C’era attesa per il ritorno a Milano di Marcus King con
la sua attuale band dopo la pubblicazione dell’album Mood Swings non troppo
benvoluto dai fans della prima ora. Da qualche tempo il baricentro della sua
musica si è spostato dal furente, chitarristico e jammato rock-blues degli
esordi ad un mood più confacente alle sinuosità del soul, anche in virtù di una
voce calda e leggermente arrochita che ben si adatta alle melodie di questo
genere. Le prime avvisaglie si sono avute al tempo di Carolina Confessions ma
sono diventate evidenti con la produzione di Dan Auerbach di El
Dorado e del recente Mood Swings, il primo vicino alle
ambientazioni del country-soul, il secondo un succoso modern soul che premia una voce che ha pochi eguali al momento, la
più autorevole assieme a quella dell’amico Warren Haynes (entrambi della
Carolina, il primo del Sud, l’altro del Nord) nel cantare un soul-blues di derivazione
americana. Lo show milanese ha tolto qualsiasi dubbio, Marcus King, uscito dal
tunnel della dipendenza, è parso in forma ed immerso in questa fascinazione, ritagliandosi
all’interno del concerto, un siparietto in solitario per voce e chitarra
acustica a sottolineare la veste di soul songwriter. Così, con la maestria di
un giovane Bobby Womack, ha dato voce ai palpiti di un cuore innamorato nella
struggente Bipolar Love, in Die Alone e appunto Mood Swings. Ma non crediate che ciò che è stato il suo passato
sia stato buttato alle ortiche perché la Marcus
King Band seppure in formazione rinnovata possiede ancora l’artiglieria per
sparare un benessere elettrico che tonifica i sensi, sia nelle intense ballate
che hanno i titoli di Save Me e Goodbye Caroline, momenti in cui la
commozione serpeggiava palese in platea, sia nei pezzi più muscolosi dove un secondo
chitarrista, Drew Smithers, non
sempre in tono e piuttosto meccanico nei suoi affondi con la slide (forse
perché costretto a suonare una Custom
del 1976 visto che le sue sono scomparse nel trasferimento da Madrid a Milano)
dialogava con la Gibson e la Telecaster del leader in una sincronia di
esaltanti assoli di pura scuola southern
rock. Se poi aggiungete il potente e dinamico batterista Jack Ryan, un
bassista che per tutta la durata dell’esibizione ha sorriso come fosse ad una
festa di compleanno, ed un tastierista, Mike Runyon, che con l’Hammond intrecciava
i fili dell’intero sound con quel grasso
sentore di Muscle Shoals e Stax, allora era chiaro a tutti che la Marcus
King Band poteva tranquillamente innestare la sesta marcia senza mai andare
fuori giri. Cappello da cowboy, basettoni da soulman anni 70, scuro abito di
taglio western, Marcus coi suoi pards è stato annunciato dalle note de Il Buono, il Brutto e Cattivo prima di
partire a razzo con l’arcigno rock-blues di It’sToo
Late preso da Young Blood, per poi dedicarsi alla melodica e romantica Beautiful Stranger, a Hero e This Far Gone in modo da avvalorare il nuovo corso della sua
discografia. Ma se le ballata soul con la loro innata sensualità sono il cuore pulsante
di tali tracce, la resa live non si limita all’ elegante ammiccamento proprio
del genere, perché King con i suoi compagni di ventura vitalizza il parlare
d’amore con l’ elettrizzante ed energico ardore di cui sono capaci e allora
quella che era semplice sensualità si trasforma in una esplosione di carnalità
rock. In Inglewood Motel la stanza sembra
grondante di amore, la voce di Marcus King fa vibrare l’anima e la band si
scioglie in un sussulto jazzistico che rivela una bravura strumentale di
prim’ordine, il brano si fonde con Azucar
per poi lasciare posto al malinconico tono country di Good Time Charlie’s Got The Blues, una composizione di Danny O’Keefe che veniva interpretata
anche da Presley. La robusta ed originale rivisitazione di Are You Ready for the Country di Neil Young sul giro di
chitarre di Crossroads dei Cream e 8 A.M, un lascito di California
Confessions, che parte lenta prima di scatenarsi in una bufera
soul-rock, è quello che necessita perché dopo neanche un’ora di show la platea,
finalmente divisa tra giovani e anta, donne e uomini, raggiunga la temperatura
di godimento. La sanguigna Honky Tonk
Hell trasuda boogie e bettole sporche di avventure da quattro soldi, Fuck My Life Up Again rimette in pista
il soul prima della scorbutica e caotica jam Lie Lie Lie dove il batterista scatena tutta la sua forza in un
assolo d’altri tempi per finire nel Rice
Pudding del Jeff Beck Group.
L’attesa per l’encore non dura nemmeno un minuto, sappiamo da una vita qual è
la generosità delle band nate sotto la Mason-Dixon line, la dolce Delilah e Wildflowers & Wine, altri due estratti dai dischi prodotti da
Auerbach, preparano il gran finale
per una Ramblin’ Man che manda in
visibilio l’intero Fabrique evocando Dickey Betts, gli Allman ed una tradizione
musicale che ancora sa essere viva e contagiosa.
Nella stessa sera su altri palchi della stessa Milano
andava in onda la redenzione, la glorificazione e la
santificazione del personaggio di turno, un ecumenismo di mani protratte a toccare
il mito in una sorta di rito salvifico, niente di tutto questo alla periferia oscura
della città, dentro le mura del Fabrique dove il rock n’roll rimaneva una
manifestazione profana di sensi, cuore e turbamenti pelvici, il canto semplice
e meraviglioso di un ragazzo venuto dal profondo Sud che canta e suona la
chitarra come un Dio (dei
bassifondi).
MAURO
ZAMBELLINI Foto di RODOLFO SASSANO