E’ un ritorno alla semplicità dei primi album, in
particolare a Trouble, quello che esce dalle nove tracce di Long
Way Home, ultimo lavoro del cantautore nato nel 1973 a Nashua nel New
Hampshire. Dopo aver girovagato nel cosmo con dischi come Supernova e
Ouroboros più vicini ai Pink Floyd che al folk-rock degli inizi, il
ritorno a casa era stato annunciato nel 2020 da Monovision ma è diventato
esplicito in Long Way Home. Con quella voce sabbiosa da crooner perso nel
diluvio che contraddistingue il suo cantato e canzoni che distillano emozioni e
storie di vita intima e sulla strada, Ray LaMontagne riannoda le fila della sua
esperienza artistica e lo fa nei migliore dei modi, recuperando schiettezza,
liricismo, atmosfera per regalare nove canzoni che arrivano al cuore per via
diretta. L’amore per il folk-rock dei songwriter degli anni settanta è palese,
i suoi veri vicini di casa sono Van Morrison, John Martyn, Neil Young, Jackson
Browne, Nick Drake e quella schiera di trovatori
dall’animo turbato che caratterizzarono quell’epoca. Senza dimenticare che
la sua voce si presta molto bene al soul e qui se ne ha dimostrazione in My Lady Fair dove sembra di entrare in
una registrazione della Stax dei
sixties, il punteggiare di un organo memphisiano, il calibrato gioco tra
ritmica e fiati, la voce “velata” alla Otis Redding, le carezze e la sensualità
di Ben E.King, tutto porta in quella direzione. Non è la sola canzone a parlare
quella lingua, l’iniziale Step into Your
Power fa battere i piedi attorno al corale backing vocale delle Secret Sisters in uno di quei caldi
quadretti di nostalgia soul anni sessanta, mentre I Wouldn’t Change a Thing apre un altro capitolo, quello del folk-rock
con aromi di country music per via di una lap-steel che fa molto americana. Non molto diversa The Way Things Are potrebbe essere
materia di David Crosby con quel
arpeggio delicato, la voce sospesa ed il sound minimale, e Yearning un riferimento neanche troppo inconsapevole al Van Morrison delle settimane astrali,
compresi quegli spigolosi accordi di chitarra sullo sfondo di contrasto a
quella melodica in primo piano. Un ricordo di un’epoca meravigliosa che la
seguente And They Called Her California già
nel titolo lo sottolinea, se non fosse che il dolente andamento ritmico, voce
compresa e quell’armonica inconfondibile trasportano di getto in On
The Beach di Neil Young. Sembra proprio una outtake di quell’album del
1974. Prodotto in tandem con Seth
Kauffman ( Lana Del Ray, Angel Olson, Floating Action), il nono album di
LaMontagne, a detta dell’autore, parte dal ricordo di quando a 21 anni vide in
club di Minneapolis suonare Townes VanZandt, un pensiero che lo ha accompagnato
tutti questi anni ispirandolo nella scrittura di Long Way Home, la lenta
ballata con cui si chiude l’album omonimo, introdotta da So, Damned, Blue, un inizio atmosferico
alla Fletwood Mac di Albatross per
poi diventare una intimissima confessione di arrendevolezza capace di tramutarsi
in un palpitante momento erotico. Finale di album strepitoso che rimette Ray
LaMontagne nella cerchia dei migliori songwriter dei nostri anni.
MAURO
ZAMBELLINI 2024