mercoledì 23 ottobre 2024

MARCUS KING BAND Fabrique, Milano 20/10/24


 

C’era attesa per il ritorno a Milano di Marcus King con la sua attuale band dopo la pubblicazione dell’album Mood Swings non troppo benvoluto dai fans della prima ora. Da qualche tempo il baricentro della sua musica si è spostato dal furente, chitarristico e jammato rock-blues degli esordi ad un mood più confacente alle sinuosità del soul, anche in virtù di una voce calda e leggermente arrochita che ben si adatta alle melodie di questo genere. Le prime avvisaglie si sono avute al tempo di Carolina Confessions ma sono diventate evidenti con la produzione di Dan Auerbach di El Dorado e del recente Mood Swings, il primo vicino alle ambientazioni del country-soul, il secondo un succoso modern soul che premia una voce che ha pochi eguali al momento, la più autorevole assieme a quella dell’amico Warren Haynes (entrambi della Carolina, il primo del Sud, l’altro del Nord) nel  cantare un soul-blues di derivazione americana. Lo show milanese ha tolto qualsiasi dubbio, Marcus King, uscito dal tunnel della dipendenza, è parso in forma ed immerso in questa fascinazione, ritagliandosi all’interno del concerto, un siparietto in solitario per voce e chitarra acustica a sottolineare la veste di soul songwriter. Così, con la maestria di un giovane Bobby Womack, ha dato voce ai palpiti di un cuore innamorato nella struggente Bipolar Love, in Die Alone e appunto Mood Swings. Ma non crediate che ciò che è stato il suo passato sia stato buttato alle ortiche perché la Marcus King Band seppure in formazione rinnovata possiede ancora l’artiglieria per sparare un benessere elettrico che tonifica i sensi, sia nelle intense ballate che hanno i titoli di Save Me e Goodbye Caroline, momenti in cui la commozione serpeggiava palese in platea, sia nei pezzi più muscolosi dove un secondo chitarrista, Drew Smithers, non sempre in tono e piuttosto meccanico nei suoi affondi con la slide (forse perché costretto a suonare una  Custom del 1976 visto che le sue sono scomparse nel trasferimento da Madrid a Milano) dialogava con la Gibson e la Telecaster del leader in una sincronia di esaltanti assoli di pura scuola southern rock. Se poi aggiungete il potente e dinamico batterista Jack Ryan, un bassista che per tutta la durata dell’esibizione ha sorriso come fosse ad una festa di compleanno, ed un tastierista, Mike Runyon, che con l’Hammond intrecciava i fili dell’intero sound  con quel grasso sentore di Muscle Shoals e Stax, allora era chiaro a tutti che la  Marcus King Band poteva tranquillamente innestare la sesta marcia senza mai andare fuori giri. Cappello da cowboy, basettoni da soulman anni 70, scuro abito di taglio western, Marcus coi suoi pards è stato annunciato dalle note de Il Buono, il Brutto e Cattivo prima di partire a razzo con l’arcigno rock-blues di It’sToo Late preso da Young Blood, per poi dedicarsi alla melodica e romantica Beautiful Stranger, a Hero e This Far Gone in modo da avvalorare il nuovo corso della sua discografia. Ma se le ballata soul con la loro innata sensualità sono il cuore pulsante di tali tracce, la resa live non si limita all’ elegante ammiccamento proprio del genere, perché King con i suoi compagni di ventura vitalizza il parlare d’amore con l’ elettrizzante ed energico ardore di cui sono capaci e allora quella che era semplice sensualità si trasforma in una esplosione di carnalità rock. In Inglewood Motel la stanza sembra grondante di amore, la voce di Marcus King fa vibrare l’anima e la band si scioglie in un sussulto jazzistico che rivela una bravura strumentale di prim’ordine, il brano si fonde con Azucar per poi lasciare posto al malinconico tono country di Good Time Charlie’s Got The Blues, una composizione di Danny O’Keefe che veniva interpretata anche da Presley. La robusta ed originale rivisitazione di Are You Ready for the Country di Neil Young sul giro di chitarre di Crossroads dei Cream e 8 A.M, un lascito di California Confessions, che parte lenta prima di scatenarsi in una bufera soul-rock, è quello che necessita perché dopo neanche un’ora di show la platea, finalmente divisa tra giovani e anta, donne e uomini, raggiunga la temperatura di godimento. La sanguigna Honky Tonk Hell trasuda boogie e bettole sporche di avventure da quattro soldi, Fuck My Life Up Again rimette in pista il soul prima della scorbutica e caotica jam Lie Lie Lie dove il batterista scatena tutta la sua forza in un assolo d’altri tempi per finire nel Rice Pudding del Jeff Beck Group. L’attesa per l’encore non dura nemmeno un minuto, sappiamo da una vita qual è la generosità delle band nate sotto la Mason-Dixon line, la dolce Delilah e Wildflowers & Wine, altri due estratti dai dischi prodotti da Auerbach, preparano il gran finale per una Ramblin’ Man che manda in visibilio l’intero Fabrique evocando Dickey Betts, gli Allman ed una tradizione musicale che ancora sa essere viva e contagiosa.



Nella stessa sera su altri palchi della stessa Milano andava in onda  la redenzione, la glorificazione e la santificazione del personaggio di turno, un ecumenismo di mani protratte a toccare il mito in una sorta di rito salvifico, niente di tutto questo alla periferia oscura della città, dentro le mura del Fabrique dove il rock n’roll rimaneva una manifestazione profana di sensi, cuore e turbamenti pelvici, il canto semplice e meraviglioso di un ragazzo venuto dal profondo Sud che canta e suona la chitarra come un Dio (dei bassifondi).

MAURO ZAMBELLINI     Foto di RODOLFO SASSANO