Faces: the most alcoholic rock n’ roll band of the world
La storia del rock n’roll è piena di storie di grandi resurrezioni, ritorni, riunioni, riabilitazioni ed una delle più incredibili e sicuramente la più alcolica fu la rinascita di una delle band famose dell’Inghilterra anni ’60: gli Small Faces. Avvenne nel 1969 quando tre membri originari del gruppo, il bassista e cantante Ronnie Lane, il tastierista Ian McLagan ed il batterista Kenney Jones, si unirono al chitarrista Ronnie Wood e al cantante Rod Stewart entrambi provenienti dal Jeff Beck Group per riformare la band con il nome di Faces.
Tre mods e due pionieri dell’heavy-blues inglese rimisero in sesto una baracca che con la dipartita del cantante e chitarrista Steve Marriott, impegnato a dar vita agli Humble Pie, sembrava sul punto di inabissarsi. Invece, tolto l’aggettivo small dal nome originario ed irrobustito il sound innocentemente beat e psichedelico dell’ultima incisione (The Autumn Stone) con una massiccia iniezione di R&B e rock n’roll, i Faces furono di nuovo sulla strada, più potenti di prima ed in grado di maneggiare con disinvoltura il blues con il brandy, il funk con il vino, le jam con il gin, inondando di birra show memorabili che di lì a poco fecero il tutto esaurito sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
Nel lasso di tempo che va dall’uscita di Exile On Main Street all’autunno del 1975, con i Rolling Stones in balìa della loro dissolutezza, i Faces divennero la più selvaggia rock n’roll band in circolazione con party devastanti, pantagrueliche bevute, focosi concerti ed un lifestyle vissuto all’estremo, the most alcholic rock n’roll band in the world, una band che non vendette e non assunse la stessa importanza degli amici Stones ma fonte di influenza per chi ha cavalcato il rock più punchoso e bluesy, prima prefigurando l’avvento del pub-rock e poi fornendo stimoli ad una nuova generazione di rockers come Replacements, Primal Scream, Georgia Satellites, Paul Weller, Guns andd Roses, Wilco e Black Crowes.
I Faces vissero sotto la luce dei riflettori la loro spregiudicatezza, se non altro l’alcol è ed era legale, lo si poteva trovare liberamente e facilmente dappertutto, non occorreva andare in una buia e lercia stradina del ghetto ed essere alla mercè di un losco figuro che spacciava droga, bastava entrare in un bar, tirare fuori i soldi, ordinare e bere quanto si voleva. Come ha ricordato il batterista Kenny Jones “ si poteva far festa ovunque, bevevamo nel bar dell’hotel mentre aspettavamo la limousine, facevamo festa sulla limousine mentre eravamo in strada per arrivare al concerto. Poi facevamo festa (leggasi bevevamo) nel backstage e poi nei camerini prima di andare sul palco. Facevamo festa sul palco e poi di nuovo nei camerini, nel backstage, in macchina e quando ritornavamo finivamo in baldoria in hotel. Facevamo festa sempre e dovunque, eravamo sempre allegri, su di giri. Era fantastico.”
Per i Faces lavorare era suonare e suonare era il sommo dei piaceri. Fare musica era per loro un divertimento, era il libero e schiamazzante suono di una profonda fratellanza, del buon umore collettivo, di una reciproca eccitante scoperta. E tutto ciò era impensabile senza un drink in mano o un pub dietro l’angolo. I Faces furono quello che almeno nell’innocenza dei primi anni ‘70 significava essere in una rock n’roll band ovvero suonare duro e vivere di corsa maneggiando la musica con l’arroganza di chi sente l’odore dei soldi ma gioca a fare il teppista fino alla fine perché quello che importa è fare baldoria con gli amici e con la bottiglia. Era l’urlo dell’ultimo scampolo di gioventù, prima che la maturità e la vita adulta cominciasse a presentare il conto, era l’ irridente sex, alcohol and rock n’roll di un gruppo di borstal boys carburati a gin e birra piuttosto che a cocaina. Per i Faces fare le prove in un club o in un hangar, suonare dal vivo o registrare un disco erano la stessa identica cosa e comportavano lo stesso abbandono e lo stesso atteggiamento, era puro ed incondizionato divertimento, tanto che la prima richiesta del gruppo quando entravano in un nuovo studio di registrazione per la realizzazione di un disco era “bene…e adesso dove piazziamo il bar?”.
Nessuna altra band dell’epoca bevve tanto quanto i Faces e nessuna altra band dell’epoca seppe mettere tanta sorprendente eccitazione, ruvida passione e contagiosa giovialità nei concerti e nei dischi così da diventare la più testarda, orgogliosa e gagliarda rock n’roll band della prima metà degli anni ’70. Eravamo una drinking band coi fiocchi affermò orgogliosamente una volta il cantante Rod Stewart e la maggior parte del nostro lavoro migliore fu fatto nei pub. Sarebbe comunque sbagliato reputarli un gruppo di ubriaconi o una semplice band for fun perché i Faces seppero sintetizzare le varie componenti del rock inglese congiungendo quelli che erano stati gli anni ’60 con quello che era lo stile rock dei primi seventies, una musica dura ed ambigua, sguaiata e trasgressiva anche se disposta alle coccole di qualche ballata. Come gli Stones i Faces erano ossessionati dal R&B, come gli Who erano stravaganti ed avevano atteggiamenti da ribelli mods, come gli Yardbirds erano affascinati da un boogie duro ed elettrico, una specie di rivisitazione bianca del jungle-beat di Bo Diddley, come i Kinks seppero adattare lo spirito anarchico e dissacratorio del vaudeville britannico al palcoscenico del rock n’roll.
continua
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