lunedì 30 maggio 2016

ROCK N' ROLL

 

Esistono ancora i dischi di rock n'roll ? Beh, a dire il vero si fa sempre più fatica a trovarne, visto che il genere si è distribuito in cento diramazioni e sono le etichette a tenere banco, da americana all'alt-country, dalle jam band allo stoner rock, dall'indie-rock al nuovo hard-rock, tanto per buttarne lì qualcuna, mentre i dischi che propongono il vecchio verbo, con tutte le contaminazioni possibili ma sempre portatori di quel blend fatto di ganci elettrici, solide ritmiche, riff serrati e ballate che spezzano il cuore, sono sempre più rari. Certo, per chi scrive, è rock n'roll il magnifico doppio album The Ghosts of Highway 20  di Lucinda Williams nonostante siano le ballate dolorose e le atmosfere malinconiche e rarefatte a costituirne l'ossatura, e non azzardatevi a nominate il termine americana alla Williams, vi guarderà in cagnesco, e così lo è anche un altro disco di ballate, ovvero A Cure For Loneliness  di Peter Wolf   perché il rock n'roll non è solo velocità, eccitazione e assoli, ma pure riflessione, nostalgia, sentimento. Non escluderei nemmeno  Let Me Get By  della Tedeschi-Trucks Band tra le cose rock, pur col suo melting di soul, blues, jazz e southern music. Oltre a questi titoli, usciti ormai da qualche mese, la produzione di un certo tipo di rock n' roll  più o meno classico latita sommersa dai tanti songwriters, anche nazionali, in circolazione e dalle derive acustiche o pseudo americana che hanno finito per saturare un genere.
 


 Un bel sospiro di sollievo l'ho avuto con il recente Mudcrutch 2  con cui Tom Petty, uno dei pochi rimasti a masticare il vecchio verbo con la classe dei grandi, mostra  di essere sempre sul pezzo.  Qui non è con gli Heartbreakers ma con la sua band delle origini, i Mudcrutch, ovvero la chitarra in mano a Mike Campbell e Tom Leadon, lui al basso, Benmont Tench con organo, piano e mellotron (uno strumento che sembra ritornato di moda), Randall Marsh alla batteria. Nel 2008 era uscito il loro disco-reunion suscitando molto entusiasmo per la sua vena roots mista a qualche episodio vagamente psichedelico (Crystal River) e delle cover da leccarsi le dita ovvero il traditional folk Shady Grove virato rock n'roll, il pimpante standard country-rock Six Days on The Road ed una irresistibile resa di Lover of The Bayou dei Byrds screziata di psichedelia. In Mudcrutch 2  le canzoni sono al contrario tutte firmate da Petty e dai suoi soci, il disco è piacevole, estremamente piacevole nella sua alternanza di rock ariosi e autostradali, ballate dolenti e qualche fiammata country-rock ( come in The Other Side Of The Mountain)  ma, a mio modesto parere, non è pari al precedente. A dirla tutta sembra più un disco degli Heartbreakers che dei Mudcrutch, la voce di Tom Petty ogni tanto si mischia a quella di Leadon e Tench ma è lui che spicca in prima linea, d'accordo che il leader fa a meno della sua Rickenbaker e lavora di basso elettrico ma alla fine l'impressione è quella di avere tra le mani un nuovo disco degli Heartbreakers, meno jammato di Mojo  e meno mainstream di Hypnotic Eye, ma sempre posizionato sui clichè del sound degli spezzacuori. Mancano quegli sprazzi di rock ruvido e provinciale dei Mudcrutch quando si facevano largo in quel di Gainsville, Florida, tra alligatori, country-rock, southern rock ed echi di rock californiano, aspetto che invece non difettava nel "meno perfetto" ma più ruspante disco del 2008. Poco male, è sempre del buon rock n'roll quello che esce da Mudcrutch 2  e di questi tempi non guasta.
 

Chi non sembra esaurirsi mai nel suo rockare la città è Willie Nile, un artista che è diventato una sorta di personaggio da fumetto in bianco e nero ambientato nelle strade di New York (la grafica del suo nuovo disco è eloquente a proposito) col suo look da old rockers never die, col suo tono gagliardo e barricadiero, con la sua consapevolezza di essere passatista ma senza retorica, col suo "essere" tra storie epiche e di disperazione, occupando un posto di merito nella genealogia rock della città, tra Dion, Lou Reed, le New York Dolls, i Ramones e  Bruce Springsteen. Il suo World War Willie   a parere di chi scrive, è forse il suo miglior lavoro da Streets  Of  New York  ovvero dal 2006, un concentrato di serrato e nervoso rock chitarristico con quella vena romantica che gli è propria e quelle aperture melodiche che ti portano in fretta a cantare le sue canzoni. Se Forever Wild in apertura non appare solo il semplice titolo di una canzone ma l'inossidabile filosofia che muove il simpatico ed esuberante rocker di Buffalo trapiantato nella Grande Mela, altre canzoni come Let's All Come Together, Grandpa Rocks, Runaway Girl, Hell Yeah, Trouble Down In Diamond Town proprio con quei titoli esplicitano l'intero suo mondo musicale e la parata dei suoi miti, Clash compresi, oltre a sintetizzare un personale percorso discografico, citando nei riff, nelle melodie, negli sgarri elettrici e nelle delicatezze acustiche, album come Willie Nile, Golden Down,  Streets of N.Y, House  Of A  Thousand  Guitars  e American Ride.   

World War Willie  è un disco vivo e pulsante, pieno di entusiasmo e di quel rock urbano d'autore che un tempo faceva proseliti e oggi è relegato nelle backstreets, un disco che in barba alla modernità si chiude con una emozionante Sweet Jane,  un modo per ricordare che l'ultimo santo rimasto in città è proprio lui, il piccolo Willie Nile.
 

 

Dall'altra costa americana arriva The Record Company, un terzetto formato dal chitarrista, cantante e armonicista Chris Vos, dal bassista e cantante Alex Stiff e dal batterista e pianista Marc Cazorla. Sono di casa a Los Angeles e sono riusciti a sopravvivere alla dittatura hip-hop, col loro unico album (prima c'erano stati alcuni Ep) intitolato Give It Back To You  dimostrano che ci sono giovani resistenti che ancora vanno in fibrillazione per Stooges e Rolling Stones, John Lee Hooker e Hound Dog Taylor. Possiedono l'immaturità dei coraggiosi ma sono freschi da morire, frullano i grandi vecchi con un'attitudine da teppistelli urbani pronti a far saltare in aria il club sotto casa, hanno  verve e masticano alla maniera di un chewinggum un rock n'roll tinto di beat e di blues. Sono la risposta americana agli Strypes, ritmica secca e concisa, quasi da Violent Femmes, l'armonica di Chris Vos ci mette una generosa dose di blues e di Yardbirds, la sua voce è credibile anche senza essere roca e disperata, la chitarra morde e lascia il segno senza essere un miracolo di tecnica. In qualche traccia, ad esempio On The Move, c'è parvenza di Black Keys prima maniera ma per ora La compagnia del disco non pare interessata a diventare trendy, anche la copertina e la grafica di Give It Back To You rimandano agli anni del vinile e del rock pionieristico, quando il blues costituiva per i giovani metropolitani una preziosa fonte di ispirazione. Senza eccedere nei volumi ma badando a non disperdere nulla della loro freschezza, i tre suonano con quella ingenuità e quel contagioso spirito da esordienti che spesso rendono una squadra di serie B più divertente di tante squadre di zona Champions. Sentire il groove incalzante di Feels So Good, l'ipnotico boogie di Turn Me Loose, il drive semiacustico di Give It Back To You con cui cantano di una California scivolata a Detroit, di This Crooked City un ballata evocativa che sale come fosse Atlantis di Donovan e di In The Mood For You  dove Stones e John Lee Hooker sono mixati con quella spregiudicatezza che anni fa apparteneva ai bravi ma fugaci Red Devils. Un finale selvaggio per un disco che è una boccata di aria fresca.
 

In tre sono anche Moreland & Arbuckle e Simo. Il trio del Kansas arriva al sesto disco, il chitarrista Aaron Moreland, l'armonicista e cantante Dustin Arbuckle ed il batterista Kendall Newby ripropongono invariata la loro mistura di gritty blues and roots rock from the heartland, graffiante sound di straordinaria compattezza che coniuga l' asciutto gesto bluesy di una trio da juke joint con gli sporchi riff di una garage band. Contemporaneamente tradizionali e moderni, Moreland & Arbuckle sono strutturati come un trio senza basso sull'esempio del maestro del genere Hound Dog Taylor, posseggono l'energia dei primissimi Black Keys e suonano un solido e serrato rock/blues  con tanto di aperture roots e pause melodiche da ballata heartland. La loro lenta ma costante evoluzione che li ha portati ad una delle etichette storiche del blues, la Alligator, non ha scalfito la natura di band underground ad alto numero di ottani, che non sfigura in un festival blues come in un club di rock alternativo. Non sono indie per intenderci ma posseggono lo spirito ed il basso profilo di chi si è fatto la gavetta sulla strada lontano dagli uffici discografici, nei concerti, nei festival, lavorando sodo e assimilando i diversi linguaggi del blues, dal North Hills Mississippi Blues al Delta Blues, dal blues rurale a quello urbano di Hound Dog Taylor, per poi riversarli in un sudato rock provinciale.  Dopo 7 Cities,  sorta di concept album basato sulle imprese del conquistatore spagnolo Francisco Vasquez Coronado nel 16mo secolo in America,  la loro discografia si allunga con Promised  Land or Bust , la terra promessa o la rovina, un vero e arzillo B-record fatto di rabbia e grazia, tensione e sarcasmo ( in When The Lights Are Burning Low attenti a quella donna che ha bad intentions behind bedroom eyes), una escursione simil-jazz (Why'D She Have To Go ) e la potente rivisitazione di I' m a King Bee di Slim Harpo. Dal Kansas, cuore e muscoli, il loro disco migliore


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Una bella storia rock è quella di J.D Simo, americano di Chicago che all'età di dieci anni è già in grado di suonare la chitarra nei bar della città. Nato  nel 1985, a quindici anni, abbandonata la scuola si trasferisce a Phoenix, Arizona e con una prima band incide un Ep dal vivo che vende cinquemila copie.  Vive per sei anni  sulla strada dormendo in un van, poi arriva a Nashville e trova occupazione prima come chitarrista nella Don Kelley Band e in seguito come sessionman negli studi della Music City. L'incontro con il batterista Adam Abrashoff ed il bassista Frank Swart lo convincono a formare un power trio sull'esempio di quelli in auge negli anni settanta. D'altra parte è cresciuto con una dieta di British Blues e blues del Delta anche se la folgorazione è avvenuta quando a soli cinque anni ha visto uno special sul comeback del '68 di Elvis Presley. La sua vita è un susseguirsi di avvenimenti a cascata, prima in giro a suonare con la sua band imitando i bluesmen della Chess, poi la scoperta di Steve Cropper e del rhythm and blues, infine l'assestamento del trio con Elan Shapiro al posto di Swart. Sudano, mangiano da schifo e si fanno le ossa nei bar della provincia americana e nei festival, partecipano al Mountain Jam e al Bonnaroo,  ci mettono l'anima e il sangue in quello che suonano e acquisiscono una sinergia perfetta, fino a pubblicare all'inizio del 2012 un disco a nome Simo. I tre sono tutt'uno, J.D rifiuta  di essere il leader ma il nome del trio è il suo, l'amalgama è grandiosa anche se ognuno è libero di improvvisare e di aggiungere di suo ad un sulfureo concentrato di rock/blues psichedelico con deviazioni hard.  Quando è il momento di pensare al nuovo disco succede il fatto che cambia la storia, i tre hanno pronto un po' di canzoni e scelgono di registrarle nientemeno che alla Big House, la casa-comune in cui vissero gli Allman tra la fine dei sessanta e l'inizio dei settanta a Macon in Georgia. E per l'occasione J.D Simo  imbraccia la storica Les Paul del 1957 di Duane Allman, un onore che condivide solo con Warren Haynes, Derek Trucks e Neels Cline di Wilco. La casa e la chitarra infondono una particolare chimica alle registrazioni, il piano originario di un album già in cantiere salta in aria, in meno di 48 ore  Simo registrano dodici nuovi pezzi in quelle session. Il progetto iniziale viene accantonato e con l'aiuto dell'ingegnere Nick Worley alla consolle la band suona come fosse dal vivo una vulcanica miscela di rock-blues senza darsi misure e limiti. Il risultato è un disco potentissimo e di carattere, magari derivativo ma ugualmente esplosivo, che si colloca tra gli Allman Brothers (basta l'iniziale Stranger Blues per ricordare One Way Out  e poi Ain' t Doin' Nothin'  è una jam strumentale che pare estratta da Whipping Post dove J.D Simo si immola in una estenuante imitazione di Duane Allman), i Led Zeppelin (Let Love Show The Way), i Free e i Gov't Mule, pur con una spalmatura  celtica in un brano.  Let Love  Show  The  Way, questo il titolo dell' album, è come la copertina, colorato, ingenuo, psichedelico, esuberante, un disco che non appartiene a questa epoca perché selvaggio, libero, vibrante, come lo erano le registrazione tra i sixties e i seventies prima che le case discografiche prendessero in mano la situazione imponendo agli artisti i loro diktat commerciali. Qualcosa di loro ricorda gli altrettanto spontanei e bravi svedesi Blues Pills ma qui il sound è decisamente americano, compreso qualche affondo southern rock ed un paio di episodi acustici di ottimo livello, il calmo e pastorale  country-blues di Today, I'M Here  e la dolce cover di Please Be With Me di Eric Clapton. Per chi fosse interessato o semplicemente curioso, sappia che Simo apriranno il concerto dei Blackberry Smoke al Carroponte di Sesto San Giovanni il 29 giugno.
 

 

Calda merce southern è rimasta in Flux  il terzo disco di Rich Robinson, il quale sembra essere il vero erede del sound dei Black Crowes, più che i viaggi cosmici del fratello Chris, i cui Brotherhood viaggiano a duemila anni luce lontano da casa. Rich Robinson non ha tagliato i ponti con il rock dei Corvi Neri anche se la voce non è certo quella da "predicatore delirante soul" del fratello e come rivela il suo nuovo disco anche lui si prende la licenza di divagare, spaziando tra gli aromi del rock sudista e reminiscenze di Stones, aperture West-Coast e qualche fraseggio folk, sprazzi di psichedelia e tentativi prog. 

 Un disco, Flux, che conferma l'amore del meno famoso dei fratelli Robinson al rock anni settanta, pur adattandolo ai tempi odierni e rendendolo fruibile per una nuova schiera di ascoltatori. Se come cantante Rich Robinson non è certo memorabile, come chitarrista ha numeri da vendere, sia con l'acustica che con le elettriche, e come autore migliora a vista d'occhio anche se gli manca quel quid che nei Black Crowes  significava canzoni che si memorizzano con la velocità dei classici. Ma Rich Robinson è questo, prendere o lasciare, la sua voglia di musica si traduce in un flusso sonoro che attraverso tredici brani esplicitano la sua ricerca, qui aiutato da una band che non lesina in tastiere, organo e pianoforte (Matt Slocum, Marco Benevento e Danny Mitchell) e voci di supporto (John Hogg e Daniela Cotton) oltre alla tosta sezione ritmica di Zak Gabbard (basso) e Joe Magistro (batteria). Il disco è stato registrato come i precedenti agli Appllehead Studios di Saugerties, località dello stato di New York nei pressi di Woodstock ed è un continuo crescendo di cambi di marcia, di umore e di improvvisazione quanto mai significative. Per tale motivo risulta un vero flusso sonoro dove le canzoni sfiorano la jam, seguire l'istinto del momento, così da fluttuare con spontaneità dal funky di Shipwreck al groove di The Upstairs Land, dal gospel di Everything's Alright al blues distorto e scorticato di Which Your Way Blows, incrociando brani come Ides of Nowhere in cui l'iniziale inciso di chitarra tra flamenco e Laurel Canyon finisce per divenire un'idea per qualcosa di progressivo e sperimentale, e come Astral  la migliore traccia  dell'album con il vento della West-Coast e le chitarre dei Corvi Neri.

Rich Robinson si concede pure il vezzo di un singolo, Music That Will Lift Me, una sorta di frizzante ballata rock che si sviluppa su un assolo di chitarra alla Stones era Tattoo You.  
 
 

 

Altra natura quella degli Hard Working Americans una sorta di supergruppo formato dal cantante Todd Snider, dal chitarrista di Chris Robinson Brotherhood Neal Casal, dal fratello più giovane di Derek Trucks, il batterista Duane Trucks, dal bassista degli Widespread Panic Dave Schools, dal tastierista Chad Staehly, ai quali si è aggiunto in questo disco il chitarrista Jesse Aycock. Il loro esordio risale al 2014 con l'album omonimo, da allora sono sempre stati in movimento suonando in lungo ed in largo per gli Stati Uniti, tanto da registrare Rest  In  Chaos   durante il tour, in una pausa a Chicago e a Nashville, città dove risiede il portavoce della band, Todd Snider.

Il loro primo album era costituito praticamente solo da cover, questo nuovo disco è tutta opera loro ad eccezione della ripresa di The High Of Inspiration dell'appena scomparso Guy Clark. Lo stile non è  cambiato ovvero una robusta riproposizione di rock americano appena venato di roots, con in primo piano la voce roca e malinconica di Snider e dietro una solidissima band elettrica. Se The First Waltz,  il CD/DVD che raccontava la loro vita on the road,  per via della sua natura  live, era caratterizzato da versioni spesso tendenti alla jam, il gruppo in copertina omaggiava esplicitamente Jerry Garcia definendolo importante tanto quanto Beniamino Franklin, le tredici canzoni di Rest In  Chaos  mantengono una dimensione più ridotta rispecchiando il lavoro collettivo di un songwriter con la propria  band. Quindi ballate, anche meditative e riflessive, come l' iniziale, bellissima Opening Statement, resa evocativa dalla lap steel di Jesse Aycock, e It Runs Together, pervase da una malinconia seducente e da un disincanto verso il mondo circostante, specchio delle vicissitudini esistenziali di Snider, un lungo periodo nella tossicodipendenza dopo il boom degli anni novanta. Che le ferite siano ancora aperte lo si evince da brani come Dope Is Dope  e Roman Candles  in cui il nostro tratta la materia con fin troppa cognizione di causa, senza però cadere in commiserazione, piuttosto mantenendo quella lucidità che, per esempio, contraddistinse nel passato Steve Earle. Il quale, assieme a Jerry Jeff Walker e John Prine, è un po' il punto di riferimento del songwriting di Snider, caustico al punto giusto e pure capace di ironia e di una qualche  reazione contro le sconfitte e le scivolate della vita.

Ma Rest  In  Chaos  non è un disco di Todd Snider, la firma è quella degli Hard Working Americans, una band che vive attorno alla massiccia sezione ritmica di Trucks e Schools e agli svolazzi e ganci  di Neal Casal, un chitarrista che ha fatto passi da gigante ed è oggi uno dei sideman più personali in circolazione,  lirico e crudo al tempo stesso, bluesato e psichedelico, misurato e aggressivo a seconda delle occasioni. Se la voce ed il cuore li mette  Snider, il sound lo creano Casal e gli altri e allora gli stacanovisti americani sono una blue- collar band cattiva, sporca e determinata che evoca tanto gli Heartbreakers di Tom Petty versione Mojo, quanto del muscoloso pseudo rock-blues, il folk per sola voce e chitarra acustica della commovente The High Price of Inspiration di  Guy Clark e le cose più country di Neil Young, la caotica psichedelia di Acid e l'heartland rock di Purple Mountain Jamboree. Puro rock americano con sciabolate elettriche e confessioni da songwriter, un rotolare contagioso di strade, chitarre,  motel, energia e l'orgoglio di felici operai del rock n'roll.

MAURO ZAMBELLINI   primavera  sound 2016