mercoledì 30 marzo 2011

James Maddock > Live At Rockwood Music Hall


Ah ma allora esistono ancora quegli animali da backstreets che cantano con l’ugola arsa dall’whiskey e dalla disperazione canzoni che sanno di vita vera, di fragilità umane, di ragazze carine che volano via, di chance buttate al vento, di albe indimenticabili non ai Caraibi ma nella Avenue C di New York che è come dire i quartieri spagnoli a Napoli o la Comasina a Milano. Si esistono e uno di questi lo sto ascoltando in questo momento, nella sera di un martedì qualsiasi mentre un aereo partito qualche km più in giù, da quella fonte di inquinamento acustico, atmosferico e politico che è Malpensa ma che qui bisogna parlarne bene perché dà lavoro a tanti e non ti fa perdere tempo quando devi partire per l’unico viaggio all’anno in cui prendi l’aereo, ha soffocato l’ultimo gorgheggio di un pianoforte fantastico, quello di Oli Rockberger, uno che ha il nome di una birra tedesca ma che suona come David Sancious in The Wild and The Innocent. Ragazzi non sto scherzando e se mi conoscete sapete che non sono avvezzo a sparate iperboliche o robe del genere, l’età mi dona la misura e faccio fatica ad emozionarmi come un tempo quindi quando qualcosa ronza energia, spontaneità, amore, freschezza e onestà me ne accorgo. Come questo James Maddock di cui so poco se non che è inglese ma vive da un casino di tempo a New York, era una promessa nel 2000 ma un matrimonio andato in fumo lo ha rigettato nel tunnel fino a quando con le forze ritrovate e la tenacia del santo in città ha pubblicato qualche anno fa Sunrise On Avenue C un titolo che avrebbe potuto sceglierlo solo Bruce Springsteen, Willie Nile, Willy DeVille e Ryan Adams ovvero tre generazioni di rock urbano della Grande Mela ai suoi massimi livelli.


Scapigliato e scarmigliato, con i jeans e la camicia jeans, James Maddock sembra un pò lo Springsteen di Greetings From Asbury Park, meno phisique du role e più sguardo bonario e i suoi amici, il pianista fantastico di cui ho già detto, il chitarrista John Shannon, il batterista Aaron Comess, il bassista Drew Mortali e il vocalist Lesile Mendelson (nessuna parentela col più famoso Mendelsson) quella gang di simpatici sciamannati che stazionavano sul retro copertina di The Wild and The Innocent. Ragazzi di strada con la faccia da proletari, sorridenti e felici per essere finiti su una copertina di dischi e avere in mano anche solo per poche ore la possibilità di cambiare il destino. Ed è quello che succede dentro le mura del Rockwood Music Hall dove loro sciorinano tutta la loro energia e fantasia suonando con impegno come fosse la Band di Rock of Ages una ballata dietro l’altra saltando da un ritmo che sa di R&B ad una suite che profuma del Van Morrison appena sbarcato in America, da una torrenziale Dumbed Down che sembra non finire più come una loro personale Rosalita ad una Like An Old Song che richiama il Rod Stewart di Gasoline Alley fino ad tenera Sunrise On Avenue C che immortala Alphabet City come l’ultimo luogo al mondo in cui i sognatori sono ancora una categoria nobile ed un bene per l’umanità.
Voce arrochita, urgenza poetica, immediatezza espressiva, romanticismo da bohemienne, James Maddock sembra uscito da una ristampa di un disco degli anni settanta che non ce ne eravamo accorti ma non è l’ultimo dei mohicani solo un innocente a cui non hanno detto che oltre Avenue A il mondo è cambiato e lui vive, canta e sogna come si faceva prima che scrivessero Born To Run. Certo ci sono analogie con Ray LaMontagne altro inguaribile romantico, specie per quella voce raspa e affumicata, per la scelta di ballate che sono un flusso di coscienza e anche Jesse Malin potrebbe essere suo amico se non fosse che Maddock è più dolcemente malinconico che rabbioso da East Village. Ma è la carica di speranza che con le sue canzoni infonde a chi lo ascolta il dato che lascia attoniti e felici, musica antica, un po’ arrugginita con ancora tanta ingenuità e naivetè strumentale ma senza trucchi, senza enfasi, senza zuccheri. Solo voce, chitarre, una band che suona per gli amici ed un piano che è un torrente di gioia.
Il rock n’roll come amore, spontaneità, vita e strade secondarie. Non è il futuro del rock n’ roll ma il passato che non muore. Questa sera state in casa e andate al Rockwood Music Hall. Sarete contenti come una Pasqua.

MAURO ZAMBELLINI MARZO 2011

lunedì 21 marzo 2011

LAYLA and OTHER ASSORTED LOVE SONGS


La storia insegna che dai tormenti nascono grandi opere d’arte. Layla appartiene a questa specie, uno degli album più osannati della storia del rock nasce in un contorno di ansie e conflitti interiori ma si erge luminoso a rischiarare una stagione al tramonto dove creatività, ispirazione e droghe andavano a braccetto e l’atmosfera che si respirava era di quelle che chiudono un’ era con un capolavoro.
La reazione chimica tra Derek and The Dominos scatenò nelle session ai Criteria Studio di Miami tra l’agosto e l’ inizio di ottobre del 1970 una spontanea esplosione di energia che coinvolse i musicisti in lunghe jam di soul, blues e rock dove le canzoni in sé avevano poca importanza perché quello che importava era suonare, suonare, suonare per ore e giorni interi. Era lo zeitgeist, lo spirito del tempo ma la magia che si creò in quelle calde notti della Florida non la si trovò più, salvo rare eccezioni e nemmeno in musicisti il cui nome sui muri di Londra veniva associato a quello di Dio. Non scrivevamo per avere canzoni, scrivevamo solo per avere qualcosa da suonarci sopra. Le parole del tastierista Bobby Whitlock inquadrano Layla and Other Assorted Love Songs, un disco epocale che come sottintende il titolo traeva spunto da storie d’amore, più precisamente fu il canto d’amore appassionato e sconsolato di Eric Clapton lacerato da una tormentata storia con la moglie (Pattie Boyd) di uno dei suoi migliori amici, George Harrison. Una love story combattuta e distruttiva fatta di fugaci incontri tra il chitarrista e Pattie Boyd nei tanti party di quei giorni smisurati ed eccitanti, una storia d’amore consumata tra il tradimento di un amico, stati depressivi, esaltazioni momentanee e sensi di colpa. Nemmeno la cara vecchia eroina riuscì ad alleviare i tormenti di “manolenta” che perso nel suo delirio di amante non corrisposto si identificò nel protagonista di The Story of Layla and Majnum del poeta persiano Nizami, romantico racconto con significati metaforici di un giovane che si innamora senza speranza della principessa-luna il cui padre la voleva maritare ad altri.
Clapton si immedesimò in questa vicenda a tal punto da portare in scena il suo tormento con un album intitolato come il romanzo. Ma la musica non è una metafora, occorrono musicisti, strumenti, tecnici ed una comunidad che in quegli anni rivoluzionari era molto più che una trovata di marketing e di immagine.
Gli eventi si susseguirono velocemente visto che tra lo scioglimento dei Cream e la pubblicazione di Layla passarono solo due anni. In mezzo ci sono i Blind Faith, il primo strombazzato supergruppo della storia del rock, e soprattutto quella carovana viaggiante di hippies che risponde al nome di Delaney and Bonnie and Friends. Dura solo undici mesi il sodalizio tra Clapton, Winwood, Ginger Baker e Rich Grech perché l’ enorme potenzialità che avrebbe dovuto esprimere la fede cieca si arena sulle sabbie di un tour che invece incorona Delaney and Bonnie e i loro amici Dave Mason, Carl Radle, Jim Gordon, Bobby Whitlock, Jim Price, Bobby Keys, Rita Coolidge, gente che maneggia rock, gospel, country-soul e blues come un gambler fa con le carte da gioco.
La stramba congrega dei Friends è una comune viaggiante, nessuna gerarchia sul palco e fuori e tanto meno nessun ordine di scuderia: si vive assieme, si suona assieme e si lascia libera l’immaginazione improvvisando e creando una orgia di suoni e ritmi a base di soul/R&B con l’unica eccezione che i cantanti sono i coniugi Bramlett e i cori li fanno Bobby Whitlock e Rita Coolidge.
Clapton subisce il fascino di questa congrega di fuorilegge molto diversa dall’irrigidito stile dei Blind Faith, ne viene contagiato e ne assorbe lo spirito di libertà e di camaraderie tanto che si defila dai Blind Faith e viaggia sul bus dei Friends ascoltando le loro cassette, bevendo il loro whiskey e fumando la loro erba. Quando i Blind Faith lasciano il tour sale con loro sul palco e stanco di vestire i panni del frontman di un supergruppo diventa l’anonimo chitarrista ritmico.
Finchè funziona il gioco è divertente ma lavorare con i coniugi Bramlett alla lunga diventa faticoso, così quando Leon Russell sparge la voce che sta cercando musicisti per il tour di Mad Dogs and Englishmen i Friends saltano sulla scialuppa e si aggregano al circo di Joe Cocker. Rimane sulle sue il solo Bobby Whitlock, tastierista, cantante e autore di buon mestiere che raggiunge Clapton in Inghilterra e nella magione di questi inizia a scrivere e strimpellare insieme quello che sarà il nucleo fondativi di Layla.
Il cerchio si chiude quando nella primavera del 1970 cala il sipario su Mad Dogs and Englishmen ed i Friends divengono la house band di George Harrison in All Things Must Pass, il disco prodotto da Phil Spector che indirettamente pone le basi di Derek and The Dominoes perché sono loro più qualche invitato a suonarlo. Alle registrazioni dell’album partecipa anche Clapton ed è qui che scatta il love affair con Pattie Boyd così che quel titolo, tutte le cose devono passare suona un po’ come presagio del futuro degli ex Friends e dei cambiamenti affettivi in corso.
Per quanti riguarda la musica il concetto di Derek and The Dominos è che non ci fosse un leader e questo spiega perchè Clapton, stanco di fare la superstar, non usi il suo nome ma opti prima per Del and The Dominos poi trasformato in Del+Eric=Derek and The Dominos, poi non ci fossero trombe, sax e ottoni vari e non ci fosse nessuna donna nella band ed ultimo che le voci tenessero un approccio tipo Sam&Dave ovvero prima canta uno, poi l’altro e poi tutte e due insieme. Sfumata l’esperienza coi Cream e coi Blind Faith, Clapton non voleva un’altra sommatoria di virtuosi impegnati in assoli ed individualismi ma una vera band, un insieme di musicisti amalgamati che suonavano uno per l’altro senza nessuna velleità da protagonisti. I risultati sono alla portata di tutti specie se si ascoltano le jam da cui venne fuori il disco (presenti nel triplo box della 20th Anniversary Edition), l’empatia è fenomenale, la chimica esaltante, la musica un fiume in piena di rock, blues, soul e psichedelia. Le canzoni sono frutto del lavoro di Clapton con Whitlock e interpretazioni originali e dilatate di classici di Chuck Willis (It’s Too Late), Big Bill Broonzy (Key To Highway), Jimmie Cox (Nobody Knows You When You’re Down and Out), Jimi Hendrix (Little Wing, registrata dieci giorni prima della morte dell’autore), Billy Myles (Have You Ever Loved A Woman).
Se l’obiettivo di Clapton era di enfatizzare e sublimare il suo mal d’amore il risultato è pienamente riuscito perché il disco riflette il misto di estasi e tormento, estasi per essere perdutamente innamorato, tormento per il senso di colpa nel tradire un amico. A momenti in cui la sua voce è un canto sofferto e disperato, come un gabbiano ferito che urla un torch-blues pieno di dolore si alternano momenti liberatori dove la band rolla con una leggerezza incredibile esaltando un gioco d’assieme dove basso, batteria e organo creano il tappeto per l’irresistibile interplay delle chitarre e della slide di Clapton e Duane Allman.
Fu decisivo l’innesto nel gioco di squadra di Duane Allman perché i suoi solo, alcuni con la slide, sono determinanti a fare di questo album un monumento, da Layla a Any Day Now, da I Am Yours a Tell The Truth, da Nobody Knows You When You’re Down and Out alla struggente Have You Ever Loved A Woman dedicata a Pattie Boyd.

“Duane tirò fuori il meglio di noi, anche nel songwriting perché la canzone venne fuori jammando, come ad esempio in Anyday che Eric ed io avevamo già scritto ma Duane ci aggiunse quella fantastica slide”. (Bobby Whitlock)

La battaglia tra i due chitarristi portò in paradiso i Dominos perché spinse l’uno e l’altro a misurarsi coi margini estremi delle loro possibilità andando oltre i limiti che le loro tecniche consentivano ma sostanziale è il lavoro di retroguardia di Bobby Whitlock con la voce, l’organo ed il piano, vero “regista” a tutto campo. Fu Whitlock a mantenere salde le liriche dei brani e a far si che le jam si trasformassero in canzoni con una generosa dose di Memphis sound spruzzata qua e là. Carl Radle e Jim Gordon da parte loro furono una sezione ritmica non usuale e lo si sente nel modo in cui vengono usate le percussioni in Tell Bottom Blues e come viene rivoluzionato il boogie da strada di Key To Highway di Big Bill Broonzy.
Basilare l’apporto dietro la consolle di Tom Dowd l’uomo di fiducia della Atlantic, un produttore con un curriculum impressionante (Coltrane, Aretha Franklyn, Bobby Darin) che aveva già collaborato con Clapton nei dischi dei Cream. Tom Dowd era di casa ai Criteria Studios e durante la lavorazione di Idlewild South della Allman Brothers Band fu contattato dallo staff di Clapton per produrre il disco di Derek and The Dominos. Narra la leggenda che ci fu una telefonata alla fine della quale Duane Allman, lì presente, apprese da Dowd che negli stessi studi sarebbe arrivato dall’Inghilterra uno dei suoi idoli sperando così di poter fare qualcosa insieme. E difatti, in un momento di break nella registrazione di Idlewild South, Dowd portò Duane in sala con Clapton e lì nacque una delle leggende della rock n’roll history. L’arrivo di Duane Allman spinse i Dominos in una specie di esplorazione libera e disinibita nei suoni del blues e del soul, catalizzò un ensemble che non era una confezione da studio ma una rock n’roll band di larghe vedute. Certo circolava un sacco di droga pesante ma tutti erano giovani e l’effetto era quello eccitante della creazione e del coinvolgimento collettivo. In un era che stava finendo Layla fu contemporaneamente il canto finale e la summa del rock dell’epoca, la fusione di un background di radici blues, R&B e soul che i musicisti inglesi avevano riportato a galla, con la libertà espressiva delle band psichedeliche americane che avevano mutato il modo di fruire la musica portando con le loro interminabili jam il pubblico a ballare, a gioire e a perdersi nel cosmo.
Il ritorno a casa fu doloroso: Derek and The Dominos si sciolsero dopo un breve tour, Eric Clapton sprofondò in una pesante tossicodipendenza, Duane Allman morì l’anno dopo.

MAURO ZAMBELLINI FEBBRAIO 2011

lunedì 7 marzo 2011

Lucinda Williams part 2


(continua)

LUCINDA WILLIAMS si esibì per la prima volta dal vivo come folk singer a Città del Messico nel 1970 , si presentò come Cindy Williams & Clark Jones assieme ad un compagno di scuola che suonava il banjo. Il “turning point”della sua carriera avvenne però a New Orleans dove Lu si trovava in vacanza. Venne ingaggiata in un bar di Bourbon Street come folk singer per esibirsi tre o quattro sere la settimana, fu la fine della sua avventura scolastica e l’inizio di una faticosa carriera musicale. Da New Orleans raggiunse San Francisco dove sembrava che il mondo dovesse cambiare da un giorno all’altro ma arrivò quando la summer of love era chiusa da un pezzo e circolavano più menti bruciate dalla droga che idee. Delusa, nel 1974, si rifugiò nella più tranquilla Austin. “Era tutto magico e meraviglioso ad Austin, forse era come San Francisco negli anni sessanta ma più bluesy. Si viveva con poco, era economica e confortevole, abitavo con dei ragazzi che mi ospitavano a casa loro, bevevamo latte, mangiavamo cibi naturali, fumavamo marijuana e prendevamo funghi allucinogeni. Suonavamo per gli spiccioli all’angolo della strada e poi lavoravo come cameriera in un bar. Una band chiamata Uncle Walt’s Band mi prese sotto la propria protezione e mi diede la possibilità di aprire i concerti per loro. Avrei potuto stare lì per sempre ma poi ad Austin la scena cambiò in quello che venne chiamato cosmic cowboy sound. Andavano di moda le band e per i cantautori fu scelta obbligata trasferirsi ad Houston dove gente come Lyle Lovett, Nancy Griffith, Eric Taylor e Vince Bell stavano creando qualcosa di nuovo. Erano dei folk singers molto hippy chic e non era facile inserirsi nel loro giro. Io avevo problemi a trovare un contratto discografico perché la mia musica era più ruvida, si dibatteva tra country e rock e non era chic come la loro”.
Nel 1978 Lu si sposta ancora e va a Jackson nel Mississippi dove registra finalmente il suo primo album per la celebre etichetta folk Smithsonian/ Folkways, Ramblin’On My Mind poi ribattezzato semplicemente Ramblin’ a cui tre anni dopo fa seguito , Happy Woman Blues.
L’avventura di Lu sembra destinata a quell’anonimato che contraddistingue l’epopea di tanti (bravi e sfigati ) alias Dylan americani quando qualcosa succede. Dopo otto anni di false partenze e una miriade di piccole esibizioni, nel 1984, l’artista si ritrova nel posto giusto al momento giusto ovvero a Los Angeles in pieno Paisley Underground. Band come Lonesome Strangers, Rain Parade, Dream Syndicate e Rank&File vedono di buon occhio che una cowgirl del sud apra i loro concerti con una chitarra acustica e tanta rabbia. Il nome di Lucinda Williams comincia a fare il giro della città e della nazione e nel 1988 l’etichetta inglese di orientamento punk Rough Trade le offre l’occasione di incidere un nuovo disco. L’omonimo Lucinda Williams non fa sfracelli ma le regala “un biglietto di prima classe a Nashville” dato che Patty Loveless porta nelle top twenty delle classifiche country The Night’s Too Long e Mary Chapin Carpenter si prende un Grammy con la versione di Passionate Kisses, due canzoni di quell’album. Qualche anno più tardi Emmylou Harris “coprirà” Crescent City e Sweet Old World e il seminole rock Tom Petty offrirà una robusta rilettura di Changed The Locks, grintosa canzone sulla fine di una relazione amorosa che nella versione originale consentì alla Williams di entrare nella heavy rotation delle radio nazionali.
Con la strada in discesa, Lu non pensa però minimamente di smussare il suo temperamento tempestoso e anticonformista e non scende a patti col mondo discografico. Troppo rock per essere country e troppo country per essere rock sceglie una indie, la Chameleon per pubblicare Sweet Old World, un disco triste e per nulla nashvilliano, con meditazioni sulla morte, sul rimpianto e la fine delle relazioni. Temi da sempre cari al suo bagaglio emotivo e culturale ma che all’inizio degli anni novanta stridevano negli induriti paesaggi del rock e nello zuccheroso mondo country. In pratica gli stessi contenuti che daranno anima a Car Wheels On A Gravel Road, apprezzati in quel disco nella loro sincerità sentimentale anche per via di un netto miglioramento a livello musicale e vocale, con canzoni di oscura bellezza che parlano di persone ordinarie che fanno cose ordinarie ma rendono questi momenti straordinari.
L’album riceve grandi lodi dalla critica e viene premiato con un Grammy come best contemprary folk album del 1998, oggi ristampato in una elegante edizione deluxe è unanimemente riconosciuto come il capolavoro dell’artista.
Con l’introspettivo Essence del 2001 Lu dà fondo al suo approccio lirico minimalista cercando l’ “essenza” della canzone in una semplicità melodica che lascia attoniti. Disco interiore e plumbeo, spartano nei suoni e negli arrangiamenti, Essence è permeato dagli umori profondi del sud e da una religiosità che vede Dio ed il diavolo incontrarsi sulle miserie di una sottocultura sottoproletaria che sembra uscita dalle pagine de La Bibbia ed il Fucile lucido libro di Joe Bageant che mette a nudo le miserie e la desolazione dell’America profonda.
Decisamente più elettrico dal punto di vista del sound è invece World Without Tears del 2003, un disco in cui ancora abbondano le sue intense e crepuscolari ballate ( Ventura, Fruits of My Labor, Overtime, Minneapolis) ma in più ci sono chitarre degne dei Rolling Stones (Real Live Bleeding Fingers and Broken Guitar Strings), battute boogie alla John Lee Hooker (Atonement), distorsioni elettriche e un talking blues che suona come una recitazione da poeta della Beat generation (American Dream ) anche se sono in molti a confonderlo in un rap.
Live @The Fillmore del 2005 è un doppio album live di quelli che si facevano negli anni 70 ovvero chitarre a palla, suoni crudi ed una voce che è rabbia e dolcezza, estasi e furore, grinta e abbandono. Spettacolare il chitarrista Doug Pettibone, un animale della sei corde capace di dare alla Williams un sound rock degno dei migliori Rolling Stones, intensa la Williams che canta come se fosse una questione di vita o di morte. Ma il viaggio della Williams non finisce sullo storico palco del Fillmore perché altre rivelazioni e emozioni sono contenute in West forse il suo disco più innovativo a livello sonoro. West nasce dalla disillusione di un amore andato a rotoli, una relazione importante finita e dal dolore per la morte della madre. Eventi cupi che l’artista metabolizza in un lavoro che qualcuno potrebbe definire catartico se non addirittura liberatorio. Ci sono armonie bucoliche, flash visionari degni del Neil Young più desertico ( Unsuffer Me), ritmi ipnotici (Wrap My Head Around That) costruiti attorno alla serpentina chitarra dell’eclettico Bill Frisell, meditabondi girovagare intorno a melodie che diventano una ossessione (Rescue), suoni rarefatti ed eterei (What If) che sembrano usciti da una produzione di Daniel Lanois , c’è Hal Willner (Costello, Lou Reed) come produttore e ci sono canzoni che sono di una malinconica bellezza senza scampo.
Il seguente Little Honey del 2009 con il nuovo produttore Eric Liljestrand sterza verso roots-rock disincantato e libero, meno elegante rispetto al precedente lavoro ma spartano e diretto, con decise puntate hard-rocking che richiamano lo stile senza fronzoli di World Without Tears. Affiora il rumore di una band che è la quintessenza di quelle strade impolverate del sud tanto decantate dalla Williams, poco avvezza alle raffinatezze ma in sintonia con quel misto di folk, blues e rock che costituiscono le radici dell’artista : Bob Dylan e Lightin Hopkins, i Cream e i Rolling Stones, Robert Johnson e Memphis Minnie.
Per la prima volta la Williams sembra aver lasciato da parte quelle sue ballate di oscura introspezione che l’hanno resa famosa, per rivolgersi all’esterno, ai temi delle relazioni umane e dell’amore con un ottimismo mai provato prima Come afferma la stessa autrice, Little Honey è più luminoso rispetto ad altri suoi lavori ed il suo blues qui irradia una luce diversa. Ciò non toglie che l’introspezione e le ballate siano nel dna della sua musica, basta aspettare Blessed per ritrovarli in quella che è l’opera di maggior equilibrio dell’artista, ennesima conferma di un autrice e rocker degna di sedersi a fianco di Dylan, Springsteen, Young, Petty, Mellencamp e Steve Earle.

MAURO ZAMBELLINI

Lucinda Williams part 1


Ci sono voluti trenta anni di gavetta tra piccoli concerti nei club, spostamenti, traslochi, dischi ignorati e una tumultuosa esistenza prima che Lucinda Williams si prendesse una rivincita contro l’indifferenza e la corruzione del mondo discografico e si guadagnasse il giusto riconoscimento di un duro lavoro. Era l’estate del 1998 quando uscì Car Wheels On Gravel Road e nessuno si sarebbe aspettato che un disco così travagliato e tirato per le lunghe sarebbe diventato il suo primo disco d’oro.
Un storia rocambolesca quella di Car Wheels : la Williams, con in mano un contratto con la American Recordings, aveva cominciato a lavorare al disco in Texas col chitarrista Gurf Morlix, produttore dei suoi due precedenti album ma insoddisfatta dei risultati raggiunti aveva ritoccato le parti vocali provocando la reazione di Morlix che, sul più bello, aveva abbandonato il progetto mettendo in crisi il rapporto professionale e l’amicizia che li legava.
Lucinda Williams aveva allora scelto di spostarsi a Nashville entrando in contatto con Steve Earle e il suo partner di produzione Ray Kennedy. Con loro, già nel 1995, aveva cercato di finire il disco senza però fare i conti con la propria pignoleria. Sembrava tutto facile , si era talmente innamorata del twangtrust di Earle e Kennedy che aveva ri-registrato di nuovo tutto il disco ma poi alla fine, a lavoro pressoché completato, si aera ritrovata di nuovo insoddisfatta e con un suono troppo prodotto. Steve Earle dopo due settimane di registrazioni se ne era andato improvvisamente in tour senza avvisare la Williams dei tempi ristretti dei suoi impegni e tutti questi scombussolamenti avevano attirato la curiosità dei media, mai prima di allora così interessati alla Williams.
Di nuovo in mezzo al guado Lu non si era persa d’animo e con i nastri in mano si era trasferita a Los Angeles in un nuovo studio dove con l’aiuto dell’E- Streeter Roy Bittan aveva sovrainciso le parti vocali in una serie di sessions al limite del paranoico e dell’ossessivo. Il disco era diventato un incubo, il produttore Rick Rubin mixò le tracce finali ma l’album subì un nuovo ritardo a causa dei negoziati per la vendita dell’American label. La Mercury salvò la situazione acquistando i diritti dell’album, definitivamente messo a punto a Nashville e finalmente pubblicato, dopo tante peripezie, il 30 giugno del 1998 col titolo di Car Wheels On A Gravel Road. Oggi quel disco è il biglietto da visita di Lucinda Williams.

Lucinda Williams appartiene alla schiera degli eroi folk in grado di arrivare con una semplice canzone nella più profonda intimità dell’animo umano, una traveling troubadour con un viscerale attaccamento verso quello che normalmente si intende come cultura southern. Nata nel 1955 a Lake Charles in Louisiana da madre pianista e padre professore di letteratura, la vita di Lu subisce un cambiamento quando il padre, Miller Williams, oggi poeta e docente all’Università dell’Arkansas (lesse il discorso ufficiale all’inaugurazione del Presidente Clinton nel 1996) , a metà degli anni sessanta divorzia e si prende in custodia i tre figli. Con Lucinda e gli altri due marmocchi si trasferisce per lavoro prima in Messico e poi in Sud America. Lucinda si ritrova a vivere a Città del Messico e a Santiago del Cile e poi nel giro di pochi anni passa dallo Utah a Baton Rouge, dal Mississippi a New Orleans, da Atlanta a Macon. Una instabilità geografica che avrebbe potuto lasciare evidenti segni di sradicamento, come volte capita a quei bambini sballottati in giro per il mondo per le attività lavorative del padre ma che invece a Lucinda Williams regalò una specie di gioia ed euforia per le stanze degli hotel e le case in subaffitto. Oltre a farle accettare come naturale quello spirito nomade che poi si rifletterà nelle sue canzoni, trasformandola in una acuta narratrice “da strada” attenta ai dettagli, ai luoghi e alle sfumature psicologiche.
“Quell’infanzia di continui spostamenti non fu traumatica come la gente crede, a me piace l’avventura e penso che ciò derivi da quel continuo movimento che caratterizzò prima gli anni di gioventù e poi la mia esistenza. Il problema più grosso non era cambiare città o stato ma era portarsi appresso ad ogni trasloco la mia collezione di dischi di Donovan, Hendrix, Pentangle, Allman Bros., Byrds, Buffalo Springfield e Cream.”

Precoce nello scrivere, Lu assorbe le influenze del padre scrittore e dello stimolante clima casalingo, naturale che alla fine tutto questo mondo confluisse in uno stile che la artista ha definito “journalistic songwriting”.
Le influenze letterarie non avrebbero comunque da sole potuto produrre una rockeuse come è difatti la Williams se accanto a queste non ci fossero state delle vere passioni musicali. La vincita di tre Grammy nelle categorie country, folk e rock da parte della Williams è il riflesso dei diversi amori musicali di gioventù : i vecchi bluesmen, Robert Johnson e poi Dylan, Jim Morrison, Cream, i Rolling Stones e i Byrds.
All’inizio di carriera Lu era solita interpretare canzoni altrui spaziando in diversi ambiti musicali ma quando poi iniziò a scrivere in proprio i vari generi si amalgamarono in uno stile che non poneva differenze tra i diversi linguaggi. Uno stile che ha nella ballata il suo punto di forza e può contare su una voce dolente, sensuale e stoned, adatta a trasmettere quel senso di abbandono un po’ fatalistico di cui le storie da deep south della Williams sono cariche.
“Il disco che più di ogni altro cambiò la mia vita fu Highway 61 Revisited di Dylan. Uno studente di mio padre, un giovane poeta, lo portò in casa mia un giorno del 1965. Sebbene fossi ancora molto giovane fu una autentica rivelazione per me, all’improvviso c’era qualcuno che metteva insieme i due mondi da cui provenivo: la tradizionale folk music dei dischi di mio padre, Lightin’Hopkins e Mississippi John Hurt e il creativo mondo della scrittura dei poeti e della letteratura. Avevo cominciato a scrivere verso i dieci anni ma quando ne ebbi 12 e comprai la mia prima chitarra, una economica Silvertone, imparai a suonarla proprio per poter scrivere canzoni come quelle che erano contenute in quel disco.”
Qualcuno una volta ha detto che se si è rivoluzionari a ventanni quando si è quarantenni perlomeno si è anticonformisti. Così è stato per Lucinda Williams. “In gioventù ero molto inquieta e ribelle. Qualche tempo fa mio padre mi ridiede tutte le lettere che gli scrissi quando ero ventenne, beh…. sono molto sorprendenti ed eloquenti. Ci sono fatti di cui sono ancora fiera come quando aiutai un gruppo di amici del Sds (Students for a Democratic Society) a distribuire volantini nel campus e poi fummo espulsi dalla scuola perché ci rifiutammo di recitare la Promessa di Fedeltà davanti al Preside che ci voleva punire. Fui reintegrata solo perché mio padre si appellò ad un giudice che trovò incostituzionale il provvedimento della scuola. Negli anni sessanta ero molto impegnata nel movimento contro la guerra. La mia famiglia è sempre stata pacifista, mio nonno era un obiettore di coscienza della prima guerra mondiale, non avrebbe potuto essere diversamente. Ricordo che nel 1969 all’età di sedici anni andai alla marcia della pace di Washington con un gruppo di studenti della Layola University di New Orleans dove insegnava mio padre. Mi ricordo come fosse ieri di quella imponente manifestazione e anche del freddo che patii per non essermi portata un giubbotto adatto all’inverno di Washington. Le mie idee politiche con gli anni non sono cambiate, ho gli stessi ideali di un tempo, odio la guerra e trovo che ancora oggi Masters of War sia una delle più belle canzoni scritte sull’argomento".

(1-continua)