venerdì 21 agosto 2015

25 agosto 1975 BORN TO RUN

 
Strano che l’anno in cui Born To Run venne pubblicato, il 1975, si era in piena crisi petrolifera e il mito della strada e dell’automobile, tema centrale dell’album, assieme a quello dell' “l’amore è vero”,veniva sottoposto a dura prova.

Sebbene quell'album uscito il 25 agosto di quaranta anni fa costituisca l’espressione più perfetta e compiuta del mito americano della strada, del viaggio e dell’auto, con tutte le sue promesse di libertà e indipendenza,  la sua realizzazione non fu certo una corsa nel vento. Ad un certo punto della sua genesi Bruce Springsteen, ancora lontano dall’essere  the boss, fu sul punto di mollare tutto e la Columbia (la Sony di oggi) in procinto di licenziarlo preferendo puntare su Billy Joel invece che su un artista  i cui primi due album avevano venduto quasi nulla. Furono una serie di situazioni più o meno causali, oltre all’ostinazione e alla pignoleria di Springsteen a far sì che Born To Run venisse portato a termine e, una volta pubblicato, a tramutarsi nel breakthrough album della sua carriera. Una grande opera,  uno dei più esaltanti, romantici, febbrili e contagiosi dischi della storia del rock, capace di riportare tante persone a credere nel rock n’roll come stile ed energia di vita.

La gente vide in quel disco un po’ delle proprie speranze e dei propri sogni”. (Roy Bittan)

 

Nel 1974 erano sempre meno quelli che in casa Columbia nutrivano ottimismo riguardo al futuro di Springsteen. In suo favore giocavano John Hammond, l’uomo che lo aveva scritturato due anni primi ma che in quel periodo si trovava ospedalizzato per un attacco cardiaco e Clive Davis nuovo boss della Cbs, ma l’umore era di generale diffidenza e le attenzioni sembravano rivolte più verso Billy Joel e il nuovo album degli Aerosmith, Toys In The Attic.  Le vendite dell’album d’esordio di Springsteen Greetings From Asbury Park  si erano rivelate  poca cosa,  misere undici mila copie vendute in Usa e solo l’appassionata recensione  su Real Paper del critico musicale Jon Landau che, dopo aver assistito a un concerto a Cambridge nel Massachussetts, scrisse “ho visto il futuro del rock n’roll ed il suo nome è Bruce Springsteen” aveva fatto lievitare le vendite del secondo album The Wild The Innocent and The E Street Shuffle  portandole a quota 150 mila. 

La situazione non era certo rosea e  il manager di Springsteen Mike Appel dopo aver sottoposto ad alcuni dirigenti Columbia il demo della canzone Born To Run si sentì rispondere da Charlie Koppelmann : “i nostri giorni con Springsteen sono alla fine “ mentre Irwin Segelstein fu ancora più brutale : “ questo non è nato per correre, è nato per strisciare”.

Tempi duri insomma. Con Born To Run Springsteen si stava giocando tutta la sua vita e la sua carriera e palese era la convinzione che se non avesse sfondato sarebbe tornato nell’oscurità da cui era venuto. La frase di Jon Landau fu quindi un bagliore in un mare di tempesta, “l’’articolo di Landau arrivò in un momento in cui molte persone, incluse quelle della casa discografica si domandavano se io valessi davvero qualcosa”. (B.S)

Con quella frase, ho visto il futuro del rock n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen  volevo affermare che finalmente avevo trovato una nuova forma di purezza, energia e sincerità,  in quel momento assenti nel mondo del rock n’roll”. (Jon Landau)

Un' affermazione importante che indusse la casa discografica a cambiare le proprie strategie, innanzitutto lanciare una campagna pubblicitaria con al centro il disco a cui Bruce stava lavorando da alcuni mesi.

Consapevole dell’importanza decisiva del nuovo album, l’autore si infilò nell’avventura più faticosa della sua vita, ore, giorni e mesi passati in studio di registrazione con la band a realizzare quello che nelle intenzioni di Springsteen doveva essere un disco esplosivo. Ma la lavorazione non fu facile ma travagliata e interminabile.  Barricato nei 914  Sound Studios di Blauvelt con Mike Appel in cabina di regia, Garry Tallent, Clarence Clemons, Danny Federici, David Sancious alle tastiere e Ernest “Boom” Carter alla batteria, Springsteen aveva in mente di registrare il più grande disco di rock n’roll di tutti i tempi. “Volevo scrivere dei piccoli poemi epici dove le introduzioni servivano a preparare la canzone, presentavano i personaggi e creavano un contesto emotivo. Un modo di scrivere molto teatrale che ho usato solo in quel disco. Sapevo di misurarmi con  immagini classiche del rock n’roll che sarebbero diventate dei clichè. Dovetti lavorare tanto per ottenere la giusta anima delle canzoni”. (B.S)

Il sogno che Bruce aveva in testa era semplice e chiaro: cresciuto nel New Jersey con le playlist delle radio della notte, coi singoli degli Animals e degli Stones, con Chuck Berry e la musica soul, col pop pre-Beatles e i gruppi garage americani, con la voce misteriosa di Roy Orbison e le good vibrations dei Beach Boys, voleva infilare tutta quel materiale in un solo disco creando un  potente suono rock capace di entrare nelle case della gente per cambiare le loro vite. Un disco che aveva il sound di Phil Spector, le parole di Dylan e le chitarre di Duane Eddy.  Ci riuscì ma con una immane fatica. Per fare il primo disco aveva impiegato tre settimane, per il secondo due mesi, ci vollero quindici mesi per completare Born To Run, lavorando dodici ore al giorno e rifacendo una canzone magari anche 56 volte. “Mangiavamo, bevevamo e dormivamo con Born To Run”. (B.S)

Di una cosa Bruce era certo, all’Lp necessitava un singolo devastante, un grande hit come fu poi Born To Run, leggendaria canzone capace di sedersi al fianco di Like A Rolling Stone e Satisfaction.
 

Nel 1974 Asbury Park brulicava ancora di vita, quell’estate mi comprai la mia prima auto per 2000 $, una Chevy del ’57 con quattro carburatori e una fiamma sul cofano. Abitavo in una casetta a West Long Branch a nord di Asbury e un giorno mentre suonavo la chitarra sdraiato sul letto mi venne in mente la frase born to run. All’inizio pensai che fosse il titolo di un film o una scritta letta su un’auto. Mi piaceva perché faceva pensare a un dramma da film che sarebbe stato perfetto per la musica che avevo in testa”. (B.S)

Born To Run fu la prima canzone dell’album ad essere completata. Venne registrata agli studi 415 di Blauvelt con la supervisione di Mike Appel e con la “vecchia” E-Street Band con Carter e Sancious in formazione. Era la perfetta canzone pop, il luogo d’incontro tra un arrangiamento sonoro di straordinaria potenza, una cascata di suoni e rumori estrapolata dal wall of sound di Phil Spector, in particolare da River Deep Mountain High di Ike & Tina Turner e Be My Baby delle Ronettes, l’appeal irresistibile delle canzoni degli anni ’60, in primis We Gotta Get Out This Place degli Animals e l’energia del rock n’roll come lo intendevano i figli della working class, con lo spirito di chi è nato per soffrire ma spera di andarsene da una città di perdenti.

Era la combinazione della vecchia pop music che incontra il rock come forma d’arte. Era difficile realizzare una simile cosa e penso che Born To Run ne fosse il primo esempio, sposare l’emozionale comunicatività degli anni ’50 e dei primi anni sessanta, quel modo di Phil Spector di fare della canzone una specie di forma pre-artistica e unirla con le liriche  personali dell’era post Dylan. Quella canzone è diventata uno standard per un mucchio di persone che sono arrivate dopo”. ( Miami Steve Van Zandt)

 


Per i giovani americani degli anni settanta l’auto era ancora un simbolo di libertà nel muoversi e nel viaggiare, alludeva alla libertà e all’autonomia che questi giovani cercavano rispetto al mondo degli adulti. Era un’aspirazione che derivava dalla rivoluzione economica degli anni cinquanta e dalle canzoni di Chuck Berry, uno dei  rocker più influenti di quella decade, Springsteen attinse da quella fonte to per la serie di immagini automobilistiche di cui è costellato l’album, a cominciare proprio dal titolo Nati per correre.

Rispetto ai primi due album così verbosi, floridi di visioni e flash dilaneschi, la canzone Born To Run era più sostanziale, un concentrato di energia con un accelerazione pazzesca e un inizio di batteria che è un fiotto di sangue. L’effimero sogno americano, la città trappola, l’amicizia, il sapere se esiste l’amore, la macchina e la strada, la terra promessa  sono elementi di un messaggio esplicito e condivisibile che non appartiene all’ utopia comunitaria hippie degli anni ’60 ma necessita di una  grande forza e ha solo bisogno di quattro minuti e non sette per farsi ascoltare, e di due personaggi e non dodici per essere vissuto.

Una canzone che richiese parecchio sacrificio e “conteneva gli spunti dei personaggi che mi avrebbero accompagnato nel mio lavoro per i prossimi trentanni”. (B.S). Dopo la registrazione di Born To Run  il tastierista David Sancious sfiduciato per le lungaggini che impaludavano la realizzazione dell’album se ne andò portandosi dietro il batterista Ernest “Boom”Carter e Springsteen che non voleva  affidarsi a dei sessionmen interruppe per due mesi le registrazioni in modo da  organizzare le audizioni per  “l’arruolamento” di Roy Bittan e Max Weinberg. Ci furono sessanta provini prima della scelta giusta ma alla fine  Roy Bittan fu determinante perché il suo pianoforte definì il sound dell’intero album.

A corto di soldi e bloccato nelle registrazioni, Springsteen ad un  certo punto si trovò disperato come colui che vede i propri sogni sgretolarsi. “ Quindici mesi attorno a quel disco….la miglior cosa che posso dire è che quella è l’esperienza più intensa che ho vissuto. Non c’era mai la sensazione che tutto stesse finendo, non vedevi mai la fine, alcuni giorni ti sentivi letteralmente morire, le cose  giravano nell’aria in quello studio e ti sembravano morte. L’unico concetto che avevo chiaro è che volevo fare un grande disco”. (B.S)

Un primo segnale di cambiuamento avvenne quando il demo di Born To Run  circolò informalmente in alcune stazioni radiofoniche di New York, Boston, Philadelphia e Cleveland dove Bruce poteva contare su dj amici che lo supportavano fin dal primo album.

A Cleveland dove già esisteva uno zoccolo duro di fans, Kid Leo sulle frequenze di WMMS iniziò a trasmettere Born To Run ogni venerdì pomeriggio alle 5 e 55, come inizio ufficiale del weekend. La canzone girò in modo “sotterraneo nell’etere” e quando nel febbraio del 1975, prima dell’uscita ufficiale dell’album, Springsteen suonò alla Carroll University di Cleveland e vide il pubblico cantarla a squarciagola rimase di stucco.
 

Kid Leo, che proveniva dai quartieri poveri e dalle palestre di boxe di Cleveland, era solo uno dei tanti di una generazione di dj che in quei giorni nutrivano grande fiducia in Springsteen, contribuendo a creare la leggenda dei suoi show.  A New York alla WNEW c’erano Richard Neer e Scott Mun altrimenti conosciuto come “The Professor”, colui che aveva traghettato il pop-Am nel rock-Fm, poi seguiti dal mitico Ed Scelsa. A Boston alla WBCN, una delle prime grandi radio underground in Fm, c’era la giovane Maxanne che già nel 1973 aveva invitato in studio Springsteen per un’intervista ed una audizione (per le cronache suonò Blinded By The Light, Bishop Dance, Song To Orphans e Does This Stop at 82nd Street), infine c’era  Ed Sciaky di WMMR  a Philadelphia, forse il primo conduttore radiofonico amico di Bruce che contribuì con le sue dirette a far impazzire i kids in Philly con le leggendarie apparizioni del Boss al Main Point, in una delle quali, nel febbraio del 75, Springsteen presentò in anteprima Born To Run  e altri brani del nuovo album ancora inedito.

Born To Run suonato dal vivo nei club e diffuso dalle stazioni radio amiche  cominciò a muovere le acque e a creare l’ attesa spasmodica del nuovo disco. Fu un movimento dal basso  che investì l'audizione rock, erano gli anni ’70 e le radio, non certo impacchettate e standardizzate come oggi, avevano il potere di veicolare gusti e attese indipendentemente da quello che veniva deciso negli uffici delle case discografiche e dai loro lacchè radiofonici. Fu anche questo moto dal basso a spingere la Columbia a rivedere le proprie priorità. Decisiva fu l’entrata in campo di Jon Landau, in quegli anni uno dei critici rock più rispettati d’ America e produttore del secondo disco degli MC5, che, dopo la celebre frase sul futuro del rock n’roll, fu contattato personalmente da Springsteen una notte con una telefonata di tre ore in cui parlarono di musica come se stessero ascoltando i 45 giri della loro gioventù.

Dissi ad Appel che avevamo bisogno di qualcun altro. Ci serviva l’abilità, l’opinione e l’energia di qualcun altro”.( B.S)

L’incontro tra quei due disperati e solitari (Bruce era in crisi nera col disco e Landau appena divorziato e affetto da una seria infezione allo stomaco) accelerò gli eventi. Landau lasciò la sua carriera di giornalista e nell’aprile del 1975 divenne il produttore di Springsteen, e Bruce realizzò il disco che cambiò la sua vita e quella dei suoi amici e compagni.  Come prima mossa Landau costrinse Springsteen ad abbandonare i 914 Studios per trasferirsi a Manhattan nei più attrezzati e sofisticati Record Plant ingaggiando come ingegnere del suono Jimmy Iovine, fresco della registrazioni di Rock n’ Roll di  John Lennon con Phil Spector. 


L’avvento di Jon Landau non fu la bacchetta magica della favola “eravamo ancora nella fase in cui si mettono insieme gli arrangiamenti, non tutto iniziò a filare liscio” (B.S) perché nei nuovi studi l’odissea proseguì con tutto lo stress e il maniacale perfezionismo di cui  Springsteen era capace. La band era esausta e Bruce si trovò spesso collassato sul mixer incapace di dare forma al sound che aveva in testa e finire quel disco diventato un incubo.  Il contributo più importante di Jon Landau fu l’ essere in grado di analizzare ogni canzone e scomporla in tutte le sue parti facendola apparire meno complicata”. (M.Appel)

Dopo un breve periodo di relax passato con la band a suonare nei club, tra l’aprile e il luglio del ’75 ci fu l’affondo finale in sala di registrazione. Un giorno arrivò Steve Van Zandt che non faceva ancora parte della E-Street Band (non sono mai stato diplomatico, arrivai in quegli studi, mi sedetti sul pavimento e ascoltai i fiati di Tenth Ave.Freeze Out, erano tutti sbagliati. Allora cantai loro i riffs e quello fu l’arrangiamento che finì nel disco) ma lo stress, dopo ore di overdubbing nel tentativo di ricreare quella sorta di grande suono rimbombante e compresso che assomigliava al wall of sound di Phil Spector , si stemperò solo il 19 luglio quando l’album fu ufficialmente finito.

Avevamo le date del tour pronte e il disco non era ancora finito. L’era della computerizzazione era ancora lontana e molte operazioni dovevano essere fatte manualmente. Lavorammo al mixaggio fino al primo giorno del tour”. (Jon Landau)

Nonostante gli sforzi immani Bruce non fu contento del risultato e quando l’ingegnere del suono Jimmi Iovine glielo presentò scaraventò il master in piscina.

Lo odiavo, non riuscivo ad ascoltarlo. Penso che fosse la peggior  schifezza che avessi mai sentito ma ero esausto e quando uscii dallo studio e mi infilai in auto per raggiungere il concerto mi sentii come stessi andando in vacanza. Non ne potevo più dello studio”. (B.S)                                                                                   

Il giorno dopo vennero portati gli acetati alla Columbia ma Springsteen propose alla casa discografica di registrare l’intero album dal vivo al Bottom Line. Naturalmente quelli della Columbia scelsero un’altra strada e investirono 250.000 dollari sul futuro del rock n’roll. Furono considerati diversi titoli tra cui American Summer  perché l’album avrebbe potuto raccontare una storia lunga un’estate ma il 25 agosto del 1975 Born To Run era nei negozi e la vita di migliaia di persone sparse per tutto il pianeta cambiò improvvisamente.  

 

Mauro   Zambellini  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 







venerdì 7 agosto 2015

SUMMER IN THE CITY

E' diverso tempo che manco da questo blog, un po' di impegni, problemi vari, molta pigrizia, e poi perché bisogna scrivere per forza se non si ha nulla da dire o da segnalare ? Ritorno con questo Summer In The City, titolo suggeritomi da una strepitosa canzone del 1967 dei Lovin' Spoonful che con lucidità fotografa la mia situazione di esiliato in città in questa torrida estate del 2015. Quella canzone dei Lovin' Spoonful fu tra i primi 45 giri che acquistai quando ero pischello, esattamente a diciassette anni ma già fulminato dal rock e dal beat. I Lovin' Spoonful erano di casa a New York anche se non tutti erano originari della Grande Mela, ed avevano come cantante un simpatico e arguto songwriter, John Sebastian, uno innamorato di jug music, dixieland e folk-rock. Assieme al chitarrista Zal Yanowski, altro geniaccio beat poi allontanatosi dal gruppo perché beccato a Berkeley con della marijuana e costretto a spifferare i nomi di chi gliela aveva passata, al bassista Steve Boone e al batterista Joe Butler coniarono una originale miscela di pop, rock, jug music e folk che venne chiamata good time music per le buone vibrazioni che trasmetteva, un misto di melodie scanzonate, pigre e sognanti ballate e pop urbano con qualche pennellata di esistenzialismo beat. Qualcuno li definì, in modo del tutto inappropriato, la risposta americana ai Beatles, in realtà  incarnavano con le loro canzoni strambe e il loro atteggiamento bohemienne tra vecchi beatnicks e nuovi hippies, il lato meno serioso ed impegnato della musica che usciva dal Greenwich Village, pur con testi affatto banali. Venivano dall'ambiente dei campus universitari ma non avevano l'aria dei professorini e dei nuovi predicatori folk, piuttosto sembravano dei trovatori che cantavano il lato ameno e disincantato di un'esistenza che si prendeva gioco di conformismi, convenzioni, grigiore middleamericano.
Il cinema si accorse di loro, Francis Ford Coppola li usò nella colonna sonora di You're A Big Boy Now, Woody Allen in What's Up, Tiger Lily, film praticamente mai visti alle nostre latitudini. Il loro primo singolo del 1965 già esplose come una bomba, Do You Believe In Magic, e finì nelle top ten americane ma il '67 fu per loro l'anno della consacrazione, prima con Daydream e poi con quella Summer In The City che ti catapultava di netto nell' afosa estate newyorchese di downtown, con l'umidità che dai solchi sembrava appiccicarsi addosso, la voce randagia come un gatto prigioniero di una città che non ti dà scampo, il piano che incedeva ossessivo, il refrain insistente, quei clacson schiamazzanti e quel martello pneumatico che trivellava l'asfalto ed il cervello dell'ascoltatore con un rumore che te lo portavi addosso per tutta la giornata. Una grande canzone, semplice ma esplicativa di uno stato d'animo e di una situazione ambientale perfettamente metropolitana. Un quadro urbano di una espressività straordinaria, la dimostrazione di come un insieme di suoni e rumori possa essere più rappresentativo di un film o un brano letterario. Bene, anzi no, il mio summer in the city non ha il martello pneumatico che trivella sotto casa, almeno quello dopo un paio di giorni avrebbe finito, ma il rumore assordante di aerei che ad ogni ora del giorno e molte ore della notte volano sopra la mia testa e la mia abitazione minando la mia tranquillità, i miei nervi ed il mio ascolto. Adesso che Malpensa è stata "rilanciata" dai voli low-cost e dai cargo merci che volano a bassa quota e fanno un rumore infernale, la situazione è diventata insostenibile, specie nel periodo estivo. I politici (di qualsiasi colore) sono contenti di questo aumento del 4% dei voli estivi ma loro abitano lontano dal rumore e dall' inquinamento, in altre città,  e purtroppo sono contenti anche molti cittadini che in cambio di un paventato posto di lavoro, che nella maggior parte dei casi si traduce in contratti iper-precari, condizioni di lavoro pessime, rapporti di lavoro ricattabili in ruoli che spesso prevedono la scopatura delle scale di servizio, la pulitura dei cessi, l'imburrare panini al bar, l' impacchettatura bagagli all'entrata, sarebbero disposti anche a far entrare l'aereo in casa loro a cenare con la famiglia. Altro che No Tav, qui sono disposti a tutto, anche allo schiavismo. Non entro nella questione, il lavoro è garanzia di dignità e futuro, ma questo deve essere dignitoso e assoggettato a regole, diritti e doveri scritti e condivisi, che oggi non ci sono, ed un aeroporto col suo traffico aereo ed il suo indotto deve essere rispettoso della vita dei cittadini che ci abitano attorno, anche di quelli che dell'aeroporto farebbero benissimo a meno. Invece negli anni non c'è mai stata una seria valutazione di impatto ambientale, che sia poi stata realmente valutata dalle autorità scientifiche competenti, cosa che avviene in tutti i paesi del mondo ed invece la prospettiva è quella di aprire ancor di più le porte a cani e porci, vecchi vettori fracassoni e cargo-merci che fanno un rumore infernale e ti svegliano di soprassalto in piena notte, pur di avere traffico e business, e of corse giro di mazzette. Quando li vedo salire gli aerei, abito al quarto piano di un palazzo con davanti poche case e i boschi che scendono verso l'aeroporto, una volta portatori di sintesi clorofilliana oggi sede di enormi parking con cui i proprietari di quei terreni si sono fatti i soldi alla faccia dell'ambiente e del paesaggio, e li vedi arrivare con le loro luci rosse, bianche e verdi e la sagoma di un uccellaccio sornione da lontano ma aggressivo da vicino, vorrei tanto trovarmi in un videogioco ed abbatterli con un colpo secco, liberatorio, consapevole poi di aver fatto delle vittime innocenti. Francoforte che è uno dei maggiori hub europei, chiude di notte per salvaguardare la salute e la tranquillità dei propri abitanti, da noi invece porte aperte a tutti ad ogni ora del giorno e della notte, anche ai tedeschi che fanno da noi quello che non possono fare da loro. Spesso ascoltare un disco è un'impresa e non basta mettere a tutto volume Jet Airliner della Steve Miller Band per lenire la pillola. Torniamo a terra e scusate lo sfogo, Summer In The City la potete trovare nell'album Hums, il migliore tra quelli realizzati dai Lovin' Spoonful, ri-ri-ri ristampato proprio in questi giorni.
 
Sono poche le novità nel rock che mi hanno colpito, ma la spiegazione è che sono diventato difficile e compro dischi sempre più raramente, così come centellino i concerti, sempre più cari. Ho evitato di sborsare 90 euro o giù di lì per l'ennesimo concerto di quel santo che ti fa capire quale canzone ha cantato solo il giorno dopo, quando in internet leggi la scaletta della sera precedente. Mi sono piaciuti per onestà e musicalità, a loro modo molto diversi, John Hiatt al Carroponte di Sesto San Giovanni (la recensione la potete leggere sul Buscadero on line) e i Counting Crows nel caldo torrido di Pistoia Blues,  concerto sudato e lirico, Duritz all'altezza del suo carisma, per nulla star ma grande elargitore di ballate spirituali e visionarie tra il cielo e la terra che hanno il potere di trasmettere benessere e positività anche quando parlano del lato sbagliato della strada. Degna apertura di serata  con Arianna Antinori and Turtle Blues per l'occasione rimpolpati di sax e tromba. Sul grande palco Arianna e soci non hanno sfigurato, anzi hanno superato l'esame di maturità, lei ha grinta da vendere e ci crede, loro ci mettono l'anima e maneggiano bene gli strumenti.  

Acquisti pochi quindi, mi salvo ascoltando dischi e CD che già posseggo, che sono tanti, la soundtrack quotidiana è peraltro garantita e non mi annoio, così come non si lamentano i vicini (ci mancherebbe, col casino che fanno gli aerei) anche quando il volume è over. Un buon dischetto è quello dei Banditos, copertina in stile outlaw e biker, un arzillo mix di roots-rock, southern rock, boogie, hillibilly e qualche ballata sciogli cuore. Cantano in tre, il chitarrista Corey Parsons,  il banjoista Stephen Pierce e la vulcanica Mary Beth Richardson, la Janis della situazione. Proprio l'alternanza delle voci permette una varietà che non guasta e pur non essendo propriamente originali si lasciano ascoltare con piacere vagando con una certa anarchia tra un sanguigno boogie sudista e l'hillibilly gotico dei primi 16 Horsepower, il roots-rock agro-urbano dei Drive By Truckers e qualche atmosfera bucolica che allenta la tanta energia e l'atteggiamento fuorilegge di questi Banditos.
Un pimpante disco di blues arriva da uno che ha 82 anni e ha già realizzato tra live, studio e quant'altro, 62 dischi. Lui è John Mayall ed il suo Find Way To Care dimostra come il blues sia un elisir di lunga vita. Mayall è uno straordinario cantante/musicista "fresco e vivace" anche alla sua età, qui lo dimostra con una band ridotta all'osso che lo segue come un segugio mentre lui si limita a qualche colpo con l'armonica e la chitarra per dedicarsi in lungo ed in largo al pianoforte e all'Hammond. Il risultato è un blues che mette insieme vagiti antichi di British blues alla Spencer Davis Group, primi Moody Blues con la West-Side di Chicago e con Muddy Waters, tutto secondo lo stile e l'inconfondibile voce di un bluesman bianco che a suo tempo è stato innovatore e rivoluzionario ed è passato da pioniere a veterano senza colpo ferire e senza piangersi addosso. Un gigante, un uomo di blues inossidabile ed intelligente, John Mayall di Manchester.

 
Di blues si parla anche in due dischi italiani, quello della Gnola Blues Band, Down On The Line, riuscito sforzo di portare il blues a pascolare fuori dal recinto, con un aperto ricorso alle ballate, tutte eccellenti, e ad un rock melodico, naturalmente tinto di radici blue, che può far storcere il naso ai fondamentalisti del genere ma soddisfa il palato eretico di quanti trovano il blues anche nei Rolling Stones, in Graham Parker, nella Frankie Miller Band, in John Hiatt, Ry Cooder e Sonny Landreth. Consigliato in macchina a volume alto. Contiene una personale versione di Ventilator Blues e in due brani c'è l'inconfondibile tocco di Chuck Leavell. Il secondo disco è quello di Paolo Bonfanti, genovese trapiantato a Casale Monferrato, anche lui ultimamente annoiato di solo shuffle e ortodossia in dodici battute. Nel suo nuovo disco Back Home Alive  rilegge con la sua band alcuni brani della sua passata produzione rivestendoli di nuove sonorità e rivisitandoli con nuovi arrangiamenti, spesso arditi e coraggiosi.  Un ruolo centrale la gioca la fisarmonica (Roberto Bongianino) che dona all'intero set un deciso orientamento roots, accentuato dal lavoro di Steve Berlin (Los Lobos) come produttore. Il mood è puro roots rock americano, tra intenti cantautorali (le canzoni di Bonfanti) e attitudine da rock band tra Lobos, Blasters e sapori louisiani, con cover centellinate tra Who (The Seeker), Van Morrison (A Nickel and A Nail) e Grateful Dead (Franklin's Tower). Due dischi che dimostrano la maturità di quella generazione di bluesmen italiani ormai maturi nelle loro escursioni oltre confine
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I Lucero sono una band che agli estimatori del roots-rock o alternative country è sempre piaciuta sebbene non abbiano mai raggiunto lo status e la brillantezza dei Drive By Truckers e nemmeno un disco che si elevasse verso l'olimpo. All'inizio erano troppo punk per il classic rock, poi hanno ridefinito il tiro e nel 2009 si sono accorti di essere una band di Memphis quando per l'album 1372 Overton Park  hanno ingaggiato una sezione fiati e hanno allargato il loro alternative country-rock verso i paesaggi sonori della città occhieggiando alla Stax. Prima di allora si erano segnalati per una onesta e sincera attitudine con  un rock urgente  e aggressivo, qualche volta a ridosso di sonorità garage ma il disco della svolta è stato proprio quel lavoro del 2009, intitolato come il parco di Memphis attorno al quale è girata la loro gioventù e la loro voglia di evadere con la musica. Dopo 1372  Overton Park  c'è stato Woman & Work  ma non ha avuto lo stesso impatto sebbene la strada fosse la stessa e la voce di Ben Nichols, chitarrista e leader del gruppo, una volta di più rovesciasse con quel timbro aspro e disperato la sua inquietudine ed il suo essere fuori posto sempre e comunque, a meno di non trovarsi in un romanzo di Cormac McCarthy. Autore tanto amato dal nostro al punto da dedicare al suo Meridiano di sangue un mini album di ballate collocate negli orizzonti infuocati del West. Da quel disco e dalle radici memphisiane espresse negli ultimi lavori, nasce il nuovo disco All  A Man Should  Do  forse il lavoro più ponderato ed intimista dei Lucero per quella verve balladiera che accompagna tutte le tracce del disco, sottolineate dal continuo e minuzioso lavoro di pianoforte di Rick Steff membro originario della band e mattatore del disco, artefice di un sound  meno aggressivo e rutilante e più avvolgente. Se difatti 1372 Overton Park  faceva sfoggio di un'euforia ed una grinta che si appoggiavano su sferragliate chitarristiche da garage band e sul potente innesto fiatistico all'insegna di un viscerale e primitivo rhythm and blues, All A Man  Should  Do  smussa gli angoli e più che il lavoro di una band sembra il frutto di un ispirato songwriter con tutte quelle aperture melodiche, quel fine lavoro nelle armonie, quelle ballate malinconiche e crepuscolari e quello struggersi nella dualità delle relazioni e del sentirsi invecchiare. Ben Nichols, l'autore dei testi, e Rick Steff hanno scelto di cambiare copione e hanno trascinato con loro il resto della band, ma non hanno tradito le loro origini perché se brani come They  Called Her Killed  con quella fisarmonica persa nei rimpianti, la dondolante e armoniosa Baby Don't You Want Me e il  nostalgico racconto di Went Looking For Warren Zevon's Los Angeles sembrano spostare ad ovest il loro baricentro  oppure la dolce I Wake Up In New Orleans fa capire come i Lucero si collochino in quella tradizione di american bands tutte strade&motel, altri numeri come Young Outlaws, Can't You Here Them Howl  e la splendida, conclusiva My Girl and Me In '93  sciorinano tutta una tradizione memphisiana nell'arrangiare i fiati e nel soffiare trombe e sax come fecero gli Stones dei primi settanta e come avrebbero voluto fare i Drive By Truckers country-soul di The Big To Do  e Go-Go Boots . Il limite del disco è una certa ripetitività melodica sia nella voce sia nelle sottolineature dall'onnipresente pianoforte, ma è un disco interessante. Ascoltatelo prima in rete prima di comprarlo.
 

Anche 3 Shots degli Hollis Brown è un buon dischetto anche se ai recensori della rivista su cui scrivo non è piaciuto molto. Il fatto è che il nuovo lavoro è molto diverso da Gets Loaded con cui la band rileggeva integralmente Loaded dei Velvet Underground mettendoci una verve garagista da Paisley Underground e creando una atmosfera da attrazione fatale. No, 3 Shots è molto diverso, soprattutto perché smussa il loro dark side a favore di un approccio melodico e soul molto più marcato. E' vero che davanti ad alcuni brani si rimane un po' basiti, ad esempio in Death Of An Actress sembra di sentire Leo Sayer e Sweet Tooth ha una percentuale di zucchero tendente alla glicemia, ma in altri momenti, e mi riferisco  a Wait For Me Virginia e a Sandy, l'equilibrio tra dolcezze e rock n'roll funziona anche con qualche innesto di sax e trombe, una voce che si fa soul ed echi byrdsiani. Non mancano episodi da blue-collar band, Rain Dance ha ritmo, svacco e sporcizia. Johna Wayne  cavalca tra impennate elettriche furiose e deliranti e pause acustiche mentre in controtendenza la title track evoca i Fleetwood Mac californiani. In fondo è vero, 3 Shots non ha un vero focus ma il disordine degli Hollis Brown mostra  creatività ed una evoluzione tutta in divenire. Almeno speriamo.


All'inizio faticavo a capire la grandezza di un disco come Ashes & Dust di Warren Haynes coi Railroad Earth, la jam band bluegrass più popolare d'America. Mi sembrava come mettere insieme il limone col cioccolato, ovvero la voce bluesy di Warren Haynes, la sua chitarra ribollente, coi violini, le corde acustiche e i mandolini agresti dei Railroad Earth, un connubio che strideva e non creava amalgama. Due corpi a sé. Sono bastati quattro ascolti per ricredermi, quella di Ashes & Dust  è grande musica, questo è un grande disco e ve lo dice uno mai troppo accondiscendente verso i suoni country oriented. Ma qui c'è il blues mascherato da hillbilly, c' è la stoffa del songwriter, c'è il ricercatore che va a riscoprire nella sua North Carolina gli autori di canzoni che lo hanno influenzato (Ray Sisk, Malcome Holcombe, Larry Rhodes), c'è il retaggio della musica celtica e della musica di montagna ma anche il jazz acustico e l'american cosmic music, c'è insomma una visione a 360 gradi che consente a Haynes, ben appoggiato dai Railroad Earth, di uscire dal suo sterminato background rock/blues per rivelarsi come un musicista a tutto tondo, il più creativo musicista che la musica americana ha espresso negli ultimi vent'anni. E questo basta per consigliare a chiunque Ashes & Dust, il mio personale summer of 2015 record, tra jam pseudoacustiche (l'immensa Spots Of Time), echi di Higway Call di Dickey Betts, ballate intimiste, scampoli dei Dead unplugged, melodie da songwriter  e l'ombra di un'America rurale affascinante e misteriosa. Perfino l'episodio west-coast pop di Gold Dust Woman di Stevie Nicks, cantata con Grace Potter come fossero i Fleetwood Mac di Rumours.
 

Una ristampa per chiudere il capitolo dischi. Molto si è scritto e detto a proposito della ristampa di Sticky Fingers dei Rolling Stones. Tutto Ok, quello è uno dei capolavori della loro discografia e di tutta la storia del rock,  ma per l'ennesima volta l'appassionato che ha acquistato l'edizione super-deluxe si è sentito prendere per i fondelli. In quella edizione, che costa la bella cifra di 100 euro e passa, oltre agli show della Roundhouse di Londra del marzo 1971 e di Leeds dello stesso mese, veniva incluso  nel DVD allegato un assaggio del concerto  tenuto al Marquee di Londra dello stesso marzo. Due brani e stop. Alla faccia di chi ha acquistato la super deluxe edition, viene pubblicato nemmeno un mese dopo ad un prezzo molto ragionevole il CD+DVD Rolling Stones From The Vault- The Marquee Club Live in 1971 che riporta interamente tutto quel concerto al Marquee, una specie di opera d'arte visiva e audio di cosa fossero gli Stones prima di emigrare in Francia.  Una band in cima al mondo, non per i soldi ma per il rock n'roll, una band che aveva bisogno solo di attaccare la spina e stappare una bottiglia di Bourbon per mandare l'ascoltatore in orbita e far capire quanto potente sia il rock n'roll in quanto ad eccitazione, capace di suscitare uno stato emotivo di esaltazione/benessere pari a quello che si prova quando si "conquista" ( donne perdonatemi il maschilismo, ma stiamo parlando degli Stones) una donna. E' solo un'oretta di musica, perché lo show è uno special televisivo allestito per invitati e addetti ai lavori ma basta e avanza. Midnight Rambler non è mai suonata così disordinata e carica, Live With Me è una fucilata rhythm and blues che fa saltare le fondamenta della Stax, Bitch è sporca da morire e Jagger è lì sul palco non per fare l'attore ma il più sfrontato e straordinario frontman che il rock ricordi. Obbligatorio l'acquisto.
 

Dai dischi ai libri, anzi ai libri di due amici. Una marchetta? Non ho nulla da guadagnare se non una bevuta con Denti ed un "grazie Zambo" da Cerbone. Due libretti usciti da qualche tempo e non hanno certo bisogno della mia segnalazione. Il primo è Non Siamo Qui Per le Caramelle,  già in ristampa visto che gli esodati (a proposito è talmente una parola fuori senso che anche il correttore di word me la segna come errore) del sud Milano sono tanti. Marco Denti ha raccolto la testimonianza di questi dimenticati del capitalismo in crisi e ne ha costruito una sorta di romanzo alla Kurt Vonnegut raccontando per filo e per segno quello che nel dicembre del 2011 un governo eletto solo da Presidente della Repubblica ha decretato per migliaia di lavoratori in procinto di andare in pensione. Ovvero ha condannato all'invisibilità lavoratori con un passato di contributi regolari  coniando un termine fino all'ora non compendiato dal vocabolario della lingua italiana: ESODATI. Marco racconta il loro travaglio senza pietismo ed indulgenza, come fosse una fiction, ma cazzo è una cosa vera anzi verissima, uomini che sono diventati fantasmi irrequieti, identificati con un codice, che hanno vagato, pregato, urlato, bussato, non in cerca di una terra promessa ma del futuro che è stato loro negato con una firma e una legge della repubblica, proprio in procinto del loro arrivo alla pensione, togliendoli di fatto dal mercato del lavoro. Un romanzo agghiacciante, che fa incazzare e lascia attoniti, pura fantascienza se non fosse la più cruda real politik del nuovo millennio. Il miglior blue-collar book dell'anno.
 

Di altro tenore è America 2.0 di Fabio Cerbone, uno che di America se ne intende visto che è l'animatore ed inventore del sito Roots Highway e l' autore di libri come Levelland, nella periferia del rock americano. La sua conoscenza dell'universo americano è squisitamente letteraria e musicale ma approfondita e ciò gli ha consentito di scrivere un libro che a partire da canzoni entrati nell'universo della musica a stelle strisce più vicina al mondo dei blue collars, degli hobo, dei ramblin' gamblin men, dei beautiful losers, racconta di una grande illusione finita nel macero dei sogni perduti. La minuziosa conoscenza della materia musicale ed una indubbia capacità descrittiva  permettono a Fabio Cerbone di accompagnarvi dentro le storie di cui prima avevamo sentito solo i suoni, le parole e le note e adesso ne cogliamo il respiro, i drammi, le vicende umane, i travagli. Così lo splendido racconto di Nella Valle di Tecumseh basato sull'omonima canzone di Townes Van Zandt sembra  un noir che crea un'attesa spasmodica e La Scheggia, costruita attorno a Sam Stone di John Prine, è la più cupa e drammatica cartolina del post-Vietnam che l'America di provincia potesse inviarci. Non sono gli unici racconti a coinvolgere, bellissimo è anche La Cadillac di Elvis basato sulla canzone di John Hiatt Tennesse Plates e pure Qualcosa di grande, liberamente tratto da Something Big di Tom Petty ha il potere di portarvi dentro una storia che ben riflette gli umori della canzone  da cui Cerbone ha tratto l'ispirazione. Altri racconti sono più didascalici e sono contornati da un romanticismo un po' calcato, quel romanticismo degli ultimi però che appartiene di diritto a questa musica di perdenti che richiedono dalla vita la propria chance di riscatto. Perché  l'America che piace a Cerbone e a noi non è quella dei vincitori e della forza, ma è quella che si ritrova nella grande illusione tradita, che amabilmente Fabio Cerbone racchiude in un libro sapientemente strutturato come un vinile, ovvero una Side One coi raccomti dell' Heartland  e di Down The Promised Land, ed una Side Two con  Drive South, Into The Desert e Way Out West. Sedetevi in poltrona allora, infilate il CD con una canzone di Kris Kristoffersson, o Dave Alvin o Tom Waits o ancora meglio appoggiate la puntina su quei vinili, aprite il libro e iniziate il viaggio. Dentro le mura della vostra stanza vi apparirà l'America come l'avete ascoltata da una vita.

Questo post è dedicato ad uno dei più grandi artisti del rock n'roll, vissuto per le nostre emozioni. William Paul Borsey Jr. alias Willy DeVille di Stamford, Connecticut, 25 agosto 1950- 6 agosto 2009.

MAURO ZAMBELLINI