lunedì 28 ottobre 2013

LOU REED (1942-2013) Morte di un Rock n'Roll Animal


 

Un cattivo maestro, la rappresentazione del negativo, un microfono davanti al malessere, all'inquietudine e al degrado umano. Nel momento in cui l'utopia  hippie degli anni '60 prometteva un mondo migliore e di pace, a New York, nella sua New York, Lou Reed coi Velvet Underground portava in scena la bellezza del male, il male della bellezza, esplorando le fogne della città e gli eccessi di un mondo candido e putrido. La "banana" dei Velvet Underground, ovvero quel disco del 1967 segnato dalla grafica e dalla presenza di Andy Warhol, avrebbe minato alla base la storia del rock infiltrandosi come un virus negli anni, nelle decadi e nei secoli successivi e Lou Reed avrebbe acquistato quella saggezza al vetriolo che è propria dei poeti. Un poeta in perenne equilibrio tra l'intelletto della letteratura, la difficoltà del vivere e la crudezza del rock, il potere della parola, la sensibilità del cuore e la fisicità di una chitarra elettrica.

Armato di una manciata di accordi ha raccontato storie di ordinaria follia e straordinaria depravazione, di ascesa e caduta, di emarginati e femmine fatali, di tossici e rifiuti urbani, di sofferenze e morte, con l'occhio freddo di un chirurgo davanti al proprio paziente, evitando di dare giudizi sui comportamenti, ma accettandoli come una imprescindibile manifestazione della natura dell'uomo.

Non interessa assolvere Lou Reed dal ruolo di cattivo maestro negli anni '60 e '70 e nemmeno magnificare la redenzione di dischi come New York, Songs For Drella, Magic and Loss  dove più e meglio di ogni altro ha cantato nel rock la caduta di una città, i malati di AIDS, la morte di un amico, l'agonia e la sofferenza di un malato di cancro, quanto accettare la sua importanza artistica, l'odissea e la sua continua trasformazione, il lucido distacco con cui attraverso la musica, la poesia, la fotografia ha raccontato avvenimenti vissuti sulla propria pelle, la sua voglia di emozionare ed emozionarsi, la sua imprevedibilità e i suoi malumori, anche se poi- come lui stesso ha più volte affermato- niente vale di più che due chitarre, un basso ed una batteria che suonano rock n'roll. Rock n' Roll Animal.

 

MAURO ZAMBELLINI   

martedì 22 ottobre 2013

THE ROLLING STONES Sweet Summer Sun


 
 


 I Rolling Stones ad Hyde Park 44 anni dopo, un evento immortalato da un DVD, da un doppio  CD, da un Blue Ray e da una  edizione deluxe con tutto e di più. Hanno suonato quest'estate il 6 ed il 13 luglio nel più famoso parco di Londra, entrato  nella cultura rock per quel mitico concerto del 5 luglio del 1969 con cui salutarono Brian Jones, morto tre giorni prima, e diedero il benvenuto a Mick Taylor. C'erano 250 mila persone ad Hyde Park quel giorno, Jagger liberò centinaia di farfalle e lesse un brano tratto dall' Adonais di Percy Shelley, lo show, non eccelso come il tour americano che sarebbe iniziato di lì a poco,  fu celebrato dal film The Stones In The Park.  " C'è qualcuno che era qui nel  1969" grida ad un certo punto Mick Jagger ai sessantacinquemila presenti la sera del 6 luglio 2013,  infilandosi la stessa camicia bianca da paggio  che aveva ad Hyde Park  nel 1969, rispondendo alle grida di una parte del pubblico con  "bentornati, è un piacere vedervi di nuovo" e dando il via ad una sempre verde Honky Tonk Women con Keith Richards impegnato nel suo sporco lavoro con la chitarra,  i fiati di Bobby Keys e Tim Ries a soffiare assatanati e Chuck Leavell a regalare col piano il suo miglior assolo del concerto, anzi dei concerti per ché Sweet Summer Sun assembla registrazioni di entrambe le date londinesi, il  6 e il 13 luglio.  Il camicione bianco di Jagger non è il solo riferimento al concerto del 1969,  a contorno dello show nel DVD  ci sono difatti brevi  flash presi da quel lontano Hyde Park , oltre ai commenti dei protagonisti e del pubblico festante, un pubblico transgenerazionale che va dai bambini ai nonni, tutti felici di assistere al' ultimo ? ( si dice  così da almeno trentanni)  show della band più longeva della storia del rock. Che in questo Hyde Park Live  non manifesta quei segni di bolsaggine palesati in diverse occasioni delle ultime tourneè, mi viene in mente ad esempio Milano 2006 e nemmeno  svolge  il compito con routine, come da contratto e senza particolare trasporto.  Lo show di Hyde Park, come d'altra parte quello di Glastonbury del 29 giugno, per certi versi ancora migliore,  li vede vecchi ma in forma, non ancora pronti ad andare in pensione, contenti di stare davanti al pubblico, non solo  per l'incasso  ma per divertirsi con ciò che sanno fare meglio ovvero suonare rock n'roll.

Lo spettacolo è meno elaborato e circense di quelli degli anni novanta, loro sono più schietti, impegnati e concentrati negli assoli, nei riff e nelle melodie,  Richards e Wood suonano le chitarre in modo decente, si divertono come stessero in garage a far festa , Charlie Watts  sorride perfino tanto è a suo agio,  e  Jagger, beh Jagger lo si può amare o odiare, ma è uno dei grandi misteri della vitalità fisica umana, è straordinariamente in forma, canta senza sosta con una voce che non soffre minimamente il tempo , corre, salta, si dimena con quelle sue mossette tipiche, sculetta, incita il pubblico, gioca, si concede completamente, ha una forza scenica che non hanno i suoi colleghi più giovani e riesce ad essere meno gigione e  pavone del solito, evitando di fare il Mick Jagger che imita Mick Jagger. Il resto è l'eccellenza in fatto di turnisti, se così si possono definire, sax e trombe di prima classe, il pianista di Jessica,  Chuck Leavell al loro servizio dal lontano 1982,  la voce maschile di Demon Fowler, l'ugola rovente di Lisa Fisher, la quale  in Gimme Shelter dimentica l'acuto iniziale ma poi sulla pedana in mezzo alla folla diventa regina, danza con Jagger, agita le frange della sua camicia come fossero le ali di un aquila, tira fuori la sua voce da soul singer e accende l'eros di Mick. E'solo uno dei tanti momenti caldi dello spettacolo perché se è vero che  le canzoni fanno la differenza è altrettanto vero che gli Stones di quest'estate sono ancora un gran bel sentire e vedere, e quindi meglio il DVD che il CD.  Partono con Start Me Up ovvero dal 1981 e poi tornano indietro. Jagger è in camicia nera e giacca leopardata, Richards in nero con camicia rossa, chiodo e t-shirts bianca per Wood, in spartana maglietta verde Watts, sembrano una gang di teppisti dei quartieri alti, monelli e aristocratici anche a settanta anni,  almeno tre generazioni di rockers hanno imparato da loro.  Subito arriva  è solo rock n'roll ma ci piace, e difatti  non aspettatevi altro ma se un alieno arrivato questa mattina sulla terra vi chiedesse cos'è il rock n'roll,  per rispondergli non potreste che fargli ascoltare (e vedere) i Rolling Stones. Quindi, punto e a capo. Ecco Doom and Gloom la loro cosa più recente, dura , potente, ballabile, roba da officine Stones, è  del 2012 ma è già un classico. 

Gibson e Fender si succedono nelle mani di Wood e Keef, la  Stratocaster dell'uno fa compagnia alla Telecaster dell'altro, sentire cantare così fragile ed esangue Richards in  You Got The Silver,  già esibita abbondantemente nelle ultime date del Bigger Bang Tour, ci si chiede quanto potrà durare ancora sul palco ma  Happy allontana la risposta, è sguaiata, orgiastica, felice, con Wood alla lap-steel e gli Stones ancora a Nellcote. Quando cala l'oscurità  Jagger si mette la giacca di lamè , impugna la Fender nera, l' aveva già usata in Doom and Gloom ,  e dà il via alle danze,  l'immenso prato di Hyde Park diventa un' onda, la febbre del sabato sera si chiama Miss You,  le donne, tante, tantissime come ad ogni concerto delle Pietre Rotolanti, vanno in visibilio e iniziano a muoversi sinuose. Gli uomini lo fanno subito dopo quando Mick Taylor sale sul palco e con la sua Les Paul  tinge di  blues  lo show. Midnight Rambler è  in versione deluxe,  lunga, arrembante, al sangue. Sono tre chitarre a sferragliare  sul palco e si sente, una bambina balla tarantolata nel parco, ha capito cosa dicevano mamma e papà quando parlavano di Rolling Stones. Da lì in poi è rock n'roll  come lo si immagina e lo si vorrebbe, puro e sporco, il riff di  Jumpin' Jack Flash  è bollente,  il rito pagano di Sympathy For The Devil  il momento in cui tutti i sessantacinquemila (per sera) intonano il canto al diavolo-Jagger che in stola di piume pare un corvo malefico uscito da un racconto horror.  Richards con la Gibson fa il celebre assolo, Watts  aggiunge un pizzico di swing nel drumming, come se volesse sdrammatizzare una canzone che nel tempo ha perso quell'immaginario diabolico e trasgressivo. Ma Jagger è ancora capace di farci credere che nel rock n'roll l'inferno esiste ancora ed è talmente bravo che alla fine ne siamo convinti, o almeno facciamo finta. Il finale è affidato a Brown Sugar prima degli encore. Il corno francese di Tim Ries ed un nugolo di belle signorine in nero,  quelle del London Youth Choir, annunciano che tu non puoi sempre  avere ciò che vuoi,  detto che si adatta bene alla quasi totalità della popolazione mondiale tranne che agli Stones  a cui la vita ha regalato fama,gloria, successo, popolarità, soldi e longevità artistica. La versione di You Can't Always Get What You Want è all'altezza della sua fama, il gospel si sposa col miglior assist di Ron Wood del concerto, poi l'apoteosi di Satisfaction tra gioia e rock n'roll chiude un evento che il  DVD Sweet Summer Sun ha già consegnato alla storia. Non c'è niente di nuovo ma sono gli Stones dal vivo ovvero divertimento assicurato e qualche colpo malandrino. Certo la scaletta di Sweet Summer Sun  avrebbe potuto essere meno ovvia  ma sono state omesse , e c'erano nelle due date  di luglio, Tumbling Dice, Beast of Burden, Bitch, All Down The Line   ed Emotional Rescue, Paint It Black e Before They Make Me Run, quest'ultima cantata da Richards,  sono state relegate nelle bonus tracks del DVD  e compaiono nel doppio CD.  D'altra parte la scaletta non è molto diversa da quella standard del loro Licks  2002/2003  World Tour , questi concerti sono nati per celebrare il loro cinquantesimo anno di attività e sintetizzano la loro carriera con i brani più noti.  Su sedici tracce riportate dal DVD  dieci arrivano dagli anni sessanta con la netta prevalenza dell'album Let It Bleed, quattro dai settanta, uno è degli anni ottanta ed uno degli anni duemila, come dire il futuro è dietro le  spalle ma noi siamo ancora qui.

 
MAURO ZAMBELLINI       OTTOBRE 2013
 
 

mercoledì 2 ottobre 2013

LA FANFARA DI JONATHAN WILSON


     



Mai titolo fu più azzeccato, Fanfare di Jonathan Wilson è una lunga, ambiziosa, multifocale epopea della sua arte e della sua professionalità, una sorta di dinamico movimento di energia con esplosioni di fantasia e idee e conseguenti pause riflessive attorno alla sua multiforme personalità musicale : chitarrista, pianista, multi strumentista, cantante, autore, arrangiatore, produttore, tecnico del suono, fonico, programmatore. Va da sé che Fanfare non è un album facile, come lo poteva essere il precedente acclamato Gentle Spirit, più focalizzato, concentrato sul songwriting e su quel suono che tutti si sono affrettati a definire il nuovo sound del Laurel Canyon. Fanfare è diverso, molto più complesso e sfaccettato, a tratti anche dispersivo ed evasivo perché in mezzo a tanto materiale, a tanti impulsi, a tanto delirio espressivo, non è facile essere sintetici e mantenere un focus all'intero progetto e allora affiorano qualche lungaggine ed una lunghezza per un disco davvero impegnativa, 78 minuti! Ciò non toglie che Fanfare sia un disco estremamente interessante, emozionante ed affascinante, con diversi colpi di genio e qualche caduta di tensione, un disco che ha richiesto nove mesi di registrazione, dove il centro della musica è costituito dal pianoforte a coda Steinway usato da Wilson oltre alla sua voce sognante, malinconica, abbandonata. Fanfare è il piece de resistence di un artista che vuole dimostrare al mondo la sua grandezza e la sua variegata fame espressiva. Vulcanico, pindarico e transgenerazionale,  basta guardare i musicisti coinvolti in questo disco per rendersene conto, da Graham Nash, David Crosby e Jackson Browne a Josh Tilman aka Father John Misty e Pat Sansone di Wilco, da Taylor Goldsmith dei Dawes a Mike Campbell e Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty, per arrivare ad una leggenda dello psycho-folk inglese degli anni sessanta quale Roy Harper, con cui collabora nella scrittura di alcune canzoni.  Il talento di Wilson era già stato messo in evidenza in Gentle Sprit con cui aveva tolto la polvere dal vecchio sound della west-coast, ormai relegato ai gusti  di ex-hippie  in carriera e sepolto negli archivi di un' epoca irripetibile, togliendogli rughe e nostalgia così da indurre di nuovo molti a cercare sulle cartine geografiche musicali dove fosse il Laurel Canyon.

Qualcuno, sedotto dalla semplicità di Gentle Spirit, potrà allora rimanere imbarazzato o storcere il naso davanti all'inizio di Fanfare, col vento che soffia dalle colline ed il piano di Wilson che abbozza una melodia trasformata in  una sinfonia di drammatica reminiscenza classica. Quando la voce abbandonata e sonnacchiosa di Wilson infrange l'atmosfera semi sognante del pezzo, i violini orchestrano lo sfondo ed un sassofono free-jazz scarabocchia con rabbia il quadro, si capisce che il viaggio è iniziato e non sarà facile seguire la via senza timore di perdersi, perché la fantasia di Wilson è ridondante e la fanfara porterà con sé archi, orchestrazioni, campanacci, flauti, vibrafoni, assoli di pianoforte, fiati, voci, improvvisazioni ed una orchestra intera. Quasi una futura visione della musica rock, come suggerisce il titolo di una canzone dell'album,  oppure l'ostinata ricerca della perfetta canzone d'amore, con l'intento di edificare una sorta di suite sulla falsariga di  Pacific Ocean Blue di Dennis Wilson, l'opera che più di ogni altra si avvicina a questo delirio del giovane Wilson. E questa ricerca pare portare a risultati grandiosi perché Dear Friend è un abbraccio tra i  Pink Floyd e i Rolling Stones dell'era Mick Taylor, la solennità dei primi  contrapposta ad una liquida chitarra bluesy e Love To Love è una simple song che tra chitarre Byrds ed un Hammond antico rivaluta un nobile significato di pop.  Episodi che anticipano Future Vision ed una visione  più complessa e imponente, dove la grandeur sinfonica dei Pink Floyd, di nuovo, è sdrammatizzata da una marcetta di vago sapore Kinks e da una coreografia  Stereophonica. All'opposto, Moses Pain mostra il malinconico songwriting di Wilson, dolente come il Dylan dei racconti perduti di Tell Tale Signs rifiniti però qui con una corale alla Jackson Browne. Momento sublime, come quello che viene subito dopo, dove difficile è capire cosa ci stia dietro ad un titolo come  Cecil Taylor, famoso pianista free-jazz, quando invece una ariosa, dilatata e armoniosa folk-song che non tradisce la sua origine ovvero il meraviglioso If I Could Remember Only My Name di David Crosby, qui presente assieme a Nash,  si libera sopra l'orizzonte della Bay Area, Da quel mitico album potrebbe discendere  anche New Mexico mentre sono i  toni da ballata rock a condurre Illumination,  epica e travolgente come le onde di Big Sur,  imparentata con il surfing lisergico di Chris Robinson Brotherhood. Terre grigio e rosa rubate ai Caravan invece quelle di Fazon dove morbide percussioni dondolano attorno ad un clarinetto jazz e a voci rilassate che salgono da Canterbury.  Desert Trip, questo sì un ritrovato ingiallito giornale sulle amenità del Laurel Canyon sound,  pianoforte, voce ed un filo di ritmo in equilibrio con una melodia  delicata e avvolgente, è un miraggio desertico e potrebbe essere la conclusione di un disco pressoché perfetto se Jonathan Wilson non si facesse prendere la mano e volesse fare con Love Strong il John Lennon al pianoforte, peraltro aggiungendovi una stramba spruzzata di country a metà del pezzo e All The Way  si dilungasse lenta e affaticata. Poco male, Fanfare  rimane una interessante e per molti versi riuscita celebrazione del talento musicale di Jonathan Wilson e della sua vulcanica esigenza espressiva, come molti dischi così ambiziosi, lunghi e "onnipotenti"( non a caso la copertina  è  presa dal Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti) non è un capolavoro ma ciò non toglie che qui brillino una bellezza ed una fantasia che è un delitto ignorare.
 
MAURO ZAMBELLINI