tutto ciò avrebbe però arricchito il disco originario anche se eliminare Rendezvous, Because the Night e soprattutto The Promise non deve essere stato facile ma tutto quanto poteva allentare la tensione dell’album e diluire i toni cupi e amari da blue-collar record doveva essere lasciato fuori. “Scarti” come Gotta Get That Feeling, brano che risuona dello stile di Born To Run con tanto di assolo di sax, cori newyorchesi doo-wop e scampoli di monumentale wall of sound spectoriano, Oustide Looking In già orientata invece verso The River con Bruce che urla alla Jackson Cage sugli schiamazzi R&B di Clemons e la mollacciona Someday (We’ll Be Together) non rientrano nella sceneggiatura di Darkness.
Meno facile magari rinunciare a One Way Street, lento ed intimista brano da songwriter, con un misurato lavoro di Roy Bittan al pianoforte ed una entrata di Clemons dai toni romantici e Wrong Side Of The Street, la parte sbagliata della strada con quel carico di rock n’roll da guappi che farà da base a mezzo The River.
Ovvio fare a meno invece di The Brokenhearted, love-song spezzacuori e zuccherosa cantata con il pathos dell’Elvis di Can’t Help Falling In Love mentre in Candy’s Boy si affaccia la crepuscolare malinconia delle periferie con Federici che suona il glockenspiel e la nebbia che ingrigisce l’orizzonte.
E’ difficile credere che Save My Love sia un prodotto di quel periodo ma dall’archivio del 1976-1978 presentato nel DVD c’è una delle prime stesure della canzone così come veniva suonata a Holmdel. Nel CD la versione è un’altra, ha una brillante e squillante veste sonora e induce a credere che sia stata reincisa dallo Springsteen di oggi, cosa che spiega la sua diffusione via rete e via radio. Ain’t Good Enough For You va molto addietro, a quelle sarabande soul-rock che richiamano lo stile da festa del quartiere di The Wild The Innocent and the E Street Shuffle mentre Spanish Eyes grazie al titolo sembrerebbe una soul-ballad del De Ville con la rosa in mano e It’s a Shame è materia da Asbury Jukes con massiccio dispiego di trombe e sassofoni. Del tutto anonima è The Little Things (My Baby Does) il cui falsetto sta a Darkness come la simpatia sta a Gasparri, Breakaway è del genere ballatona col pianoforte e struggimento interiore e City Of Night un talking sinuoso che chiude le Lost Sessions prima della ghost song The Way, prodromo di quello che diventerà Drive All Night.

Ci sono altre outtakes nel secondo DVD riportante sia il concerto che la E-Street Band originaria con l’eccezione di Charlie Giordano al posto di Danny Federici e l’esclusione di Nils Lofgren ha tenuto il 13 dicembre 2009 al Paramount Theatre di Asbury Park per “commemorare” Darkness. Queste outtakes sono estratte dagli archivi del biennio 76/78 e regalano un ispirato e riccioluto Bruce a dorso nudo ad Holmdel con una band parecchio scarmigliata impegnata in una versione ancora primitiva di Save My Love, in una scheletrica Candy’s Boy con Little Steven alle prese con maracas e campanacci. Da Red Bank arriva invece Something In The Night solo piano e voce e dagli studi di New York City un bianco e nero suggestivo con Don’t Look Back, Ain’t Good Enough For You, Candy’s Room solo per pianoforte e una sofferta The Promise, qui rauca e meno rifinita.
Da antologia gli ultimi cinque brani di questi Thrill Vaul 1976-1978. Siamo a Phoenix nel 1978 nel tour di Darkness, sono passati solo due anni da Holmdel ma sembrano dieci. Magro, spiritato, capelli corti, giacca, jeans e stivali scuri, abbigliato come un bad boy della new wave, Springsteen è un punk che comunica un rock n’roll di devastante energia che stordisce il pubblico di Phoenix con una sequenza mozzafiato di Badlands, The Promised Land, Prove It All Night, Born To Run e Rosalita. E’ solo una parte di concerto ma basta per far capire cosa stia succedendo quell’anno nel rock e chi sia il santo arrivato in città. Lo show è incandescente, una colata di adrenalina, le fans assaltano il palco travolgendo letteralmente Bruce e avvinghiandolo in un bacio appassionato. E’ solo un assaggio dello show riportato dal terzo DVD ovvero Bruce Springsteen and The E Street Band a Houston, Texas ill 12 dicembre 1978.
Era la seconda volta che la E-Street Band passava da Houston quell’anno ma il 12 dicembre rimane una data che i texani si ricorderanno a lungo perché uno del nord così scatenato non l’avevano mai visto. C’è il quasi debutto di Indipendence Day e di You Can’t Sit Down ma al di la della scaletta basata su Darkness ma con tanti titoli del passato (It’s Hard To Be A Saint In The City, Spirit In The Night, Rosalita, Fever) e qualcuno del futuro (The Ties That Bind, Point Blank) questo show è un’ esplosione atomica, Bruce è un punk tarantolato che ha deciso di rifondare il rock n’roll e la E Street Band una macchina da guerra che non fa prigionieri. Le riprese video sono tipiche dell’epoca, poche luci, poche camere, tutto molto semplice ma l’atmosfera è eccitatissima e lo show una dimostrazione di vitalità, irruenza, entusiasmo, urgente comunicativa fuori dall’ordinario. Non c’è ancora la perfezione che subentrerà dopo il tour di The River ma questo è un bene perché i concerti di questo tour e Houston non si discosta sono una questione di vita o di morte. Chi è sempre stato freddo o indifferente a Springsteen dovrebbe vedere questo show, uno dei tanti di quel tour del 1978 diventato leggenda, un tour iniziato il 23 maggio allo Shea Theatre di Buffalo e terminato il primo gennaio del ’79 a Cleveland, un tour che ha reso epico il gesto di Bruce Springsteen con la E-Street Band. Tre ore e mezzo di show più altre tre ore mezzo di soundcheck, un tour de force portato all’estremo della resistenza fisica e psicologica che al tempo venne immortalato da alcuni bootleg leggendari come Live In The Promised Land e Piece de Resistence, documenti preziosi che alimentarono la mitologia dello Springsteen live e portarono centinaia di italiani a Zurigo in quel fatidico 11 aprile del 1981.
Dopo trentadue anni ci viene consegnata la cronaca di quel tour, un modo per ritornare indietro (con una certa nostalgia) a quell’epoca, a quella giovinezza (nostra e di Bruce) dove sembrava che il rock n’roll dovesse cambiare il mondo e la vita. Forse non è stato così ma Bruce la sua promessa l’ha mantenuta.

MAURO ZAMBELLINI NOVEMBRE 2010