venerdì 22 maggio 2015

GOV'T MULE Alcatraz, Milano 20 maggio 2015


Mamma mia che concerto, ma chi sono questi, dei marziani. Indubbiamente il miglior concerto dei Muli tra quelli a cui ho assistito dal 2005 ad oggi, una grande serata di musica ad ampio raggio dove il blues si è legato al reggae, il soul alla psichedelia, il jazz al rock in un mix di suoni e di emozioni che ha fatto lievitare anima e corpo dei 1500 presenti verso quel paradiso del vero sentire che non sempre è facile incontrare. Immensi, i Gov't Mule hanno sostituito i Grateful Dead nel recente immaginario del rock, trafiggendo i cuori di chi vuole ascoltare e vivere musica superiore, senza barriere e limitazioni, conquistandosi una stima fuori dall'ordinario. Basta leggersi le scalette di questo segmento europeo del Dub Side Of The Mule Tour per rendersi conto di quanto i Muli siano un caso a sé, non c'è nessuno oggi che può permettersi di cambiare completamente scaletta da una sera all'altra (non dico qualche brano, ma l'intero menù della serata) come fanno loro, citando come nella notte dell'Alcatraz Bob Marley ( il reggae fuso col funky di Lively Up Yourself), BB King (versione da capogiro di Thrill Is Gone con la chitarra di Haynes accordata su quella del Re), i Led Zeppelin (D'Yer Mak'Er infilata dentro Frozen Fear), Neil Young & The Crazy Horse (Dangebird, forse il brano più sottotono della serata), gli Humble Pie ( la torrida 30 Days In The Hole nel primo richiestissimo encore), i Tower of Power ( What Is Hip?), Santana nel ripetuto divertente tormento di Oye Com Va, Van Morrison quando hanno messo in medley l'applauditissima Soulshine fondendola con una inattesa Tupelo Honey. Micidiali, più volte applauditi a scena aperta da un pubblico che li ama, ama la loro generosità, la loro bravura tecnica, la loro inventiva, apprezza l'umiltà di Warren Haynes, un gigante della chitarra ed un cantante dell'anima a cui dovrebbero erigere un monumento per come ha tenuto in vita questa concezione libera, spontanea, versatile e jammata del rock n'roll, senza pavoneggiarsi nella tecnica e nel virtuosismo.

 
 
I Gov't Mule sono progrediti molto da quando erano un trio granitico ai confini tra hard-rock-blues e psichedelia, dove la potenza era l'aspetto principale della loro cifra stilistica. Oggi sono più morbidi, multiformi, soul e jazz, un ensemble che con le dovute differenze e ambiti diversi mi ricordano per bravura tecnica, inventiva, cultura musicale, il quartetto di John Coltrane, con la chitarra (le diverse Gibson passate tra le mani di un dimagrito e costipato Haynes) al posto del sassofono. Danny Louis, solito berretto ed occhiali alzati sulla fronte, è un tastierista dotato di grande misura, riempie spazi e accentua sia il groove che il lirismo  della band, lavora con l'Hammond ed il piano elettrico ed in entrambi i casi sortisce l' effetto di arrotondare  il sound  smussando le spigolosità dell' arcigno power trio di un tempo. Matt Abts, sempre più incurvato su sé stesso, è un batterista con pochi uguali oggi nel rock, picchia ma non si vede, ha l'impronta del batterista jazz, dinamico, sciolto, impareggiabile nei cambi di ritmo, nel costruire quei levare su cui si innestano sempre più frequentemente dub e reggae, nell'ammorbidire fino quasi al silenzio lo svolgimento del blues, assecondando il maestro d'orchestra Haynes che in Rocking Horse, Sco-Mule, Mule conduce il brano dalle impennate elettriche fino quasi all'esaurimento, al silenzio di poche note e tocchi, prima di risorgere in tutta la sua grandeur. Davanti a lui è Jorgen Carlsson,  bassista che si sente, eccome si sente e sa diventare solista. Ma è lui, Warren Haynes il capitano di questa ciurma di navigatori aperti ad ogni mare, affiatati e fantasiosi,  capaci di solcare il ritmo sincopato del reggae e abbandonarsi al blues e al senso epico di ballate che, come nel caso di Endless Parade, a parere del sottoscritto la highlights della serata, ti spediscono direttamente in paradiso. I Muli macinano lento, hanno pazienza, sono rigorosi, funambolici e passionali e anche quando sono di mezzo i colpi felini del rock, non si perdono in preamboli e lungaggini inutili, viaggiano nel cosmo psichedelico ma coi piedi per terra e col cuore rivolto al pubblico. Due ore mezza di concerto, chiamarlo show è fuorviante visto la voluta pochezza della loro coreografia, ed un tripudio di entusiasmo da commuovere anche la schiva e composta Milano. I Gov't Mule hanno fatto il loro set, chi si aspettava i bis delle precedenti date, Ventilator Blues oppure Little Wing o Get Behind The Mule di Tom Waits, è rimasto deluso perché signore e signori questi sono i Muli, prendere o lasciare, per loro il karaoke è parola sconosciuta, ed il 90% della scaletta è diversa da quella della serata precedente.

Chiudono con Soulshine intrecciata con Tupelo Honey, poi di nuovo sul palco con 30 Days In The Hole di Steve Marriott, e poi un secondo bis nel rispetto del paese in cui si trovano, quindi l'invito ad unirsi a loro di due armonicisti del blues italiano, il puma di Lambrate Fabio Treves e l'ex W.I,N.D. Fabio Drusin, nella bluesatissima Look On Yonder Wall di James "Beale Street" Clark. Nient'altro da aggiungere tranne sottolineare la miseria della grande stampa nazionale, che per un gruppo simile dedica al più un trafiletto. Pazienza, valgono di più i visi sorridenti, appagati, felici di tanto pubblico, molto meno affaticato rispetto a certe estenuanti performance del passato. Lunga vita ai Muli, chi non c'era si è perso una serata eccezionale.

MAURO   ZAMBELLINI   Le foto sono di Elena Barusco