giovedì 16 ottobre 2008

Graziano Romani > Between Trains


Chi conosce il lavoro di Graziano Romani sa quanto il rocker emiliano sia stato influenzato dalle canzoni di altri artisti e altri autori. Non lo ha mai nascosto, Romani non è uno di quei musicisti che si reputano unici ed originali o peggio ancora fingono di ignorare che prima di loro ci sono stati altri e più bravi da cui loro hanno preso ed ereditato qualcosa. 

Romani, in questo, è un artista molto americano e poco italiano, non è spocchioso e non ha mai nascosto che la sua musica e le sue canzoni "discendano" da qualcos' altro, mai negando le influenze subite, sia quelle più esplicite come quella di Springsteen, sia quelle più nascoste che solo un attento conoscitore della musica rock e soul come lui è in grado di citare. Dice l'autore sulla copertina di Between Trains "ho sempre amato le cover, interpretare il lavoro di altri aggiungendo il mio personale punto di vista e i miei sentimenti. Ho sempre cercato di imparare le canzoni dei cantautori che ammiravo e di tutti quei grandi artisti che mi hanno influenzato. Quando ancora suonavo coi Rocking Chairs e non pensavo di scrivere canzoni mie, mi piaceva fare le cover dal vivo e qualcuna di queste l'ho messa nel miei dischi. Questo album significa molto per me."
La ragione è che Between Trains raccoglie tredici canzoni che hanno dato l'ispirazione e l'anima alla musica di Graziano ed in generale gli hanno offerto la possibilità di raccontare, ognuna, una storia. Non sono canzoni minori ma solo rare e appannaggio di un fine conoscitore musicale come lui, alcune sono note, altre no, qualcuno è stato un hit e qualcun altro è semplicemente un piccolo poema in musica, tutte concorrono però a creare l'universo dentro cui Romani si è mosso in questi anni attraversando con la sua musica, i suoi dischi, le sue canzoni e le sue cover il rock, il soul, il blues, il folk e la canzone d'autore in generale. Che un artista italiano riesca con gusto, sentimento, giusta umiltà ed una intensa interpretazione vocale a "coprire" canzoni di Robbie Robertson, Joni Mitchell, Bob Dylan, Jimmy Webb, Peter Gabriel, Van Morrison, Warren Zevon, Richard Thompson è un successo che premia sia la sua bravura sia la tenacia di chi crede che queste non siano solo canzonette ma il tratto profondo di una cultura che da noi è ignorata se non addirittura bistrattata.
Come si può non rimanere allibiti davanti ad un artista che nel mare della idiozia e della superficialità culturale nazionale, sceglie di intitolare un disco con una canzone assolutamente fuori quota come Between Trains di Robbie Robertson, contenuta nel film Re per una Notte di Martin Scorsese la cui colonna sonora non è certo stata un successo di vendite, per di più pubblicata solo in vinile. Bisogna essere dei topi da negozi di dischi, certosini ricercatori di cose "innominabili"oltre che sognatori di un mondo parallelo dove la bellezza è una struggente ballad tra rock e soul cantata col cuore in mano. Ma le meraviglie non finiscono con la canzone di Robertson perché ci vuole un temperamento da incallito appassionato di oscuri songwriters per spingersi a riproporre The Living End, una dolorosa canzone (tanto per cambiare tratta da un lost third album) di una artista misconosciuta e controversa (si esaurì con l'eroina dopo un paio di dischi ed una conversione al folk cristiano) come Judee Sill oppure andare a rovistare in soffitta e ridare aria a Sound Of Free, una canzone di Dennis Wilson apparsa in un 45 giri del 1969. O dare voce ai dimenticati Strawbs con una Grace Darling estratta dal loro Ghosts del 1975 in cui si racconta di questa eroina settecentesca inglese, figlia di un guardiano del faro che salvò un intero equipaggio dal naufragio.
Sebbene siano note le sue connessioni col rock americano, Graziano Romani non ha mai negato che quando una canzone ha anima ed una storia da raccontare non importa la sua origine. Così dal patrimonio dal reggae arriva una tribolata Strugglin' Man di Jimmy Cliff trasformata a ballata e ancora in campo inglese l'amato Van Morrison viene omaggiato con una intensa e personale versione di Brand New Day (da Moondance) dove si apprezza l'arrangiamento di violino di Giulia Nuti e Peter Gabriel, altra vecchia passione di Romani, è riesumato attraverso White Shadow, titolo estratto dal suo lontano secondo disco solista.
Poi c'è Richard Thompson di cui è offerta una versione coi fiocchi (tra le cose migliori dell'intero Between Trains) di Genesis Hall dal repertorio dei Fairport Convention, impreziosita dalle chitarre di Tede Tedeschini e dal piano di Chris Gianfranceschi.
Decisamente innovative sono le rielaborazioni di Last Chance Lost di Joni Mitchell, nell'originale un brano dipinto a tinte jazz che qui si trasforma in un esperimento ai confini del folk con il misurato lavoro delle chitarre acustiche (Romani e Giacomo Baldelli), della viola di Giulia Nuti, del contrabbasso di Massimo Ghiacci e delle percussioni di Gigi Cavalli Cocchi. Non poteva mancare Springsteen presente con la "negroide" Real World e Dylan, la cui già meravigliosa Don't Fall Apart On Me Tonight qui brilla come uno degli highlights del disco con Graziano che dà fondo a tutto il suo cuore di vocalist arrochito e passionale e la band (i fidi Max Ori e Pat Bonan alla sezione ritmica), Gianfranceschi all'organo e Cristiano Marmotti alla chitarra, che suona alla grande creando un commovente pathos da rock ballad. Altre perle del disco sono l'intima e riflessiva interpretazione di Mutineer di Warren Zevon dove Erik Montanari si fa notare con la chitarra e una struggente Wichita Lineman di Jimmy Webb, autore molto stimato da Romani, il cui tema viene immalinconito ancora di più dalla voce scura e bluesata di Romani mentre un bell'inciso del chitarrista Max Cottafavi aggiunge una componente di rock disperato e romantico estraneo alla versione di Webb.
Prodotto dallo stesso Romani, Between Trains si avvale della partecipazione di un nutrito stuolo di amici e musicisti che offrono solidità al generale umore soul-folk-rock del disco e contribuiscono ad arrangiamenti asciutti ed essenziali, in linea con la visione personale che l'artista ha voluto dare a queste canzoni, tredici perle grandi e piccole che sono il cuore e l'anima di una avventura musicale che merita rispetto e attenzione anche se nata dalle nostre parti.
Uno dei dischi migliori della sua carriera.

Mauro Zambellini
Buscadero - settembre 2008

mercoledì 8 ottobre 2008

Lou Reed > Live At St.Ann's Wharehouse


(Matador)


Dopo il criptico tentativo di mettere in musica Edgar Allan Poe con The Raven, il cantore di New York torna ad una delle sue opere più difficili, contraddittorie ed osteggiate, quel Berlin che nel 1973, anno della sua pubblicazione, fece scrivere a Rolling Stone: un album palesemente offensivo, la fine della carriera di Lou Reed.

La storia  non è andata come prevedeva l’illustre rivista americana, Lou Reed si è conquistato a pieno merito un posto di primo piano nella storia del rock e a trentacinque anni dalla sua pubblicazione Berlin è considerato uno dei capolavori della sua discografia. Un opera non facile, ieri e oggi, che descrive  la disperata  e devastante storia di un violento junkie (Jim) e della sua fidanzata prostituta (Caroline), due americani che vivono in una Berlino sfigurata dalla guerra, dall’iniziale stato di euforia dovuto all’uso delle anfetamine fino all’inevitabile caduta in una spirale di dipendenza, violenza, schizofrenia  e degrado che porta Caroline a suicidarsi dopo che le autorità le hanno tolto l’affidamento dei figli. Opera cupa e malata, ambientata in una plumbea atmosfera mittleuropea, orchestrata come se si trattasse di una specie di cabaret tedesco, con un massiccio uso del piano (Bob Ezrin, collaboratore di Lou Reed), con partiture di viola e violoncello e impregnato delle sonorità metalliche delle chitarre di Steve Hunter e Dick Wagner, Berlin  è una coraggiosa rappresentazione del clima di decadenza estetica e morale che pervase un certo ambiente rock degli anni ’70, storie, come ha suggerito lo stesso autore, di gente che esisteva negli anni settanta non solo a Berlino ma dovunque. Una storia  violenta e angosciante che Lou Reed con l’aiuto di Bob Ezrin  tradusse in musica e come un freddo narratore raccontò momenti agghiaccianti come The Kids, scosso dallo straziante pianto dei bambini che vengono tolti alla madre e come l’epilogo di The Bed Sad Song  dove Caroline si uccide tagliandosi le vene e Jim vaga stranito nella casa come un relitto, prigioniero del ricordo di lei ed incapace di comprendere quanto sia successo.

Più volte nel corso degli anni è stato proposto a Lou Reed di eseguire dal vivo l’intero Berlin, cosa che non aveva mai fatto e finalmente e dopo innumerevoli tentativi, grazie alle pressioni del direttore del piccolo St.Ann’s Warehouse di New York, il progetto è andato in porto e nel dicembre del 2006 per quattro serate Berlin è stato suonato davanti al pubblico. Da lì è nato anche un mini tour che ha riscosso riconoscimenti e consensi in giro per il mondo. 

I concerti del St.Ann’s Warehouse sono stati filmati dal regista Julian Schnabel (Basquiat), amico di Reed e grande estimatore di Berlin, e la storica performance sarà disponibile in un Dvd in uscita contemporanea con il disco live.

Prodotto da Bob Ezrin con Hal Willner e musicato da alcuni degli stretti collaboratori di Lou Reed (Fernando Saunders, Antony, Steve HunterRob Wassermann, Rupert Christie e Sharon Jones) Berlin Live  subisce una importante rilettura in termini di intensità sonora ed arrangiamenti orchestrali che ne mantiene inalterata l’originalità e non stravolge lo spirito del tempo. Pur arricchitoo da una orchestra di sette elementi e dal Brooklyn Youth Chorus, il nuovo Berlin  non è opera tronfia e ridondante nonostante la teatralità del tema e l’atmosfera  scabrosamente melodrammatica dell’opera prima ma al contrario il cantato di Lou Reed e l’essenziale efficacia dei musicisti mantengono  l’enfasi dentro delle solide coordinate di rock metropolitano.  Berlin Live  è una sinfonia elettrica nei torbidi anfratti dell’animo umano che tocca il suo apice nell’esecuzione lancinante di Sad Song, nelle fustigate chitarristiche di Lady Day (sia lodato Steve Hunter) nel rumore al calor bianco di Men of Good Fortune, nell’assordante impasto chitarre/fiati di  How Do You Think It Feels, nelle chitarre nervose e schizoidi di Oh Jim dove Lou Reed canta come fosse ancora in Take No Prisoners.

Uniche eccezioni all’intento concept dell’opera l’aggiunta di tre encore: la velvettiana Candy Says, una gelida e perfetta Rock Minute ed una Sweet Jane abbastanza trascurabile.


MAURO  ZAMBELLINI      SETTEMBRE 2008


JJ Grey & Mofro > Orange Blossoms



(Alligator Records)



Segnalatisi l’anno scorso con Country Ghetto JJ Grey & Mofro rincarano la dose con un disco di scoppiettante freschezza dove le loro radici sudiste si fondono in un soul venato di gospel e funky ed in un blues che sa di paludi e acquitrini. Basta far partire il cd e
Orange Blossoms ci catapulta in quel sud dove il tempo scorre lento e il dolce far niente fa molti meno danni di Wall Street. Che JJ Grey sia del sud, precisamente 40 miglia fuori Jacksonville, Florida, lo si percepisce subito, nel modo in cui il suo storytelling vagabondo, brioso e a ruota libera, che ama comunque fornire una descrizione appassionata e devota dei suoi luoghi natali e di vita, si mischia con gli umori caldi di una musica che ora è un blues delle paludi, ora un soul carico di gospel, ora un groove che fa ballare scatenando sax e trombe, ora è un funk in agrodolce con qualche visione psichedelica che si placa solo quando un rock rurale che parla di fuoco, diavoli e alla fine, malvolentieri, anche di redenzione fa capolino portando con sé il solito fardello di letteratura sudista.

JJ Grey evoca complesse emozioni con il minimo uso di parole e con una musica che nel suo essere tutto e niente affascina, seduce, rallegra e mette addosso voglia di vivere e sognare. Le sue influenze sono molteplici ma Tony Joe White col suo swamp-rock, John Lee Hooker col suo boogie, Dan Penn col suo down-home soul e Sly & Family Stone col suo lazy funky sembrano aver regalato qualcosa in più di una semplice idea alla sua musica, che per intenderci non è solo ritmo e groove ma possiede un appeal melodico “svaccatamente contagioso” oltre che divertente che la colloca sulla stessa strada di Anders Osborne, Clarence Bucaro, Eric Lindell, Grayson Capps, Ramsey Midwood, giovani outsiders la cui filosofia esistenziale per il mercato e la morale americana (e non solo quella) è peggio del comunismo.

Musica per dreamers, losers and ramblers che ruota ipnotica e leggermente drogata attorno al ritmo sornione di Move It On, un po’ il centro gravitazionale di tutto il disco dove i Mofro, un ensemble allargato comprendente anche fiati, cori e violini, rivela una attitudine da jam band e dove l’Hammond di Adam Scone scomoda paragoni con There’s A Riot Goin’ On di Sly and Family Stone.

JJ Grey si occupa di un gran numero di strumenti tra i quali chitarre ritmiche e soliste, basso, percussioni, tastiere e armonica mentre Daryl Hance, l’altro storico nome dei Mofro, contribuisce a creare con la sua chitarra e i suoi arrangiamenti atmosfere di soul psichedelico alla Curtis Mayfield. Ballate melodiche, peraltro molto ironiche, come I Believe (In Everything) si accompagnano con titoli altrettanto sarcastici, Everything Good is Bad, che mettono in risalto una voce da soulman alla Redding mentre la misteriosa She Don’t Know evoca incontri notturni e sfodera una carica sensuale da brivido caldo. JJ Grey & Mofro potrebbero essere il mezzo di riscaldamento più economico per l’autunno prossimo a venire e Orange Blossoms è un disco che risponde ad unica prerogativa: la musica per essere tale deve avere anima. Qui di soul ce n’è quanto volete, basta far girare il cd e stappare una birra, il resto viene da sè.


MAURO ZAMBELLINI