Lo stato delle cose: Bruce
Springsteen e il declino dell’impero americano
Non c’è stato nessuno più
prigioniero del rock’n’roll di Bruce Springsteen, perché alla base del
rock’n’roll c’è l’idea di una sfida, di una fuga, più di ogni altra cosa, di
una promessa, per cui ha dato tutto. Una prova celebrata nelle continue
metafore automobilistiche delle “macchine da suicidio”, da Thunder Road a
Racing in the Street fino alla definitiva sublimazione di The Promise.
Ma non è solo la strada: è correre nelle alleanze dell’amicizia, con l’idea di
muoversi insieme, la voglia sfrenata di attraversare lo spazio e il tempo come
mezzo per ritrovare, anche solo a livello epidermico, una via di scampo dalla
realtà e nello stesso tempo un mezzo per sentirsene parte. Non erano
competizioni semplici. Le gare erano affronti ai motori, agli altri
concorrenti, ai trucchi più o meno leali, alle città. Erano prove di coraggio:
la paura di non arrivare o di perdere non era contemplata. La messa a punto
comprendeva anche la misura delle speranze, il chiarire dei sogni e delle
illusioni. Ogni notte, ogni volta. Springsteen ha avuto un coraggio immane, e
mai abbastanza riconosciuto, nel rincorrere quel miraggio. È la terra promessa
senza la terra, è la sfida senza la gara, è esplodere senza scoppiare.
Negli anni il racconto di Springsteen è stato molto,
molto dettagliato, e si è sviluppato coltivando un’ossessione che ha trovato la
collocazione definitiva e insuperata nello psicodramma dei suoi concerti, ma
che restava pur sempre una promessa e in quanto tale irraggiungibile. Bruce
Springsteen ha spinto al massimo nella direzione sognante del rock’n’roll e si
è consumato, nel senso vero e proprio della parola, perché nessuno si è speso
più di lui per il proprio pubblico con un apice, volendolo trovare, in No Nukes,
nella condivisione di quel fantastico rituale con Jackson Browne e Tom Petty.
Ciò non di meno ha insistito nell’infondere energia su energia
nell’inseguimento di quel miraggio che resta un’attrazione magnetica, e per
dirla con il protagonista di The River, ha
continuato a scendere al fiume pur sapendo che il fiume ormai era asciutto. Il
senso del rock’n’roll è tutto nell’espressione di un desiderio che avrebbe
trovato un’ultima spiaggia nella malinconica destinazione di THE RIVER,
in particolare nelle ballate della seconda e conclusiva parte, che in qualche
modo conducevano a NEBRASKA e a BORN IN THE
U.S.A., e lì la corsa è finita.
C’è un vecchio film, Copland, dove il protagonista si mette
ad ascoltare Stolen Car, mentre tutto il suo mondo gli si sgretola at- torno
senza pietà. È quell’atmosfera crepuscolare, da Mansion on the Hill a My
Hometown che riporta inevitabilmente al
paesaggio del New Jersey, che si è sfaldato. La decadenza, anche architettonica
e urbanistica di quegli scorci di provincia, diventati una de- solata landa
suburbana, è andata in parallelo. In quel frangente, Springsteen si è rivelato
una voce potente, quando la terra promessa si è svelata in un intreccio di
raccordi autostradali e centri commerciali perché come scrive Richard Ford “il
mondo diventa più piccolo e più concentrato quanto più a lungo vi restiamo”, ed
è rimasta solo una città in rovine.
È stato un grande storyteller che ha costruito le
canzoni come piccoli film, quindi sempre con una prospettiva più vicina alle
immagini che alla parola. Ciò non toglie nulla all’altissima qualità del- la
sua narrativa, pur nelle mutazioni seguite nel corso degli anni,
dall’esuberanza colorita e beatnik degli esordi fino all’apoteosi di BORN TO RUN e
alle riflessioni più mature di DARKNESS ON
THE EDGE OF TOWN, THE RIVER e NEBRASKA, ma i paesaggi che stavano sullo
sfondo si sono incupiti e la terra della speranza e dei sogni è rimasta
un’illusione, o un bel tema per una canzone.
Nell’affrancarsi dalla desolazione di quei territori,
sono apparse trame più crude, ma anche più distanti. Le crime story di Murder Incorporated e Code of
Silence: nel corso degli anni,
fuorilegge e delinquenti si sono susseguiti in molte canzoni perché Bruce
Springsteen ha costruito delle miniature molto efficaci, rendendo persino
comprensibile la loro umanità. Nei primi versi di Atlantic City comprime
la vicenda di un personaggio che da solo è sufficiente a rappresentare il lato
oscuro e noir del songwriting di Springsteen, capace di creare un’intera
canzone a partire dal titolo di un giornale, guardandolo da una prospettiva
inedita e trasformandolo in una storia a parte. Non è da tutti. Ha saputo
trarre dalla fiction la forza ideale per raccontare la realtà americana del
ventesimo secolo ed è indiscutibile che si sia speso anche nell’approfondire
tematiche introspettive, come nell’intero TUNNEL
OF LOVE o con una rilevanza storica e
sociale come in THE GHOST OF TOM JOAD, American
Skin o Devils & Dust, o persino
fantasmagoriche come Outlaw Pete (compreso il libro a fumetti) o Hunter of Invisible Game, tutti tentativi di trovare altre soluzioni, ma
spesso dai risultati controversi. Il suo sogno restava sempre un altro.
In fondo tutti gli immaginari
sono circoscritti e definiti perché è proprio lì che indugia il lavoro
dell’artista. Il nocciolo della questione rispetto a Springsteen è che questa
continua invocazione della primordiale promessa emana una luce, un abbaglio che
gli altri non hanno, ma che poi è proprio come tutti gli altri, limitato lì.
Questa è la contraddizione, in fondo. Quel senso che emana dal rock’n’roll e
non ha corrispettivo nella letteratura perché quello che dice una storia è lì,
concluso per sempre (modifichi una storia e diventa un’altra storia), mentre
una canzone è una lusinga reiterata all’infinito. Nessuno (a parte Elvis) come
Springsteen ha interpretato il senso di quel sogno, l’ha cantato e descritto e
immaginato e recitato più e più volte, saltando da una parte all’altra del
palco. E ci ha convinto. Per una parte importante e ingombrante della sua
carriera e della sua vita Springsteen ha fatto di più: ha condiviso le sue
aspettative, il suo sogno, la sua fede e con ogni probabilità i motivi di una
sfida (implicita ed esplicita) che alimentava tutta la sua determinazione. Un
circolo chiuso, in definitiva, ma che ha creato un’attenzione straordinaria del
suo pubblico, a sua volta ricambiata con una generosità e un entusiasmo più
unici che rari.
Per quanto ampio, alla fine, l’immaginario di Bruce
Springsteen è circoscritto, è rimasto qualcosa di molto definito e concluso,
come se Springsteen avesse una visione completa e in qualche modo definitiva.
Springsteen ha ricostruito un paesaggio con una cura famelica del dettaglio.
Dalla sua scrittura, dal suo songwriting in apparenza sembrano evolversi interi
mondi, che in realtà implodono. Il rock’n’roll è evanescente ed effimero ed è
proprio in quei momenti che si vede con un’ottica diversa, quando si capisce
che la sua inutilità tiene insieme le nostre vite, ci salva dalla realtà. È una
prospettiva con tutti gli elementi dell’incognita e della speranza, è una
sfida, è un’illusione, che poi a bene guardare è quel miraggio tutto americano
della terra dei liberi e della casa dei coraggiosi.
I frequenti tentativi di espandere la realtà e la
fiction springsteeniane si sono rivelati dei viaggi in riserva e senza
destinazione. Se serve un esempio valga il caso di Tennessee Jones, con la
raccolta di racconti Liberami dal nulla: basato sulle suggestioni di NEBRASKA,
è forse lo sforzo più ambizioso dal punto di vista letterario, ma ancora peggio
è andata dal punto di vista cinematografico, do- ve gli sforzi per espandere la
forma delle canzoni di Springsteen si sono risolti di norma in piccole
caricature, più o meno ispirate. È mancato il senso stesso del rock’n’roll,
quel desiderio di arrivare da qualche parte (ma dove?) che alimentava il
battito e che una volta arenatosi nella placida sconfitta del “nowhere to run,
nowhere to go” di BORN IN THE U.S.A. si è poi trascinato in osservazioni più o meno
puntuali nel corso degli anni, compresi un capolavoro narrativo come THE GHOST OF TOM JOAD e uno sforzo coraggioso come THE
RISING. Ma la promessa, quella
promessa, è rimasta lì, sullo sfondo, come un’ombra, un avviso, una cambiale
non pagata. L’autobiografia è l’ammissione di quel limite, e non deve
sorprendere che il carattere meditabondo di ciò che è seguito, dalle repliche
di Broadway a WESTERN STARS non fa che confermare i contorni di quell’immaginario
che ha celebrato la promessa, ma non ha saputo ritrovarla. Non doveva nemmeno,
se è per quello.
Bisogna dire che a differenza di suoi emeriti
colleghi, vicini e lontani, Springsteen non ha mai indossato una maschera, non
ha mai interpretato un personaggio né sul palco né su disco, non si è negato
dietro Ziggy, non ha avuto rifugi come Idra, non si è nascosto nella o dalla
folla (anzi). Forse per raccontare le storie, e per conviverci, serve una
distanza di sicurezza che Springsteen non si è mai premurato di avere. Si è
messo alla pari, lui e il suo pubblico, nel realizzare un legame unico, ma ci
vuole un sacco di energia per tenere in piedi l’edificio, e lui ce l’ha messa
tutta. Una scelta spontanea, forse, e limitata, ma senza dubbio genuina, che ha
pagato in termini di energie e ha chiesto un “prezzo che devi pagare”. Deve
essere successo qualcosa del genere.
Parlando degli altri, in realtà Bruce Springsteen ha
parlato sempre di se stesso. Questo attrito, che ha generato una visione
singolare, si è inceppato nel momento in cui Bruce Springsteen ha parlato di se
stesso credendo di parlare anche per gli altri. Forse è solo una sensazione, ma
per spiegarla è utile l’opinione di Laurie Anderson, piuttosto insolita per il
popolo springsteeniano, ma arguta nel cogliere il senso della prospettiva: “Se
vedi Bruce Springsteen dal vivo, ti rendi conto dell’energia e della totalità
dell’evento, mentre se è inquadrato con l’idea di trasmettere una maggiore
intimità con le riprese ravvicinate, si perde tutta l’energia”. Il punto di
vista di Laurie Anderson, ripreso da una discussione con il critico d’arte
Germano Celant a proposito della qualità e della pro- spettiva delle immagini,
è curioso, ma rende l’idea.
Quando
ha deciso di confrontarsi con la scrittura è come se si fosse messo a scrivere
una storia che aveva raccontato un milione di volte e anche lui è caduto nella
trappola di infilarsi in quell’immaginario che era già tutto lì, che aveva già
espresso con le canzoni, con le chitarre, con il sassofono di Big Man, con la E
Street Band e con gli stadi che inneggiavano all’unisono il suo nome come se di
volta in volta volessero ritrovare un vecchio amico tornato da un lungo
viaggio. Spinto da un’esigenza chiaramente personale, Springsteen si è dedicato
al memoir e ne è uscito il resoconto (paradossale, sorprendente) di un uomo nel
confessionale che, per forza di cose, rispolverava storie già raccontate,
aggiungendoci particolari piuttosto intimi e dolorosi, ma incappando, come
tutti gli altri prima di lui, nelle medesime frontiere definite dal suo
immaginario. Il suo memoir si è rivelato timoroso e lacunoso, ma soprattutto
autosufficiente. Forse ha dato voce a così tanti personaggi o ha interpretato
così tanti personaggi da confondere se stesso. È vero che ha dato tutto, ma con
ogni probabilità c’è un prezzo da pagare, e non è relativo. Le aspettative ci
hanno tradito, ma avremmo dovuto ricordare quello che diceva ancora Richard
Ford, cioè che “i romanzi sono una specie di vento che tira i rimasugli della
vita quotidiana dalle strade polverose dove spendiamo i nostri giorni, li fa
avvitare nell’aria creando figure sempre nuove e ce li riporta addosso
lasciandoci lì con un mezzo sorriso sciocco, a chiederci cosa ci sia successo.
A chiederci perché ridiamo e perché piangiamo”. Anche la rilettura
dell’autobiografia nello scenario di Broadway non ha saputo aggiungere altro,
al di là dell’aspetto emotivo. Un anno di repliche è servito a capire che il
grande romanzo americano, quell’eterna balena bianca che fluttua
misteriosamente nel tempo e nei nostri desideri, non solo l’aveva già scritto,
ma l’aveva anche vissuto.
MARCO DENTI
Ok, avevamo già capito tutto questo. Un utile riassunto, scritto in modo scorrevole e piacevole.
RispondiEliminaRestano una miriade di belle canzoni, qualcuna fortunatamente scritta anche in tempi recenti. Non è da tutti
Interessante la lettura di Denti in merito, che tanto fa riflettere e che potrebbe richiedere un secondo ripasso, anche se non lascia dubbi soprattutto in chiusura.Leggendo questo scritto ripenso pure a quanto detto da Mauro in altre occasioni e qui credo stia il punto nevralgico e la cosa che più mi fa pensare a proposito di Springsteen : "la paura della morte e la paura di invecchiare"!?! Per carità nulla di strano in quanto essere umano,ma l'artista credo ci debba saper convivere e non farsi sopraffare più di tanto. Certo ci vuole coraggio (e non parlo di gusti e giudizi personali ) a sfatare il mito in un piccolo teatro o a trovar forse una tragica fine in una squallida stanza di un vecchio motel,va bene la nostalgia dei tempi che furono e ritrovare i vecchi compagni per un altro rendevouz al suono di rock,ma certamente non può durare ancora. E allora credo, che come a suo tempo fece già Dylan...si potrebbe ripartire da tutte quelle voci che hanno abitato le città di quella Repubblica Invisibile e perché no, continuare a raccontare quella America,ripartendo da quei fantasmi, ritrovando magari quella vecchia voce, la sua... e quella sana ispirazione, che ultimamente spesso si è avvolta su se stessa senza trovare altra via d'uscita.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Imtervengo ancora perché ripensavo allo scritto di Denti. Una certa distanza penso,avrebbe forse giovato di più, quella porta che separa l'uomo dall'artista,il privato dal pubblico. Bruce l'ha divelta permettendo all'uno e all'altro di fondersi e di aver fatto entrare noi. Questo non è da tutti e ci vuole un coraggio immenso ma a volte diventa pericoloso,specie quando il tuo pubblico non riesce più a capire se a parlargli è l'uomo o l'artista o dove finisce l'uno ed inizia l'altro. Certo ce lo aveva detto sin dai tempi di " Better Days" o nel gioco fatto di humor di " Local Hero" ma a quel tempo seppe meglio chiudere o quanto aprire certe porte. Ad ogni modo l'arte non conosce limiti ed età e come ci ha sorpreso in passato,potrebbe farlo ancora,seppur con minore frequenza.Tomorrow never Knows.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Livio. Ho sempre apprezzato gli scritti di Marco Denti, appassionato di musica ma anche e soprattutto di letteratura, e mi spiace molto che non collabori più al Buscadero.
RispondiEliminaSapete che io sono uno springsteeniano perso. Continuo a credere che il periodo migliore (suo e della E-St. Band), il massimo della furia\rabbia\speranza\passione\fame, voglia di dare al suo pubblico, voglia di prendere amore da esso, sia il Darkness Tour. Circa 120 concerti in 7 mesi, da giugno a dicembre. Lui 29enne che già sentiva svanire il vento della gioventù, che non avrebbe mai superato il trauma di compiere 30anni, figurarsi i 70!
Già si rendeva conto che macchine veloci e amori disperati non portavano da nessuna parte, che il fascino del viaggio senza meta era effimero e prettamente 'ormonale', da adolescente fuori età, e durava solo il tempo di accendere il motore e partire.
E' proprio questa disperazione sottesa all'apparente spensierata allegria che mi ha sempre intrigato, l'aria di celebrazione di qualcosa di grande ma irrimediabilmente già perduto. La nostalgia struggente dei libri migliori di Stephen King, la magia e il profumo di un periodo irripetibile e mitizzato ben oltre i suoi obiettivi meriti di un film come American Graffiti.
Tutti noi amiamo evocare ricordi di gioventù, x noi tutti la golden age corrisponde al periodo delle scoperte e delle illusioni, alla tempesta ormonale che sconvolge piacevolmente la vita. Qualcuno ci resta disperatamente intrappolato, eterno Peter Pan, e non riesce + a cogliere il bello nel resto dei nostri anni.
Ecco, forse, la chiave della depressione springsteeniana, lui che vedeva darkness on the edge of town già a 29anni. Ed ecco xchè mi è tanto caro, xchè sono disposto a perdonargli (quasi: non WS) tutto. Conosco anch'io, come chiunque, il fascino disperato della nostalgia.
Ed ecco xchè considero un apice della sua arte il Detroit Medley possente e interminabile che esplodeva nei bis del Darkness tour. Canzoni della sua adolescenza che riprendeva quasi con disperazione, chiedendo, urlando loro quelle suggestioni che non potevano + dargli.
Tutto quel che è venuto dopo lo amo profondamente e non lo rinnego. E' stata una corsa (appassionante, sì) ma in discesa.
Se mai uscirà, ascoltatevi il box coi soundboard del '78. E' il meglio del meglio. Nulla più, da Bruce, a quell'altezza.
Quanto sopra sono solo opinioni mie, pensieri in libertà su un artista che mi ha dato tanto, il fratello maggiore che non ho avuto e che, ora che va verso i 72, può anche permettersi di essere un (bel?) po' bollito. Accetto serenamente ogni contraddittorio.
Livio ogni opinione è lecita e da rispettare, sia condivisibile o meno. Io negli ultimi anni in merito all'artista Springsteen mi sono trovato sempre nel mezzo di due correnti. Ho faticato a capire un'operazione come Broadway ma soprattutto per come questa è stata presentata fuori dai teatri. Indecente poi i precedenti High Hopes ed il seguente Greatest Hits seguito " ideale" della sua biografia, ma talmente inutile anche per i completisti. Per contro ho amato Western Stars,complice sicuramente il mio stato d'animo di quel momento. L'uomo invece mi fa quasi tenerezza che quasi sento un'empatia quasi si trattasse di un carissimo amico o un fratello maggiore,ma ad ogni modo credo abbia sconfinato un po' troppo, portando i suoi dolori nel pubblico a volte fuori misura. Non perché sia sbagliato per carità ma semplicemente gli avrebbe giovato una certa distanza,per quanto al tempo stesso credo non sia facile esporsi a quel modo. Certo la magia di un tempo è svanita, potranno solo esserci buoni dischi,ma siccome a volte dalle ceneri si può risorgere qualche buon consiglio,un buon produttore potrebbero fare il miracolo atteso. Penso a Johnny Cash e alle sue American Recordings. Del domani non c'è certezza,vedremo....!?!
RispondiEliminaArmando Chiechi
Ci si gira sempre attorno poi si torna sul luogo del delitto ....sarà Bruce ad avere bisogno del suo pubblico osannante oppure siamo noi ancora disperatamente dipendenti da lui ?
RispondiEliminaLivio. Armando, d'accordo quasi su tutto. In USA, fra le star un po' in declino, è uso fare outing. Non importa l'argomento, conta il clamore, foriero di rilancio. Bruce ha scelto i suoi demoni interiori, ci piaccia o meno. La sua autobio è diventata così una (pesante, x noi) seduta di terapia, quando poteva essere fonte inesauribile di aneddoti, spiegazioni, spunti, sulla sua sterminata produzione, specie degli anni 75-88. Se il periodo + buio (HH, GH, Broadway, e scusa, io ci metto anche WS) è servito quanto meno a farlo parzialmente uscire dalla palude, ok, ben venga. Speriamo in una serena terza età. Anch'io in passato mi augurai trovasse un Rick Rubin a ricostruirgli una carriera, ma non vedo la necessaria umiltà, nè in lui nè, soprattutto, nel suo entourage... Time will tell.
RispondiEliminaBob, lui di sicuro è fan-dipendente ('Do you love me???'). Per noi, x me, è un bel pezzo di gioventù che non vorrei veder svanire in un patetico riproporsi, come se 35anni fossero passati invano. Ma anche fosse, avrà sempre un posto nel mio cuore, e nei miei ascolti: Blood Brother
Ho un debito di riconoscenza con i frequentatori di Zambo’s Place e ho voluto ricambiare l’attenzione, offrendo, in collaborazione con Jimenez Edizioni, il paragrafo/capitolo dedicato a Springsteen da Strade sterrate. È una riflessione che deve molto al colto e civilissimo confronto che è nato tra i naviganti di questo spazio, a seguito della nostra disanima di “Western Stars”, e ringrazio Zambo per avermi ospitato allora, come oggi. Avevo letto tutte le opinioni e mi ero segnato un po’ di appunti per intervenire nella discussione, ma poi ogni volta trovavo nuovi commenti e ricominciavo daccapo. Nel frattempo, le argomentazioni si erano dilatate, ma riannodando quelle note e quei pensieri, e ripensando in continuazione a “The Promise”, è nato questo tentativo di approfondimento che deve molto a tutti voi, e alle passioni che condividiamo insieme. Tra l’altro qualcuno da tempo mi chiedeva un articolo su Stephen King e, alla fine, l‘ho inserito in “Strade sterrate”, e grazie anche per quello.
RispondiEliminaGrazie a te Marco Denti. La mia e credo la nostra stima,interpretando il pensiero di tutti, nasce da anni in cui tramite i vostri scritti avete appassionato una generazione intera, che nelle pagine del Mucchio Selvaggio come in altre affini, hanno trovato prima un rifugio e poi una casa. Una costruzione fatta di meravigliose scoperte e condivisione, di America da strade Blue e libri e film di cui non parlava nessuno. Questo spazio poi è diventato come tu dici un angolo di confronto sano e civile, quello che manca fuori e nella vita di tutti i giorni, uno spazio che grazie al padrone di casa è la casa ideale in cui continuare a parlare con serenità e rispetto come si conviene in una società civile.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Che sorpresa e che piacere avere Marco Denti qui nel blog!
RispondiEliminaOra la circolazione delle nostre idee si può dire conpleta di un altro punto di vista serio e autorevole, anche se non sempre cobdiviso in tutti i suoi punti.
E, rispondendo a Bob, certamente: sia noi che Bruce abbiamo bisogno gli uni dell'altro e credo che lui abbia bisogno di ritrovare quel Bruce degli anni '70-' 80 e lo stia come inseguendo, pur sapendo che si tratta ormai di un ricordo irraggiungibile, di un sogno.
Il Boss è imprescindibile e amabile anche nella sua crisi al tramonto di una carriera proprio per la sua umanità, nonostante i troppi soldi che lo circondano
Livio. Mi accodo volentieri, buon ultimo, ai colleghi di blog: un caro saluto a Marco. Fra l'altro sono io che, un bel po' di tempo fa, in uno scambio via mail, avevo sperato in un approfondimento sul grande Stephen King, che è pure un appassionato rock fan: suona la chitarra e, come scritto in apertura di uno dei suoi romanzi, ha avuto il privilegio di jammare con Warren Zevon! Frequenti poi, nei suoi scritti, le citazioni da coltissimo rocker.
RispondiEliminaAcquisto obbligato, Strade Sterrate. Auguro A Marco Denti una luminosa carriera in ambito librario, e sono certo che non dimenticherà le sue origini "musicali".
Grazie, good luck, e torna a trovarci, nella ns casa di rock e, soprattutto, di civiltà!
A me le depressioni dei grandi artisti e quindi parlo di tutti gli artisti non solo dei musicisti mi hanno sempre dato fastidio. Sarà un mio limite personale ma proprio non le tollero . Ancora di più quando ne parlano apertamente.
RispondiEliminaAdesso non fatemi la predica “ sono umani .., si mettono a nudo ...mostrano il fianco etc etc “ ; persone che hanno avuto tutto dalla vita ma non gli basta mai .
Bruce la sua promessa bhe mi sembra che sia andata a buon fine , il suono da un milione di dollari é arrivato, folle oceaniche adoranti , un matrimonio riuscito ( parrebbe), tre figli .( nessuno dei tre é mai passato alle cronache negativamente..anzi tutt’altro), si è conquistato letteralmente l’immortalità. Tra cinquanta anni il suo nome come quello di Dylan farà scuola e sarà ricordato da chiunque .
Che dire di personaggi come Warren Zevon o De Ville passati nell’.anonimato più totale.
Quanti si possono permettere di fare un tete a tete con l’ex presidente degli Stati Uniti ?
A me sembra che a differenza di molti la sua promessa sia centrata in pieno , non aveva considerato l’invecchiamento ma da lì non si scappa neanche con cento interventi di chirurgia estetica.
Ps: prima che le orde degli hardcore fans si scatenino vorrei sottolineare che il mio é un pensiero che va al di là del singolo artista .
Mi accodo nel ringraziare Zambellini per avere pubblicato questo testo e sopratutto Marco Denti per averlo scritto .
Inutile dire che ti leggo da tempo con viva e vibrante soddisfazione
Bobrock, fortunatamente questo è uno spazio di civile e costruttivo scambio e non credo che nessuno tra i frequentatori sia un talebano integralista. Non penso poi, possano fare capolino, per quanto in passato qualcuno ha bussato a queste porte. Ad ogni modo fin quando c'è rispetto chiunque credo possa esprimere le proprie idee e credo che Mauro sia il primo a sottolinearlo. Personalmente il tuo discorso non lascia dubbi e concordo su diverse cose, soprattutto sul fatto che gli hardcore fans in genere sono ottusi e non sanno guardare oltre il proprio naso, tanto quelli legati al nostro ed anche ad altri musicisti. Un abbraccio a te e a tutti.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Il problema degli hardcore fans è che ascoltano soltanto il loro eroe e non conoscono nient'altro o quasi
RispondiEliminaBeh sì e se ricordo bene il discorso è stato affrontato anche in più d'una ocassione. Credo che se si ama un'artista ed una band particolarmente bisogna saper vedere e leggerne i difetti quanto i pregi,le qualità quanto i limiti. Purtroppo spesso si perde il senso della misura e si eccede troppo in un senso e nell'altro, per cui da una parte si creano gli hardcore fans per cui tutto è bello e dall'altra quelli che criticano negativamente a prescindere senza aver ascoltato una sola nota ma solo per una personale antipatia. Non so se questa è una tipicità prettamente italica ma suppongo di sì..!?!
RispondiEliminaArmando Chiechi
un musicista può esserti antipatico ma se è valido non ci sono storie . Al tempo stesso l’assenza di criticità è sintomo di una visione monoculare.
RispondiEliminaDire che se non ti piace il disco di tizio oppure che il concerto di caio lo hai trovato sottotono non vuol dire che non ti piaccia quel personaggio o che si voglia fare della lesa maestà .
Anzi a volte accade esattamente il contrario.
Per esempio qualche anno fa hanno suonato a Milano i Counting Crows e per me era la prima volta live. Bhe a due terzi del concerto sono andato via , quel cantato parlato mi era insopportabile e tutti i brani li trovavo simili .
Le recensioni sono state tutte entusiastiche e ho il ricordo di un pubblico molto caldo.
Ho pensato quindi che ero io che non ero sintonizzato correttamente.
Criticare o sottolineare cosa non ti piace così come parlarne bene fa parte di un percorso .
E chi non sa affrontare un confronto civile di contrapposizione è indice di grande aridità e scarso spessore .
Leggendo quanto scrivi Bob,non credo abbia bisogno di dire altro e concordo su quanto dici. La storia ci dimostra quanto dici e il caso di un Van Morrison potrebbe essere da esempio, nel rapporto tra antipatia e bravura e magari suggerirci pure di un arrivo al capolinea e conseguente inaridimento e largo spazio al mestiere. Ho citato lui ma è solo un'esempio,al tempo stesso usato verso un'artista che ammiro. Si potrebbe fare chesso' anche il nome di Cooder ma con risultati diversi. Poi certo il discorso va sul personale ed è chiaro che quello che vale per me non è detto possa valere per l'altro. Ad ogni modo credo di aver interpretato il tuo concetto. Poi chiaramente a volte scrivere non ha lo stesso effetto del parlare via a via..ci possono essere fraintendimenti ed incomprensioni, oppure veri e propri equivoci, ma non credo in questo spazio. Sempre interessante e costruttivo parlare con te.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Pardon : vis a vis...
RispondiEliminaTroppo gentile Armando ...con Van Morrison ho elaborato da anni questa strategia . Lui non saluta , io non applaudo .
RispondiEliminaMi godo il suo concerto e ne più ne meno come fa lui dopo 90 minuti di contratto ( mi raccomando non uno di più ) mi alzo e me ne vado . ( soddisfatto )
A me capito' invece, un insolito Dylan sorridente e cordiale verso il pubblico nel Never Ending Tour, anno di grazia 2006, quando sedeva dietro il piano* e che molti definirono ( il plink plonk tour*). Rimasi esterefatto e sorpreso ed invano attesi che prendesse almeno una volta la Fender ed invece no, ma la band fu tosta e quel suo " Ciao" con inchino finale fu una rarita' e regalo da aggiungere a quelle chicche presenti in scaletta, come una rara " All' Along The Watchtower" dal piglio Hendrixiano.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Livio. Da springsteeniano di ferro, ma pensante, sono d'accordissimo con Bob. La depressione di chi ha tutto e +, è una delle cose + fastidiose in assoluto. Qui però entra in gioco il mio essere medico, e vorrei ricordare che trattasi di vera e propria psicopatologia. Bruce ha alle spalle decenni di terapie, sia psicologiche che farmacologiche (particolarmente pesanti, qs ultime!). Sarebbe come arrabbiarsi con un diabetico xchè è malato e deve prendere l'insulina e misurare i dolci...
RispondiEliminaA me i Counting Crows, beccati a Padova (2016?), sono piaciuti un sacco, ma li apprezzavo già prima, specie nelle pubblicazioni live. Tanto x non dire di pensiero unico.
Sull'antipatia di Dylan e Van si sono scritti libri.
Ricordo che, nel tour con Petty, musicisti e coristi si dovevano mettere di spalle quando his bobness entrava in scena. O un concerto a Bologna, prima Van, poi Bob, tutti a sbavare x un pezzo eseguito insieme, attese ovviamente deluse. O un Shane Mc Gowan ubriaco stinco che, anzichè 'cantare' (lui già di suo bofonchia e sputacchia, + che vocalizzare), inveiva contro i fuckin' italians che avevano eliminato la sua Irlanda dal mondiale...
Invece, ancora Bob, a Trento (evento + unico che raro) sorridente e affabile dietro al suo pianino, come dice Armando nel 2006.
Naturalmente ho nominato alcuni dei miei preferiti in assoluto.
Giustissimo perciò scindere l'arte dall'uomo (spesso l'ometto) che la propone. Diventano 'ometti', appunto, quando dimenticano che senza i loro fans loro non sono nulla.
Ecco, almeno qs Bruce non lo ha mai fatto.
Poi se i suddetti fans diventano fastidiosi, inopportuni e invadenti, manifestano a loro volta una triste patologia: il bisogno di un messia umano, su cui proiettare le proprie insoddisfazioni...
Discorso complesso
Livio. A tal proposito citerei un film (molto brutto, però) con John Travolta: The Fanatic.
RispondiEliminaEcco, se da fan diventi fanatico, è proprio ora di porsi qualche domanda.
Grazie a tutti per la bella discussione che come al solito genera innumerevoli spunti ma anche le inevitabili digressioni. Provo a tornare sul fuoco centrale che credo sia Springsteen, la sua parabola e la sua eredità all'interno del contesto culturale americano.
RispondiEliminaIn quasi 50 anni abbiamo avuto nell'eordine: quello acerbo ma visionario degli esordi anni 70, quello delle esibizioni live travolgenti, quello della fuga e della terra promessa, quello della e street band come famiglia, quello della consapevolezza e della redenzione, quello degli eventi e delle iniziative benefiche (no Nukes, Amnesty, etc), quello acustico a casa sua, quello planetario tutto muscoli anni 80, quello innamorato ma disilluso, quello padre e losangelino con the other band anni 90, quello steinbeckiano, quello della reunion e delle tracks inedite, quello della reazione post 11/9, quello seegeriano, quello delle produzioni tom morello e c., quello dei live Karaoke a richiesta, quello maturo ma "con troppi violini", quello che scrive di sé stesso e lo canta a Broadway per per qualche sera di fila, quello dell'ultimo disco, quello dello spot della Jeep e del presunto arresto per ubriachezza (bla bla bla...).
Direi una (parecchio lunga e onorata) carriera fin qui alquanto ricca e variegata, una fugura di artista proteiforme di cui ognuno di noi ne riconosce sicuramente una fase (o più fasi) aurea e contestualmente una o più parentesi sulle quali elencare le proprie critiche e perplessità.
In 50 anni mi sento di dire che ha scandagliato, con una coerenza di fondo e una certa dose di poesia, molte delle verità e delle contraddizioni che hanno rappresentato e continuano a rappresentare la realtà e il mito americano (se penso che di Van Morrison, che peraltro io amo, si dice forse a ragione che è da 50 che fa sempre la stessa canzone....).
Direi che non è poco.
Alla fine, nonostante qualche ragionevole inciampo ma cmq lontano da clamorosi sputtanamenti professionali e/o mediatici, io continuo a collocarlo tra le figure da monte Rushmore della musica (e della cultura americana).
Un sentito grazie a Zambo e Denti per l'occasione della bella chiacchierata e un caro abbraccio a tutti.
Paul
Livio. Un bel riassunto, Paul, e conclusione condivisibile: ad ognuno il suo Bruce, e comunque sempre wiwa Bruce!
RispondiEliminaPS Doverosa errata corrige. Il libro di Marco Denti si chiama STORIE STERRATE (non 'strade') come ho scritto. Me ne scuso con l'Autore e approfitto x una domanda: è prevista l'edizione in e-book?
Per fortuna da noi c'è gente che sa scrivere di musica e il lavoro fatto in tanti anni da Zambellini, Denti ed altri che non nomino per mancanza di spazio, sopperisce ad una lacuna che il nostro paese ha vissuto per anni. Probabilmente anche a causa di questo, tanta gente è stata " educata" a fruire e comprendere con la musica ben altro, per cui di certi artisti si è preferito vedere altro. Dalla mitologia del crocicchio ai presunti messaggi subliminali, dai simboli celti degli Zep all'eroina dei vari Reed e Johnny Thunders. Idem per l'aspetto glamour dei vari Bowie e Jagger, per cui spesso quello che era il vero contenuto della loro arte passava in secondo piano.
RispondiEliminaArmando Chiechi
Livio ben venga la tua esperienza e il sapere di medico, vero che le depressioni sono anche ereditarie però c’è un limite invalicabile quando nella tua vita artistica hai avuto tutto e mi sembra anche in quella privata ( ovviamente nei limiti di quello che possiamo sapere).
RispondiEliminaIo lavoro in banca e dal mio osservatorio di gente che fatica ad arrivare a fine mese negli ultimi venti anni ne vedo sempre di più .
Per cui quando QUALUNQUE artista di successo mi parla di depressione mi verrebbe da dirgli : forse dovresti guardare fuori dalla finestra.
Peccato che la loro finestra si affaccia su un parco secolare dove Fuori c’è un campo di basket una piscina e un campo da tennis .....
Il mondo reale é un altra cosa .
Concludendo e riallacciandomi a quanto detto da Paul .... assolutamente d’accordo su Bruce ma mi sembra che qui lo amiamo a dismisura tutti . Su Van the man ... ti dico solo che ho avuto il piacere di sentirlo live un congruo numero di volte e non ricordo un suo concerto in cui sia uscito deluso .
Livio. Bob, sono xfettamente d'accordo con te. Caratterialmente sono anch'io tra quelli che darebbero un bello scrollone ai depressi (in particolare a quelli coi milioni), invitandoli ad uscire in strada a condividere x 5minuti i problemi VERI di sopravvivenza della normale brava gente.
RispondiEliminaMa il malato non ragiona con la ns testa e perdi+, come osservi acutamente tu stesso, nel caso di Sp.steen c'è di mezzo anche una grossa familiarità, col padre Doug psicopatico grave e curato davvero solo in terza età. La dolcissima mamma italiana, Adele, inoltre, pare sia affetta da Alzheimer...
Aggiungi che a Bruce x anni è stato prescritto il Klonopin, che pur essendo 'solo' una benzodiazepina (ansiolitico) ha effetti devastanti. Vedere in proposito la testimonianza di Stevie Nicks, la trovi in rete.
Con tutto qs, ripeto, anche io, e te, e tutti, abbiamo i ns problemi e ci combattiamo ogni santo giorna senza piangerci addosso. Non ci siano inflitti anche i piagnistei del famoso di turno, x favore! Da qui il mio feroce disappunto x la fase autobio\broadway di Bruce, che trovo francamente insopportabile.
Van è un genio, e contemporaneamente una grandissima testa di... verza, come dice Carù (si veda solo la gestione dell'archivio: credevamo fosse demenziale quella di Neil, poi è arrivato lui...). Che ci vuoi fare: teniamoci il genio e sorvoliamo sul resto.
I don't care, direbbero i Ramones
Concordo con te Livio .... adoravo i Ramones
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