venerdì 26 luglio 2013

JONATHAN WILSON AL CARROPONTE SESTO S.GIOVANNI 22 LUGLIO

 
   Le zanzare non hanno potuto far nulla per offuscare lunedì 22 luglio lo splendido concerto di Jonathan Wilson, colui che molti indicano essere il depositario del nuovo sound del Laurel Canyon di Los Angeles, nello suggestivo scenario post-industriale del Carroponte di Sesto San Giovanni. Con una all american band costituita da due californiani, un texano ed uno della Florida (Omar Cowen, Richard Gowen,Jason Broger, Dan Horne questi i loro nomi), Wilson ha messo in mostra il suo disco Gentle Spirit, uscito due anni fa e ormai sedimentato.  Fin dalle prime battute quel disco ha fornito materiale al concerto, e non poteva essere diversamente visto la magrezza del repertorio di Wilson dopo la parentesi coi Muscadine, uno show di chiara ispirazione seventies, con poche luci e molti suoni vintage, sviluppatosi progressivamente tra atmosfere dilatate ed oniriche, visioni psichedeliche, ballate di stile west-coast, acidi colpi di rock lisergico, chitarre smaglianti, due ore di musica suonata con grande concentrazione che ha mandato in estasi il discreto pubblico accorso a salutare uno degli act più freschi e genuini del nuovo rock americano. Capelli lunghi sulle spalle, barba incolta, t-shirt con disegni tie-dye, magro, alto,  Wilson sembra preso di sana pianta da una comune hippie di San Francisco del 1972 o da una wood cabin del Laurel Canyon di quegli anni, il ragazzo della porta accanto di amici ben più famosi come Joni Mitchell, Neil Young, Steve Stills, Dave Crosby, Jackson Browne, stesso aplomb calmo e pacifico, stessa mente persa in chissà quali sogni e pensieri, stessa gentilezza nel ringraziare il pubblico e rimanere dispiaciuto per non avere avuto la possibilità di suonare più a lungo visto i divieti delle autorità milanesi. Ridicoli, se si pensa che il concerto è in una zona di industrie e ipermercati chiusi la sera, lontano da case abitate. Così il concerto termina per forza di cose a mezzanotte quando è evidente che Wilson e la band avrebbero potuto jammare felici e contenti ancora a lungo, perché la piega che aveva preso il concerto era di quelle care alla mitologia del Matrix o dell'Avalon Ballroom, con la band in orbita ed in sintonia col pubblico e le canzoni che, travalicati i binari,  si fondevano nella  jam. Ma siamo a Sesto San Giovanni, la ex Stalingrado d'Italia e per di più nel  2013, tutta un'altra storia sebbene Jonathan Wilson ci metta del suo per ricreare l'atmosfera di quella remota California e riesca davvero con la sua voce diafana e la sua chitarra agra a ricreare il mood fascinoso del Laurel Canyon scivolando su e giù  per due ore nelle colline di un rock californiano risorto. Anche i suoi compagni di ventura vestono e hanno le sembianze degli hippie dell'era, camicie da flea market, jeans, capelli lunghi, un bassista, un chitarrista ritmico, il batterista, fa eccezione il tastierista, texano, che con la sua camicia anonima ed il suo taglio di capelli da impiegato di banca pare uno scampolo di una band di electro-pop inglese degli anni ottanta.

Iniziano senza fronzoli, la voce di Wilson non è un miracolo ma aderisce bene al basso profilo che si sono dati, partono come il disco omonimo con Gentle Spirit e poi uno dietro l'altro sciorinano  i titoli più riusciti dell'album, l'eterea ed ariosa Desert Raven contrassegnata da una Fender svolazzante e dagli arrangiamenti delle tastiere, l'uggiosa e sonnolente Canyon In The Rain  dove non è difficile immaginare il respiro di Could You Remember Only My Name di Crosby, la lisergica Natural Rhapsody  prossima ai Pink Floyd di Dark Side of The Moon, Ballad of the Pines esplicita di un modo inglese di trattare il folk con chitarre acustiche ed un coreografico lavoro  di tastiere, un pezzo che fa venire in mente i Pentangle, fino agli episodi più elettrici del set, quelli in cui risuona inequivocabile il gesto di Neil Young. Wilson non copia, è personale, la sua band ha un suono distinto, le tastiere pensano alla cornice  dei brani e alle overture, gli altri ci mettono corpo e sostanza, il leader graffia con la chitarra e coccola con la voce. Woe Is Me si muove lenta, sospesa nell'aria come il fumo della marjiuana, Valley of the Moon è desertica ed evocativa, non sarebbe dispiaciuta al Neil Young di Zuma, il suo giro di chitarra è già leggenda. Ballate, in genere, che crescono lente e sornioni, si attaccano alla pelle ed entrano nel corpo,  dondolano e rotolano attorno ad un tema che viene ripetuto e ripreso  dal riff di chitarra e dal refrain del leader, rispetto alle versioni originali dell'album sono allungate, dilatate, jammate, sporcate da un più elevato tasso di elettricità rock. La band è sicura  nei suoi svolazzi ariosi, il tastierista aggiunge  rarefazioni esotiche , nel brano che dovrebbe far parte del nuovo album in uscita a ottobre, c'è un'armonica che sa di Springsteen ed una melodia che arriva dritta da Jackson Browne, in qualche altro momento si sente il battito d'ala degli Eagles. Jonathan Wilson è nato nella Nord Carolina e ha il phisique du role di Chris Robinson ma a  tutti gli effetti è un figlio del Laurel Canyon, il suo è il più fresco rock californiano oggi a disposizione. Anche dal vivo non delude, ottimo concerto.

 
MAURO ZAMBELLINI     

 


lunedì 15 luglio 2013

NEIL YOUNG AND CRAZY HORSE LOCARNO 14 LUGLIO 2013


 

Più invecchia e più suona. Con un torrenziale concerto ad altissimo tasso elettrico Neil Young e i suoi Crazy Horse hanno definitivamente chiuso la classifica dei concerti rock dell'estate 2013: è suo il podio, senza ombra di dubbio. Nella splendida cornice della Piazza Grande di Locarno, in una bella e calda serata di luglio, il bisonte ed il suo cavallo pazzo hanno cavalcato nelle praterie del rock sotto la luna e le stelle, inscenando un concerto di devastante potenza elettrica che ha lasciato senza fiato, sfibrati alla fine da tanta veemenza e lucida follia. Vestito di nero, col cappello abbassato sugli occhi, incurante di apparire vecchio e logorato dal tempo, curvo sulla sua Gibson nera, Neil Young ha suonato in una notte di mezz'state perentorio, graffiante, duro, visionario, trascinando le sue ballate in un universo psichedelico e stroboscopico dove è risuonato l'immortale gesto rock degli anni settanta, tutta sostanza ed energia, mischiato a visioni lisergiche,  a durezze grunge e a feedback di inaudita violenza, dieci minuti di improvvisazione come quelli in coda a Walk Like A Giant, un pezzo che inizia con Sampedro che fischia ingenuo come un ragazzino nel microfono e termina in un marasma sonoro  dove pare di sentire le urla lancinanti delle orche marine in un mare di frizioni gotiche e post industriali, una coda fa far accapponare la pelle. Micidiale. Attorno a lui, anche loro curvi sui loro strumenti, Poncho Sampedro l'indiavolato chitarrista che con la sua Gibson rispondeva agli inviti di Young sporcando ancora di più con un suono abrasivo e distorto il copione, bianchissimo di capelli, muscoloso ed in canotta bianca con l'effige di Hendrix stampata sopra, un lavoratore portuale più che un rocker ed il bassista Bill Talbot concentrato sulle sue corde tanto da non perdere una nota ed in simbiosi col batterista Ralph Molina così da rimanere per lunghi tratti vicino e rivolto a lui. Insieme, i tre creavano un cerchio di magico delirio elettrico, dove compattezza ed improvvisazione si fondevano in una amalgama sonora terrificante mentre dietro a loro Ralph Molina picchiava con la cattiveria di un fabbro medieoevale.  Young con la sua voce lamentosa evocava una wilderness rock con rimandi visivi (i totem messi sul palco, le magnifiche luci bluastre e viola che illuminavano il logo dei Crazy Horse)  alle sperdute lande del nord, ai nativi americani, ad un mondo ancestrale di primitiva bellezza, il canadese era lui stesso un totem, i suoi lunghi capelli grigi, le sue smorfie, le sue rughe, il suo sguardo dolce, fiero e folle.

Ha cominciato senza dire nulla e senza il minimo saluto, da vero uomo dei boschi, con Love and Only Love , facendo capire che la notte di Locarno sarebbe stata lunga ed indimenticabile. Cinquanta minuti per quattro canzoni, quasi un record, quando Young e i Crazy Horse si mettono a cavalcare incuranti di tutto e tutto, e l'inizio dello show è quanto di meno conforme ad una logica commerciale e di consenso anche per un concerto rock, è difficile capire quando si fermeranno. Ogni tanto qualche parola, qualche verso, un refrain, ma è la tempesta elettrica a sconvolgere le fragili certezze di un ricca cittadina svizzera, Young è il fuorilegge stasera calato in città da un mondo che sembrava scomparso, il sogno di un hippie che non ha verità da regalare ma solo la propria esperienza di cavaliere elettrico ancora libero, indipendente, individualista, irriducibile, selvaggio, che suona per il solo piacere di soddisfare se stesso,agli altri tre che gli stanno attorno e alla propria concezione di musica live. Alla fine ringrazierà anche, saluterà il pubblico e si abbraccerà ai Crazy Horse sorridendo felice, consapevole di aver mandato in orbita il pubblico e di essersi divertito ancora una volta. Due ore e mezzo di show, iniziato con i 50 minuti deliranti di Love and Only Love, Powderfinger, Psychedelic Pill, Walk Like A Giant,  poi attenuati da un siparietto acustico con Blowin' In The Wind, quasi una dimostrazione di come l'uomo maturo abbia ancora gli stessi sogni dell'era felice, una dolcissima Comes A Time, Heart of Gold  e Singer Without A Song col pianoforte. Poi di nuovo la tempesta elettrica con Ramada Inn, una Cinnamon Girl in versione punk, l'ossessiva e sferzante Fuckin' Up, l'evocativa  Cortez The Killer altre volte più in palla ed il finale in apoteosi di Sedan Delivery e Mr.Soul, mai così urgente e acida. Fino all'uragano  Like Hurricane dove tra frizioni, assoli sferzati dal vento, visioni apocalittiche ed una melodia avvinghiante si va verso il meritato tributo finale quando si ha solo voglia di applaudirlo così tanto e così a lungo da lasciarlo/li sul palco per sempre, fisso come una statua, una icona, un monumento di cosa è e cosa è stato il rock n'roll. Per lui e per noi. Forever Young. Memorabile..

 

La scaletta: Love and Only Love / Powderfinger / Psychedelic Pill / Walk Like A Giant / Hole In The Sky / Red Sun / Heart Of Gold / Blowin' In The Wind / Comes A Time / Singer Without a Song / Ramada Inn / Cinnamon Girl / Fuckin' Up / Cortez The Killer / Sedan Delivery / Mr.Soul / Like A Hurricane.

venerdì 5 luglio 2013

THE BLACK CROWES, ALCATRAZ MILANO 3 LUGLIO 2013


 

Quelli del sud suonano meglio. Almeno nel rock. Se occorreva una riprova bisognava essere all'Alcatraz di Milano la sera del 3 luglio per l'ennesimo passaggio in città dei Black Crowes di Atlanta. Non c'era il tutto esaurito, si stava bene e spaziosi e per una volta l'acustica dell'Alcatraz si è dimostrata all'altezza di un evento di levatura internazionale, il giusto compendio per un concerto eccezionale, straordinario, esaltante, che ha messo una volta di più i Black Crowes sul piedistallo delle più grandi rock n'roll band della storia.

L'ultima volta che erano passati da noi era l'estate del 2011, a Vigevano, per un concerto torrido ed intenso ma troppo breve,  un'ora e poco più di show. Questa volta hanno suonato due ore esatte, dalle 20.30 alle 22.30  ma tutti i presenti avrebbero voluto che il concerto si prolungasse per un'altra mezz'ora o un'altra ora perché quello che si è sentito all'Alcatraz non è cosa che capita di sentire e vedere tutti i giorni, non è la normale amministrazione del rock, anche di quello più famoso che riempie gli stadi o l'ultimo fenomeno del momento e magari bisognerà aspettare altri due o tre anni per assistere ad un concerto così tosto, impetuoso e bello, dove si vive una speciale euforia interiore che non capita sempre, perché una droga la si può comprare ma questa euforia che nasce dentro naturale non è facile provarla, non sempre è a disposizione di sensi e cuore. E' capitato la sera del 3 luglio, il passato ed il presente che si fondono in una specie di santificazione laica del rock n'roll, dove canzoni che parlano di fratellanza, di pace, di salvazione, di umanità, cantate da un Chris Robinson che con le sue movenze dinoccolate e la sua voce spiritata delira come  un predicatore del soul e del sud, trovano accompagnamento in una band dal sound sporco, febbricitante, urgente ma anche estatico e a tratti visionario . C'è tutto quello che serve per andare in paradiso nella musica dei Black Crowes: le unghiate del British Blues, i riff degli Stones, la potenza dei Led Zeppelin, la sensualità del soul, il ritmo della musica di Memphis, il botta e risposta di due chitarristi favolosi, le jam degli Allman, l'acustica agreste del country-blues, le slide mettalliche del Delta, i voli pindarici dei Dead, i sognanti paesaggi pastorali dei  Traffic all'esordio, l'ugola arsa di alcol e negritudine  del primo Rod Stewart, la gagliarda mmediatezza dei Faces. Insomma, una enciclopedia del rock derivato dal blues, concentrata in due ore di show  ed in quindici canzoni, tante quelle presentate la sera del 3 luglio.

I Black Crowes sono tornati a Milano con la stessa formazione di Vigevano ma con un cambio importante, al posto di Luther Dickinson adesso è Jackie Green, rocker e songwriter californiano con qualche buon disco solista alle spalle, a far compagnia a Rich Robinson con le chitarre. La differenza è sostanziale, con Dickinson erano due chitarristi blues in azione, Dickinson dava una forte impronta roots al sound della band, con Jackie Green l'impasto è più equilibrato, il sound risente di un maggior tasso rocknrollistico, è tagliente, urgente, scavezzacollo, come se avessero messo un Keith Richards in formazione così da controbilanciare il tocco bluesy ed allmaniano della Gibson di Rich Robinson. Anche Green suona la Gibson ma la sua chitarra è sferzante, bruciante e cattiva e la si sente in tutta la sua efficacia quando regala un assolo da brividi, lungo e liberatorio in una incandescente versione di Wiser Time, la migliore mai sentita dal sottoscritto, l'inizio bucolico e "sospeso" con il piano di  Adam McDougall a fare da intro e poi via verso i saliscendi di una ballata ora morbida ora incalzante, che prende la via della jam, si incasina, si apre a tutta una serie di orizzonti, idilliaci prima e sulfurei poi e quando ritorna nelle amene colline della Georgia  mi fa venire in mente il "clima" di Brothers and Sisters degli Allman. E'stato uno degli highlights di un concerto potente come pochi ma di una potenza lucida, perentoria, illuminante, dove le cantilene esasperanti della messianica voce di Chris Robinson, ripetute come una ipnosi gospel, ad un certo punto si inerpicavano in tesi, ossessivi e nervosi scatti di ritmo,  che come un elicoide si attorcigliavano attorno al refrain di base creando una specie di trance che immancabilmente portava il pubblico eight miles high. Micidiali, estasi e furia, un sound che viene giù dal palco con una compattezza unica, una potenza di fuoco che vede  Chris nel ruolo di sciamano, attorniato da due chitarristi che se la giocano e se la sparano come facevano Keef e Taylor nel tour di Exile dei Rolling Stones ed un sezione ritmica che sposa funky e R&B come si è insegnato nelle università della Stax e dei Muscle Shoals, oltre ad un tastierista che riempie tutti gli spazi lasciati liberi dagli altri con un suono magmatico e fluente. Bastava la sequenza di una "tribale" Medicated Goo, magnifico ripescaggio dai Traffic di Last Traffic, della farneticante Soul Singing, della immensa Wiser Time  per andarsene a casa felici e contenti ma poi sono arrivate una sberla come Thorn In My Pride, altro highlights dello show, la micidiale Remedy ed il knock out finale di Hard To Handle fusa con Hush  di Joe South per rendere ancora più evidente che i Black Crowes sono quello che rimane dello spirito originario del rock n'roll offerto nella sua definizione migliore e più matura. Già all'inizio si è capito che i Corvi avrebbero fatto sul serio e difatti la partenza non lasciava dubbi, Jealous Again, Thick n' Thin ed una arruffata versione di Hotel Illness riallacciavo i legami con due dei loro album più amati, il primo omonimo e The Southern Harmony eccetera eccetera, poi i due episodi acustici di She Talks To Angels e Whoa Mule, acustici per modo di dire perché il tappeto elettrico sotto lo intrecciavano basso e  tastiere e sopra Chris prendeva l'acustica e venivae rapito dalla sua omelia soul, Green imbracciava il mandolino lasciando la chitarra acustica a Rich e Steve Gorman abbandonava un attimo i tamburi per le tabla, facevano pensare ad una parte tutta all'insegna del country-blues come è nel recente vinile Wiser For The Time o sull'esempio di Croweology. Niente di più errato, con Thorn In My Pride tornava la tempesta e i Corvi rivolavano alti sopra le nuvole, portando con se un pubblico sempre più osannante e lievitato, fino all'immancabile bis, una semiacustica No Expectations degli Stones da far risorgere Brian Jones ed una contorta ed un po' lisergica Movin'On Down The Line, altro estratto da Warpaint dopo Whoa Mule. Finale sontuoso per un concerto straordinario che lasciava un briciolo di amaro in bocca solo perché si sarebbe desiderato  un' altra ora in paradiso. Ma Chris Robinson non è Springsteen, purtroppo.