domenica 22 aprile 2012

Willy DeVille in New Orleans (Big Beat)


Nel 1988 Willy DeVille è in un brutto periodo, ha consumato le chance con le major, l'album per la Polydor prodotto da Mark Knopfler è risultato un mezzo fiasco, non ha più la band e la dipendenza da eroina è ancora da vincere. Senza contratto e senza prospettive lascia New York e va a New Orleans. Sarà la sua salvezza. Nella Big Easy entra in contatto con Carlo Ditta, musicista, cantautore e proprietario di una piccola etichetta discografica, la Orleans Records. Non era la prima volta che i due si incontravano, avevano stretto amicizia nel 1980 durante un tour di Mink DeVille, Carlo Ditta si era unito a loro per una informale jam session al Beat Exchange, un club di punk e new-wave della città. Quasi dieci anni dopo si ritrovano insieme, Willy vuole registrare un disco di Delta blues in solitario e Ditta gli mette a disposizione la sua collezione di dischi. Willy passa tre giorni di fila nella casa di Ditta ascoltando 45 giri di artisti di New Orleans, noti e meno noti, hits regionali e canzoni dimenticate e ne viene fuori con un pugno di canzoni da registrare, qualcuna conosciuta, la maggior parte facente parte dell'oscuro patrimonio della città. Molti degli autori di quelle canzoni e di quei musicisti erano ancora in giro in quel periodo e sarebbero stati contenti di collaborare, a detta di Carlo Ditta. Il miracolo si realizzò, Victory Mixture fu baciato da Dio, nella calda e umida estate del 1989 Willy DeVille si rintanò nel Sea Saint Recording Studio e con un solo microfono al centro della stanza e senza sovraincisioni e altri trucchi ricreò con l'aiuto della musica la magia delle incisioni degli anni '50 e '60 lavorando con la crema musicale della città, i pianisti Allen Toussaint, Eddie Bo, Dr. John, Isaac Bolden, i chitarrista Leo Nocentelli, Wayne Bennett, Billy Gregory, Fred Koella, i bassisti George Porter e Renè Coman, i batteristi John Vidacovich e Kerry Brown, un sassofonista, un trombettista ed un po' di voci femminili. In pochi giorni venne fuori un disco caldo e sentimentale, un bagno rigeneratore nella semplicità, un tuffo nell'eredità musicale di New Orleans a bordo di un treno di seconda classe. Certo la produzione di Carlo Ditta era lontana anni luce da quella lussuosa di Mark Knopfler ma il disco costò 25 mila dollari contro i 300 mila di Miracle e in Europa grazie alla pubblicazione della Fnac fu un piccolo successo.
Dieci gemme dimenticate, Victory Mixture è un tributo al soul, al blues e al R&B di New Orleans con canzoni di Toussaint, Ernie K-Doe, Earl King, Eddie Bo, Earl "Kit" Carson tolte dagli archivi e riportate a nuova luce grazie ad una interpretazione piena di passione, feeling e bravura. Mai come in Victory Mixture Willy riesce ad andare al cuore della musica estrapolando il valore senza tempo di perle come Hello My Lover, Key To My Heart, Beating Like A Tom Tom, Every Dog Has It's Day, Big Blue Diamonds, Teasin You, Junkers Blues offrendole con una interpretazione rilassata, calda e sentimentale. Una fortuna che quel disco sia ancora tra noi, lo ristampa la Big Beat ampliandolo di sette tracce provenienti dal disco Big Easy Fantasy del 1995, tutte concernenti il suo periodo New Orleans. Si ritrovano Just Off Decatur Street, il tributo di DeVille ad un immaginario musicista di strada della Big Easy tradotto in un groove funky con Dr.John e i Meters Nocentelli e Porter in gran spolvero, e una serie di live. Jump City è un personale e rauco omaggio alla tradizione del Mardi Gras e al funky della città che, come la ripresa di Hello My Lover di Tousssaint, arriva dall'Olympia di Parigi, Every Dog Has Its Day e l'incredibile performance di Key To My Heart, entrambe con Eddie Bo al piano e voce arrivano dal Bottom Line di New York così come le trascinanti e tribali Iko Iko e Meet The Boys On The Battlefront qui rinvigorite dalla presenza di tre Wild Magnolias.
Quando nel 1990 uscì Victory Mixture nessuno avrebbe puntato mille lire su Willy DeVille, i più lo consideravano finito, perso nelle sue malsane abitudini e superato dai nuovi trend del rock e invece la storia dimostrò il contrario. Di lì a poco la sua originale versione di Hey Joe avrebbe riempito le radio di tutto l'occidente. Se avete perso quel capitolo la pubblicazione Willy DeVille In New Orleans della Big Beat fa proprio al caso vostro, diciassette tracce di puro piacere.

MAURO ZAMBELLINI APRILE 2012

mercoledì 18 aprile 2012

Greg Trooper Band & John Strada


14 aprile 2012 Teatro Sala Polivalente di XII Morelli (Ferrara)
Ancora una volta gli emiliani hanno dimostrato che cultura e gusto della vita possono andare a braccetto e in questo non sono secondi a nessuno. Hanno messo in piedi in un triangolo di strade e di campi al confine tra la provincia di Ferrara, Modena e Bologna, in paesi che nella loro rurale desolazione ricordano l'ambientazione de L'Ultimo Spettacolo sebbene attorno pulsa inconfondibile la grandeur del maiale in tutte le sue insaccature, la rassegna Il mito dell'America nella periferia emiliana con serate dedicate a Woody Guthrie, Bruce Springsteen e Bob Dylan.
Sono capitato nella serata di Bruce ed è stata una festa. Il teatro polifunzionale di XII Morelli è attiguo alla Chiesa Parrocchiale ma è gestito in modo pubblico come dire che Peppone e Don Camillo qui vivono ancora e allora sabato 14 aprile c'è un palco che ospita il rocker locale John Strada accompagnato dagli Wild Innocents e poi l'attrazione venuta fin qui dall'America, Greg Trooper. Ci sono più di duecento persone nel padiglione, tanti i locali presenti, di tutte le età e tanti quelli accorsi dalle provincie vicine, da Reggio, Modena, Bologna, qualcuno perfino da Roma, uno dalla Sardegna. L'atmosfera è da festa di paese, calda  e divertente ma appena si spengono le luci tutti rivolgono l'attenzione alle parole del presentatore che parla di sogni, ricordi e Springsteen e alle note dei musicisti che per due ore e mezzo scalderanno questa accogliente venue della Bassa. I tavoli sono pieni di gente e di gnocco fritto, la birra corre a fiumi, le ragazze e le donne sono belle e  cordiali, attente e partecipate anche loro, senza la spocchia della "figa" di città. L'ambiente è casereccio, ruspante, ma la cultura serpeggia tra bicchieri e affettati, in un tavolo si vendono libri su Kerouac, Monk, Dylan, Patti Smith, le persone parlano tra di loro, le loro vite, i film, i dischi, i concerti, gli amici presenti e andati. Bruce sarebbe contento di essere qui, celebrato tra gente semplice, affabile, nobile anche se uscita dalla campagna e dal duro lavoro, in un posto così informale e così italiano.  Apre John Strada, è l'eroe locale, il Bruce di questa landa d'Emilia, una terra che ha dato tanti Bruce e che ancora ne sforna perchè qui il rock n'roll come le moto, la nebbia, la velocità, la pasta tirata col mattarello e il maiale sono sacri. E allora via, John Strada coi suoi Wild Innocents infila una serie di rockacci scatenati che evocano nei suoni, nei refrain, negli assoli di chitarra il Boss ma anche tutta una stirpe blue-collar onesta, sudata, vera. John Strada canta bene in inglese, per vivere fa l'insegnante di lingue e ha vissuto negli Usa, esegue una tosta e riuscitissima versione di Growin' Up ma poi passa all'italiano con canzoni che si appiccicano al nostro immaginario, come in La notte che mi hai lasciato, Il Fuoco Dentro, Cavalli Selvaggi e La signora Rina, la vicina di casa che tutti abbiamo avuto almeno una volta nella vita e ci ha  rotto le palle per il volume del nostro stereo. John Strada  canta, salta, sguaina la Fender e concede un set al ragù gustoso e sincero, stradaiolo fino al midollo. Gli Wild Innocents pestano duro e poi declinano rootsy quando sono raggiunti sul palco dal fisarmonicista Banzi e insieme fanno sarabanda con l'hit locale, Tiramolla, una canzone che racconta la storia del paese XII Morelli, detto Tiramolla, tra dispute paesane e una chiesa da costruire. Esilarante.
Dopo Strada è la volta di Greg Trooper. Sul palco da solo fa un siparietto di una ventina minuti, solo chitarra e voce. Basso, tarchiato, con l'immancabile cappello, dà sfoggio ad un paio di canzoni che mostrano le sue qualità d'autore, tra cui  They Call Me Hank segnalata dalle radio americane come una delle più belle canzoni del 2010. Proviene dal suo ultimo album Upside-Down Town, ossatura del suo set. Brani come Nobody In The Whole Wide World, Time For Love, Second Wind diventano il traino della sua esibizione quando viene raggiunto dal bassista Luca Tonani, dal batterista Max Malavasi e dal chitarrista Alex Valle. Lo show prende una piega decisamente elettrica, la voce melodica di Trooper, il suo songwriting, la sua chitarra acustica trovano supporto in una band che mira al sodo e offre un estratto di rock urbano venato di folk e roots. La gente applaude e chiede il bis che arriva con Trooper, Strada e i componenti delle rispettive  band tutti sul palco ad inscenare Born To Run e  a chiudere in modo corale una serata che testimonia quanto di umano Springsteen ha sparso in giro per il mondo, anche a migliaia di kilometri distanza. Senza di lui, senza il rock n'roll certe cose non potrebbero succedere.

MAURO ZAMBELLINI      APRILE 2012 

(foto Marco Paltrinieri)
 

lunedì 9 aprile 2012

Ben Howard Every Kingdom


È di moda l'indie-folk e i neo-acustici, ne parlano e ne scrivono un pò tutti. Dopo tanto rumore sono tornate le chitarre acustiche, le melodie sognanti, il romanticismo crepuscolare, le ballate in punta di piedi, le emozioni diafane, la connivenza a basso dosaggio di alcol con la psichedelia, il pop, il rock. Ci sono nomi che nel giro di neppure un anno sono diventati "culto", hanno iniziato i post-Buckley (Jeff per intenderci) alla Damien Rice, poi sono arrivati l'impossibile Joanna Newsom, Devendra Banhart, gruppi che hanno sfondato come i Fleet Foxes o hanno rimescolato le carte del folk-rock come i Midlake e i recenti Decemberists, band come i bravi Mumford & Sons che sono diventati una sorta di faro in Inghilterra per un certo giro di musicisti, casi misteriosi come Bon Iver mitizzato oltre misura. Questi sono alcuni dei nomi più noti del new acoustic movement, ma sotto c'è tutto un fermento, qualche disco è pregevole, interessante, bello, altri sono evanescenti, friabili, evaporano ad un solo raggio di sole, splendidi come antidoto per chi soffre di insonnia.
Uno degli ultimi arrivati in questo giro è Ben Howard, il suo primo album (alle spalle ha un Ep) è un piccolo gioiello elettroacustico, è un'oasi di tranquillità in un mondo rumoroso, volgare e di corsa. Vale la pena ascoltarselo in santa pace in un momento di relax, staccando la spina da tutto il resto. E' una boccata di aria fresca in una giornata con alti livelli di polveri sottili, è ameno, poetico, estatico anche se l'umore delle canzoni ha spesso a vedere con le brume autunnali, i colori invernali, le solitudini dei mari del nord. Non è noioso e ha canzoni che non ricopiano solo un unico format, come spesso succede in dischi del genere. Every Kimgdom, questo il titolo, è una perfetta sintesi di bucolica malinconia folk e intrigante melodia pop, unisce vocalizzi, strumenti a corda, percussioni, sognanti ballate sospese in una dimensione senza tempo e tensioni bluesy con tormentate divagazioni elettriche. E' acustico nello spirito ma ha pulsazioni elettriche che ogni tanto cambiano il senso della canzone, come in The Fear, dove Ben Howard dimostra di avere una tempra molto diversa da quella di tanti algidi suoi colleghi. Ci sono freschi intrecci vocali che ricordano i Fleet Foxes del primo disco, succede in The Wolves, canzoni pop (Only Love) che salgono con irresistibile intensità alla maniera di un Ray La Montagne, strambe filastrocche psycho-folk come Keep Your Head Up, suggestioni pastorali (Black Flies) e sussurri nebbiosi come Gracious che nascondono una inquietudine interiore, ci sono nenie abbandonate in un mare d'inverno come Promise dove Howard ruba visioni e poesia a Dylan Thomas e purezze folk come Old Pine dove viene fuori l'anima profondamente english della sua musica, con echi di Pink Moon all'inizio e radiosi contraccolpi nel finale.
Minimalista nei suoni, raffinato nella costruzione melodica, dotato di una voce particolare, con frequenti chiaro scuri e un intreccio di tonalità tra LaMontagne e Damien Rice, Ben Howard ha avuto la fortuna di debuttare con la prestigiosa e storica Island Records, l' etichetta dei suoi idoli Nick Drake e John Martyn, vorrà dire qualcosa?

Mauro Zambellini Aprile 2012

domenica 1 aprile 2012

Francesco Piu > Ma-Moo Tones (Grove)


 Al terzo obiettivo Francesco Piu, giovane talento sardo al servizio del blues, centra il bersaglio, Ma-moo tones è il lavoro migliore della sua avventura musicale. Ci sono ottime canzoni nel suo disco, varie, scritte con la collaborazione di Daniele Tenca e rivolte ad un superamento dei luoghi comuni dei testi blues con qualche riferimento alla realtà sociale e al malcostume culturale che ci circonda, c'è una performance coi fiocchi sostenuta da una voce espressiva e multiforme, una padronanza dell'inglese credibile e ci sono chitarre che spaziano con brillantezza dalla lap steel al banjo, dalla chitarra resofonica alla acustica, dalla elettrica a cimeli d'epoca tipo una parlour guitar dell'inizio secolo (quello trascorso). Francesco Piu è una delle promesse del rinnovato panorama blues italiano e questo disco conferma la sua bravura, la sua versatilità, il suo spumeggiante entusiasmo che dal vivo, solo o in compagnia, è motivo di un approccio coinvolgente col pubblico. Nella sua performance c'è freschezza, fantasia, apertura mentale, modernità senza venire meno ai presupposti del blues, l'ortodossia è lontana, la standardizzazione una parola che qui centra come cavolo a merenda.
Ma-moo tones è disco acustico solo in parte perchè ci sono strumenti elettrici, le percussioni del bravo Pablo Leoni, l'eccellente armonica di Davide Speranza e una produzione oculata e maestra come quella di Eric Bibb. Il risultato è un blues acustico solo di nome perchè in realtà le undici tracce di Ma-moo tunes attraversano un mondo di blues contaminato dal reggae, dal soul, dal rock e da idee strumentali che allargano lo spettro espressivo delle dodici battute. L'iniziale The End of Your Spell il cui testo è sul potere deleterio della televisione è un rauco blues da trio elettrico con venature hendrixiane ed una armonica da J.Geils Band, la slide è acida e il ritmo martellante. Un apertura coi fiocchi per un disco che non cala mai di tensione, la seguente Over You gioca sulla risposta tra voce, chitarra resofonica e armonica mentre le percussioni creano un ritmo sincopato, Hooks In My Skin è parente del reggae, Pablo Leoni fa tutto in levare e Francesco Piu canta un blues aromatizzato Caraibi facendo la cosa più vicino a Eric Bibb del disco. Blind Track, altra composizione di Daniele Tenca è invece lenta e riflessiva mentre la scoppiettante Colors regala una voce colorata e persuasiva.
Bello il contrasto creato tra banjo ed il singhiozzante ritmo rock di Stand By Bottom, aria misteriosa ed echi Delta in Overdose of Sorrow dove compare Eric Bibb con la chitarra baritono e ancora Mississippi in Down On My Knees dove Piu apre la sua coscienza e chiede in ginocchio l'aiuto del Signore. E' il lato religioso del blues qui sviluppato attorno al lavoro della chitarra resofonica e al cantato "rapito" di Francesco. Più profana la versione di Trouble So Hard, un traditional riconsegnato in tutta la sua rauca e delirante asprezza. E' la prima delle tre cover del disco assieme alla rilettura di Soul of a Man di Blind Willie Johnson eseguita come fosse un chain gang blues e alla atmosferica interpretazione strumentale di Third Stone From The Sun di Jimi Hendrix dove Piu si sbizzarrisce con una chitarra dei primi del novecento.
Ma-moo tones (le maschere del carnevale sardo) è un disco brillante e Francesco Piu un bluesman da coltivare con cura. Buone nuove da Little Italy.

MAURO ZAMBELLINI