sabato 24 dicembre 2011

Warren Haynes presents The Benefit Concert vol. 4 (Evil Teen 2CD)


E' abitudine di Warren Haynes organizzare nel periodo natalizio un Benefit Concert i cui proventi vanno ad Habitat for Humanity, una organizzazione no-profit impegnata nella costruzione di abitazioni per i senza casa. I concerti avvengono ad Asheville la città natale di Haynes nel Nord Carolina e vedono ogni anno la partecipazione di nomi noti e meno noti della musica southern e del rock-blues americano in generale. Sono già usciti diversi Cd e Dvd che testimoniano di questo avvenimento, questo The Benefit Concert vol. 4 è la cronaca dell'edizione del 2002 ed è una edizione di lusso perchè le forze in campo sono straordinarie. Innanzitutto Warren Haynes che suona un pò dappertutto, coi Gov't Mule nella drammatica, esaltante, commovente versione di Worried Down With Blues, il più bel blues da dieci anni a questa parte originariamente presentato su The Deep End un anno prima di questo concerto, in una jazzatissima e jammata Sco-Mule altro lascito di quel fantastico disco e altro highlights di questo show e nella lunga resa di Simple Man dei Lynyrd Skynyrd, un pezzo che non ha bisogno di presentazioni, dove i Muli sono raggiunti sul palco da Artymus Pyle degli Skynyds alla batteria, Audley Freed dei Black Crowes alla chitarra, Dave Schools degli Widespread Panic al basso, dal chitarrista Mike Barnes nativo di Asheville con esperienze negli Allman e nei Crowes e dall'organista Rob Barraco, l'unico forse a lasciarsi andare un pò troppo in una band che suona col tocco del divino. Ma Warren è a tutto campo, vero regista della partita.
Già nell'iniziale Carolina In My Mind di James Taylor la sua chitarra accompagna il violino di Don Lewis in quello che è un sentito omaggio acustico allo stato della Carolina del Nord e alla città natale di Haynes. È solo un accenno di quello che farà Haynes nel corso del concerto perché immediatamente dopo la scena è presa dai Sons of Ralph, altra band locale formata dal mandolinista Ralph Lewis e dai figli Don (violino e mandolino) e Marty (chitarra) specializzata in bluegrass music. Due brani a base di appalachian mountain music e country e poi è la volta di Jerry Joseph, leader dei Jackmormons e cantautore che si esibisce solista in una delle sue canzoni più note, The Kind of Place e poi aiutato da Robert Randolph col dobro, Dave Schools col basso e Matt Abts alla batteria si lancia in una bluesata Climb To Safety. La temperatura si innalza quando entra in scena Robert Randolph con la sua Family Band. Torrenziale e forse un po' eccessiva, Looking Out My Window è un soul-funk che frana verso il più chiassoso Sly Stone e dà la misura dell'orgia sonora creata dalla famiglia di Randolph mentre Shake Your Hips gioca per dieci minuti come fa il gatto col topo attorno all'ossessivo riff di La Grange aprendo delle fulminee schermaglie con la pedal steel di Randolph, la chitarra di Haynes e le dilaganti tastiere di John Girty e Denny Louis. Il tutto al servizio della delirante voce di Randolph che predica il suo sabba di black music totale.
Cambio di scenario con i Moe, la groove band debitrice dei Dead. Non misconoscono le loro origini e difatti legano in medley l'acida Dark Star di Garcia con la visionaria e spaziale Mexico, frutto del loro songwriting prima di dilatarsi negli effluvi narcotizzanti di Opium e rievocare i suoni della California psichedelica, aiutati da "maestro" Haynes che qui non sa che pesci pigliare tra Duane Allman e Jerry Garcia. Basta l'arrivo di John Hiatt perchè si ritorni coi piedi per terra. Tre canzoni, una più bella dell'altra, una sequenza da brivido, prima Ride Along, poi Tiki Bar Is Open impreziosita dal sassofono di Jon Smith e trasformata in un flessuoso blues/R&B ed infine una sincopata e jammata Memphis On The Meantime da far accapponare la pelle con Haynes con la slide a dar man forte ai Goners. La voce di Hiatt è un concentrato di negritudine, Landreth è un treno, il ritmo una droga. Ancora Dead dopo John Hiatt nella versione di Bob Weir and Friends una delle tante band in cui suona Haynes. Il cantante e chitarrista dei Grateful Dead si cimenta in alcuni classici del gruppo di Garcia, Shakedown Street mai troppo amata da chi scrive, una lisergica e stroboscopica medley di Truckin' e The Other One preparano il terreno per il finale esplosivo dei Muli che con Worried Down The Blues, Sco-Mule e Simple Man mandano i paradiso quanti ancora non erano saliti a bordo. È un doppio Cd e costa meno di un singolo. Opera di beneficenza a prezzi cheap. Alla portata di tutti, true democracy.

MAURO ZAMBELLINI


Disc 1

1    Carolina In My Mind (Haynes, Warren / Lewis, Don [Guitar])   
2    One (Haynes, Warren)   
3    One One One (Haynes, Warren / Sons of Ralph)   
4    Nine Pound Hammer (Haynes, Warren / Sons of Ralph)   
5    The Kind of Place (Joseph, Jerry)   
6    Climb To Safety (Joseph, Jerry / Schools, Dave)   
7    The Times They Are a Changin' (Kinney, Kevn / Haynes, Warren)   
8    Squeeze (Randolph, Robert & the Family Band [1])   
9    Looking Out My Window (Randolph, Robert & the Family Band [1])   
10    Shake Your Hips (Haynes, Warren / Louis, Danny)   
11    Dark Star Jam > Mexico (moe. [1])   
12    Opium (Haynes, Warren / moe. [1])   
13    The Weight (Weir, Bob / Haynes, Warren)   

Disc 2

1    Ride Along (Hiatt, John & the Goners)   
2    Drive South (Hiatt, John & the Goners)   
3    Tiki Bar is Open (Hiatt, John & the Goners)   
4    Memphis In the Meantime (Haynes, Warren / Hiatt, John & the Goners)   
5    Shakedown Street (Weir, Bob)   
6    Truckin' (Weir, Bob / DJ Logic)   
7    The Other One (Weir, Bob / DJ Logic)   
8    Worried Down the Blues (Rzab, Greg / Gov't Mule)   
9    Sco-Mule (Rzab, Greg / Gov't Mule)   
10    Don't Stop On the Grass, Sam (Schools, Dave / Gov't Mule)   
11    Simple Man (Pyle, Artimus / Freed, Audley)

lunedì 19 dicembre 2011

Miracolo a Le Havre (di Aki Kaurismaki)


L'antidoto ai cinepanettoni e alle banalità che girano sugli schermi nel periodo natalizio è questo bel film di Aki Kaurismaki, l'indimenticabile inventore dell'esilarante Leningrad Cowboys Go America adesso alle prese con un film di vago sapore civile dove intolleranza e paura sono sconfitte dalla lieve mano di un regista capace di trasformare in ottimismo una storia di neo-realismo dei giorni nostri. Marcel Marx, ex scrittore e bohemienne, si è ritirato in una sorta di esilio nella città portuale di Le Havre dove vive in una modesta abitazione con la moglie amata Arletty che si scoprirà gravemente malata e verrà ricoverata in ospedale e con una cagnolina, Laika. Pratica il poco redditizio mestiere del lustrascarpe e stringe un genuino rapporto d' amicizia con gli abitanti del quartiere proletario dove abita, in particolare col fruttivendolo, la panettiera ed una barista che gli offre volentieri un bicchiere di vino senza risparmiarsi qualche severa osservazioni sulla sua condotta. Abbandonata ogni velleità letteraria, Marcel vive felicemente dividendosi tra il suo bar preferito, il lavoro e la moglie Arletty, quando all'improvviso il destino mette sulla sua strada un piccolo profugo arrivato dall'Africa. Marcel vuole aiutare il ragazzo, braccato dalla polizia di frontiera, nonostante la mancanza di soldi e le preoccupazioni personali e farlo arrivare a Londra dalla madre.  Contro di lui lavora la ottusa macchina dello stato occidentale rappresentata da un vicino spione e dalla polizia che lentamente stringe il cerchio attorno al ragazzino del Gabon. Con lui c'è la solidarietà proletaria degli umili, più un commissario di polizia disincantato, dall'apparenza cinica, disposto a seguire le ragioni del cuore e della razionalità umana. Con lui è anche Roberto Piazza alias Little Bob, eroe in pensione della Le Havre rock, che si offre volontario con la sua band per un  concerto i cui proventi serviranno per la fuga del giovane africano.
Il finlandese Aki Kaurismaki compie un piccolo miracolo: in trasferta in Francia, con un cast di volti noti del cinema polar francese imbastisce una fiaba moderna con un vago sapore retrò che non guasta ad insaporire e a colorare lo squallore e l'indifferenza di oggi. Kaurismaki non rinunciai ai suoi temi più cari, il mondo che rappresenta è quello del proletariato e con l'aiuto di una fotografia (Timo Salminen) curata e dal gusto antico  realizza un film in cui la malinconia profonda e la stanchezza del vivere si aprono verso un ottimismo poco comune oggi. La sua  denuncia sociale si stempera in un messaggio positivo di riscatto e speranza, in un mondo in cui prevale il cinismo e la paura sapere che qualcuno pensa, senza lacrime e facile romanticismo, che si possa cambiare un destino è già un passo in vanati. Da vedere assolutamente.

MAURO ZAMBELLINI    

martedì 6 dicembre 2011

Rai Stereonotte


Mi è sempre piaciuta la radio fin dagli albori delle radio libere. A metà degli anni settanta fui conduttore di una fortunata trasmissione musicale, Scatola Calda, a Radio Varese, l’unica radio libera dell’occidente occupato così strillava il suo logo inventato dal sottoscritto e divenuto titolo di un libro, una radio politicamente scorretta (negli anni novanta fu confiscata dalla nascente Lega Lombarda) e con un palinsesto musicale in cui anche il più innocuo e sbarazzino Aperitivo in musica per casalinghe e pensionati aveva come sigla una kilometrica Rock n’Roll di Lou Reed. Musicalmente parlando era molto più anticonformista (già nel 1976 era di casa Patti Smith) delle più titolate ed urbane Canale 96 di Milano e Radio Alice di Bologna ma si sa alla provincia non sempre vengono riconosciuti i suoi meriti. Ci stetti un paio di anni a Radio Varese fino a quando non fu “normalizzata” dalla sinistra ufficiale (fino allora era stata una Radio autonoma e di movimento), bivaccai qualche tempo, tra la fine dei settanta e l’inizio della decade successiva in qualche radio commerciale e poi finii a condurre settimanalmente un programma di deciso orientamento rock a Radio Popolare, radio che frequento tuttora. Proprio la “militanza” a Radio Popolare oltre alla mia attività giornalistica nel Mucchio Selvaggio mi valsero l’arruolamento nel team rotante di Rai Stereonotte messo in piedi dal direttore Pierluigi Tabasso. Devo ringraziare Massimo Cotto (tipo con cui non ho mai legato granchè ma anche lui del Mucchio), già a Rai Stereonotte da qualche edizione, per avermi introdotto a Tabasso, il quale oltre a stimare il la mia collaborazione con Radio Popolare condivideva con me la passione per la nautica. Assieme a Cotto ero in quegli anni tra il 1988 ed il 1990 l’unico conduttore extra-romano ovvero gli unici che arrivavano dalla profonda provincia del nord (lui Asti ed io Varese), cosa che strideva con la romanità della Rai e suscitava sguardi “compassionevoli” da parte dei rinomati conduttori dell’urbe piuttosto freddi al primo approccio verso i milanesi, anche se  in realtà ero un insegnante di una scuola media in una piccola cittadina (Somma Lombardo) della provincia di Varese. Per me fu il classico fulmine a cielo sereno, lasciare per qualche tempo colleghi, bidelli, libri e ragazzi vittime del teorema di Euclide  e catapultarsi nella Capitale facendo il lavoro più bello del mondo o almeno quello che si era sempre sognato dalla prima volta che si era acquistato un disco: trasmettere la musica di cui eri appassionato nella scenografia misteriosa ed intrigante della notte e nella migliore trasmissione di musica a livello nazionale, quella che l’ Italia ascoltava con lo stesso trasporto di quando io da ragazzo nottetempo ascoltavo Radio Luxembourg cercando di non farmi accorgere dai miei genitori.
Un bel colpo di fortuna, sebbene alle spalle ci fossero anni di ascolti, di letture, di recensioni e soprattutto un capitale speso in dischi ma lavorare 1/6 del tempo che trascorrevo a scuola senza tutta la fatica e l’impegno che comportava e guadagnare 1/3 di più con un lavoro che era uno sballo beh questo chiamatelo come volete ma rimane un colpo di culo. Certo lavoravo di notte, dormivo male, non ero a casa, la fidanzata era lontana, ero in una città che non conoscevo, mangiavo e bevevo in modo disordinato ma chissenefrega, questo, mi dicevo “è il rock n’roll”. Proprio solo non ero perché la redazione del Mucchio Selvaggio, giornale di cui ero redattore, era ed è a Roma per cui diversi amici che mi invitavano a cena e andavo con loro al cinema e  ai concerti c’erano e altri me ne feci di cui ancora adesso ho un buon ricordo.
Il mio impatto con Roma fu traumatico. Arrivai in questo residence sulla Camilluccia che avevo prenotato via telefono senza vederlo e sapere come fosse (internet era di là da venire) dopo aver fatto un lungo viaggio di 600 km con la mia Renault 5 bianca carica di vestiti, lenzuola, libri, giornali, dischi, stereo, casse, pentole, posate e piatti perché come extra-romano dovevo portarmi tutto il vivibile e l’usabile e sarei stato lontano da casa 4 mesi, salvo sporadici ritorni di 48 ore in treno. Mi sembrava di essere un militare ma la nazione che servivo era quella del rock n’roll anzi di Rai Stereonotte. La sera che arrivai in quello che più che un residence sembrava un bunker di cemento sottointerrato squallido e tetro dove Dario Argento avrebbe potuto ambientare un suo horror  fu triste. Era una sera di metà ottobre  cupa e piovosa, scaricai stanco il materiale sotto una pioggerellina fastidiosa più adatta al Varesotto che a Roma, piazzai lo stereo e misi un disco di Lloyd Cole and The Commotions per stare in tema con l’atmosfera uggiosa e umida e seduto su una sedia provai un profondo senso di malinconia pensando casa, i miei amori, gli amici e quelle piccole certezze borghesi che all’improvviso racchiudevano un calore che non avevo mai avvertito prima e mi sembravano una sorte di isola felice rispetto alla solitudine e al freddo del momento. Faceva veramente freddo in quel bunker, anche nei mesi successivi la cosa che soffrii di più fu il freddo tanto che ancora oggi quando mi dicono che Roma ha un clima tiepido tutto l’anno li guardo stralunati e non oso contraddirli. Presi coraggio e aprii l’armadio per deporre camicie, pantaloni, mutande e golf  ma in un cassetto ci trovai un topo morto da qualche tempo. Rimasi di merda, avvisai il portiere che infastidito perché era l’ora di cena mi sbarazzò con paletta e giornale dell’intruso e così dopo quell’incontro decisi di aspettare il giorno dopo per inquadrare meglio la mia nuova avventura. Il giorno dopo c’era il sole e Pierluigi Tabasso si rivelò una persona squisita e comprensiva, sapeva che venire da fuori non era come essere de roma , in primis perché non conoscevi “l’azienda Rai” e le sue dinamiche non semplici, era tutto nuovo e gli altri ti vedevano quasi come un intruso. In verità non sono mai riuscito a fraternizzare molto con gli altri conduttori tranne con Carboni e Cestoni nonostante dividessi le notti insieme ma a parte la settimanale riunione di redazione con il direttore il resto funzionava un po’ come a scuola ovvero l’insegnante entra nelle sue ore nelle sue classi e con gli altri insegnanti ci parla durante il Collegio dei Docenti o nella pausa caffè, se ti piace il caffè. Così era a Rai Stereonotte, ognuno aveva la sua fascia oraria che cambiava di giorno in giorno, arrivava coi suoi dischi quando l’altro finiva, un saluto, due parole e poi via solo nello studio, quando arrivava il successivo, se non era l’ultimo segmento, un altro saluto e due altre parole e così via. Parlavo più coi tecnici, in particolare con Sergio Spaccini, capello brizzolato e battuta facile da playboy de noantri.
Il problema per me che venivo da lontano erano i dischi. In quattro mesi te ne occorrevano tanti, dovevi portarti i vinili da lontano e con l’auto, lo spazio era quello che era e non potevi traslocare tutta la tua discografia. E’ uno dei problemi che più ho sofferto, quando trasmetti per un’ora e mezzo a notte per quattro mesi hai bisogno di una valanga di dischi, diversi e intercambiabili, chi abita in loco può permettersi di spaziare in lungo ed in largo perché ha a disposizione la discoteca di casa. Fate conto che l’archivio Rai non offriva quella specializzazione  ad personam per cui eri stato ingaggiato per cui dovevo fare salti mortali per rinnovare il mio bagaglio discografico, tenevo buoni rapporti con le case discografiche in genere generose con chi conduceva Rai Steronotte, poi facevo qualche ricambio quando tornavo a casa in treno con un valigione che pesava più di me, compravo qualcosa di nuovo a Roma e poi c’era Max Stefani, il direttore del Mucchio, che ogni tanto mi prestava dei dischi. Ma la faccenda era complessa, cosa per cui mi rimane il dubbio di non aver dato il meglio di me stesso nella programmazione di quelle notti proprio per questo, invidiavo i romani e non capivo quando dicevano della pesantezza di quel lavoro. A me sembrava il paradiso, ero abituato a svegliarmi ogni mattina alle sette ed entrare in classe alle otto davanti ad una massa di ragazzi che non aveva il minimo desiderio di starmi ad ascoltare di algebra e geometria per  quattro/cinque ore, lavorare a Rai Stereonotte era come essere in vacanza, nessun bambino che ti rompe le balle, nessun genitore pedante, niente presidi con l’orologio puntato. Una manna, solo rock n’roll, da solo in una stanza come Donald Fagen in The Nightfly, coi tecnici che ad un tuo cenno sospendono per un attimo la lettura di Trotto Sportsman  e fanno partire il disco dopo che tu lo avevi presentato e ci avevi raccontato una storia sopra sapendo che chi stava dall’altra parte della radio era pronto a sognare con la tua musica, le tue parole, le tue suggestioni.
Le prime due fasce orarie erano quelle che preferivo, quella tra le 12.30 e l’una e trenta e la seguente fino alle 3. Nella prima potevi sciorinare tutto il rock che volevi perché la notte non era ancora calata completamente e allora ero stringato nelle intro e pimpante coi ritmi. Mettevo senza paura di infastidire gli Stones, i Green On Red, i Replacements, Springsteen, Southside Johnny, David Johansen, i Dream Syndicate, i Blasters e tutta quella roba lì. Facevo parte del Mucchio Selvaggio e quella era la musica di quella rivista, il suo biglietto da visita. Altri conduttori erano più soft e soul per non dire “confidenziali”, usavano la voce in maniera e suadente, io, che non avevo una voce così vellutata e calda, cercavo di centrare il bersaglio portando gli ascoltatori sulle strade d’America facendoli sognare come in un road movie. Informavo e spargevo suggestioni stradaiole come il dj nero del film Punto Zero. Mi ricordo una trasmissione in primo segmento, una cosa molto particolare  sul rock in U.R.S.S che piacque molto al direttore Tabasso. L’avevo messa insieme coi dischi che mi aveva portato dall’Unione Sovietica un mio amico che li aveva acquistati al mercato nero. Gruppi locali che imitavano con molta innocenza e qualche ingenuità i gruppi inglesi e americani di beat e rock. Tutta roba sconosciuta, assolutamente “proibita” in patria, magari con un relativo valore artistico ma unica nel suo genere e per la prima volta trasmessa in una radio dell’occidente. Una trasmissione che mi riuscì bene in seconda fascia oraria fu a proposito di connessioni tra voodoo e musica. Ci stava a pennello con la notte, misi insieme la lettura di passi di un libro di Cornell Woolrich  con schegge estrapolate dal film Angel Heart  di Alan Parker supportando il tutto con brani di Dr.John, John Campbell, Willy De Ville  e musica di New Orleans. Fu una trasmissione intrigante e paurosa. Nelle altre fasce orarie era bene essere più  soffici e riposanti  per cui mi venivano di aiuto cantautori e cantautrici, Tom Waits, Joni Mitchell, Ricky Lee Jones per fare qualche nome e poi il blues e qualche jazz morbido che serviva ad accompagnare dolcemente gli ascoltatori nel sonno o fare quieta compagnia a chi lavorava e viveva in quegli orari. Ci scrivevano molti carcerati che non riuscivano a dormire e trovavano consolazione nelle nostre voci, nelle nostre parole, nella nostra musica. Nell’ultimo segmento, quella tra le 4 e trenta e le 5.45 la storia cambiava ulteriormente. Lì bisognava sottolineare con delicatezza il risveglio di chi si preparava ad andare a lavorare di prima mattina. Era una fascia ascoltata da operai dei primi turni o  quelli dei servizi di pulizia che prima che gli uffici e le banche aprissero avevano già fatto il loro lavoro. Era un pubblico diverso da quello del resto della notte per cui selezionavo diversa musica italiana, anche se non sono mai stato uno specialista del genere. Sceglievo tra i dischi di Paolo Conte, qualcosa del primo Zucchero perché sapeva di R&B, la Mina delle origini, il Celentano prima del Mondo in Mi Settima, Lucio Battisti, qualcosa del beat e qualche cantautore degli anni ’70 in odore di rivoluzione. Ci mettevo tra un brano e l’altro dei piccoli frammenti parlati sul tempo, sui colori dell’alba, sul brulicare della città che si sveglia, su qualche notizia curiosa e divertente, sui treni pieni di pendolari e studenti che si apprestano ad affrontare la giornata. Cercavo di far compagnia a chi stava lavandosi i denti o facendo colazione in casa raccontando qualcosa che non fosse specifico della musica ma relativo alla vita di tutti i giorni mettendoci un po’ di humour e qualche flash non stereotipato.
Mitico fu poi il collegamento la notte del capodanno 1990 con Dublino dove in concerto si esibivano gli U2. Fu una notte speciale sotto tutti i punti di vista, non era mai capitata una cosa simile in una radio italiana. Fui orgoglioso di parteciparvi, Carboni era a Dublino con la staff tecnico, Cotto ed io in studio a Roma.
Per me non era sempre semplice tirare le 4.30 per l’ultima tranche di Stereonotte, raramente dormivo prima perché avevo paura di non svegliarmi al momento giusto quindi cercavo di occupare la serata tenendomi sveglio come potevo.  Capitava di andare a cena con amici, stavo con loro a chiacchierare e sentire musica ma poi verso mezzanotte tutti si ritiravano e andavano a dormire, quindi mi ritrovavo solo, attraversavo la città in macchina, tornavo al residence sulla Camilluccia, se non lo avevo ancora fatto preparavo la trasmissione poi mi mettevo a leggere qualcosa ascoltando la radio e gli altri conduttori e se l’ora non era ancora arrivata facevo un giro in Via Veneto dove c’erano dei chioschi di giornali aperti tutta la notte per comprare  qualche rivista o la prima edizione del quotidiano.
La notte romana era per me un incanto. Andavo a dormire dopo la trasmissione per  cui se finivo alle tre o alle quattro e mezzo mi capitava di girare in macchina quando gli altri dormivano. Vivevo al contrario, non avevo problemi col rinomato intasato traffico romano, vedevo una Roma bellissima nel silenzio e nella solitudine della notte. Mi ricordo il senso di pace ed estasi quando passavo per  San Pietro completamente vuota e silenziosa, con la sola volante della Polizia che ogni tanto faceva un giro di controllo oppure farsi il lungoTevere senza un intoppo e assaporare un cappuccino caldo all’alba in un baretto dalle parti di Piazza Argentina. Conoscevo perché me li avevano indicati i miei amici romani  un sottobosco di bar e piccoli locali dove andare per un caffè, una birra o un whiskey aperti tutta la notte e frequentati da una fauna di nottambuli, balordi, insonni e prostitute. Era molto romantico o almeno io lo vivevo così, mi sembrava di essere proiettato in The Heart of Saturday Night di Tom Waits, cogliere la notte coi suoi segreti, i suoi perdenti, i suoi sogni. Ogni tanto mi capitava di assistere a qualche rissa o imbattersi in qualche tossico che non stava in piedi ma vedevo le cose con sufficiente distacco da viverle come in un film così da portarmi le impressioni e quelle visioni notturne appresso quando varcavo la soglia di Via Po ed entravo nello studio di StaiReonotte con i miei dischi. Quelle impressioni e quelle visioni scivolavano tra una canzone e l’altra così che non rimanevano solo mie ma arrivavano a quel popolo della notte che aveva come amico/a insostituibile la radio.
Rai Stereonotte, uno dei più bei periodi della mia vita.

MAURO ZAMBELLINI      OTTOBRE 2011