sabato 17 novembre 2018

THE BALLAD OF MOTT THE HOOPLE

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     Generalmente i Mott The Hoople vengono annoverati nel glam rock per via del loro stravagante look e di quella  magnifica All The Young Dudes regalata loro dal David Bowie dell'era Ziggy Stardust. Agli inizi degli anni settanta David Bowie fu realmente un benefattore artistico, o quanto meno un salvatore di anime in depressione creativa, avendo quasi contemporaneamente rilanciato le carriere di Lou Reed e per l'appunto dei Mott The Hoople. I quali avevano già una storia alle spalle essendosi formati diversi anni prima ma agli albori del 1972 si trovavano sull'orlo di una crisi di nervi dopo le fallimentari vendite dei loro primi album ed un abortito tour in Inghilterra. Lo scioglimento era prossimo ma David Bowie tese loro una mano e li incoraggiò a continuare. Per primo gli offrì Suffragette City che non era ancora uscita sull'album Ziggy Stardust e poi scrisse appositamente per loro All The Young Dudes che divenne un successone e diede inizio alla seconda fase della carriera dei Mott. Ma la storia che racconta l'ottimo box di 6 CD  Mental Train-The Island Years ricco di inediti, out-takes, tracce live, booklet e poster annessi, è quella pionieristica degli anni tra il 1969 ed il 1971 quando accasati con la Island la loro fervida creatività musicale, una originale fusione di elementi british in un crudo e chitarristico rock n'roll americano più una malinconica vena ballad cucita attorno al piano e alla voce di Ian Hunter, profondo ammiratore di Dylan tanto da evocarne lo stile, trovò l'entusiasmo dei critici ma una debole risposta  di vendite e i Mott The Hoople rischiarono realmente di lasciare la scena prima del tempo.

 
La loro storia inizia in Italia quando il chitarrista Mick Ralphs, il cantante Stan Tippins e il bassista Pete Overend Watts, tutti nativi dell'Herefordshire, dopo alcune esperienze locali (prima gli Anchors e poi i Soulents) nel 1966 formarono il Doc Thomas Group e nella nostra penisola trovarono un ingaggio stabile alla Bat Caverna di Riccione. Proprio in Italia pubblicarono un disco per la Interrecord e quando a loro si unì Terry Allen, uno dei primi in Inghilterra a suonare l' organo Hammond, cambiarono il nome prima in Shakedown Street e poi in Silence e andarono a registrare dei demo negli studi gallesi di Dave Edmunds, i Rockfield Studios a Monmouth. Demo che non interessarono né la Emi, né la Polydor, né tantomeno le più "libere" Immediate e Apple. Chi invece si interessò di loro fu Guy Stevens, un dj dello Scene, uno dei primi club underground londinesi, il quale possedeva una delle più notevoli collezioni di dischi del paese ed era diventato una delle figure più chiacchierate della nascente cultura mod. Personaggio eccentrico, eclettico e visionario, Stevens, nato nel 1943 a East Dulwich nella parte meridionale di Londra, fu il primo a procurarsi i dischi della Chess, della Stax e della Motown fornendo materiale a Stones, Animals, Yardbirds e Who quando ancora questi si chiamavano High Numbers. Agì da talent scout nella rivoluzionaria Island di Chris Blackwell e il primo gruppo che  mise sotto contratto furono gli Art. Seguirono gli Spooky Tooth e produsse l'opera LSD Hapshash and Coloured Coat featuring The Human Host and The Heavy Metal Kids. Ghiotto consumatore di anfetamine e alcol, mise in contatto il paroliere Keith Reid col tastierista Gary Brooker e così nacquero i Procol Harum, produsse Free, Heavy Jelly e Mighty Baby e fu il fautore della trasformazione  della Island con la messa in scuderia di Traffic, Fairport Convention, Jethro Tull e King Crimson.  Era solito dire "ci sono solo due Phil Spector nel mondo ed uno dei due sono io".  Arrestato per possesso di droga, in prigione ebbe la "visione", quella di concepire una band che fosse la stridente collisione tra il Bob Dylan elettrico e gli Stones. Trovò anche il nome, Mott The Hoople, titolo di una novella di un tale Willard Manus che aveva letto in cella. Sapendo di essere inadatto come cantante, Guy Stevens cercò un gruppo di musicisti in grado di soddisfare la sua intuizione e quando ricevette i demo da Pete Overend Watts capì di averlo trovato. Si trattava di strumentali perché momentaneamente il cantante del gruppo, tale Minus Tippins era fuori gioco per questioni di gola ma quello che lo convinse fu il suono dell'Hammond di Terry Allen, poi ribattezzatosi Verden Allen, che nel frattempo si era aggiunto a quelli che da Doc Thomas Group erano diventati Silence. Stevens cambiò immediatamente il cantante, Tippins sarebbe divenuto road manager così che davanti necessitava una figura di ben altro carisma. Lo trovò dopo un inserzione sul Melody Maker in Ian Hunter Patterson, nato nel 1939 a Shrewsbury, cantante e pianista innamorato di Jerry Lee Lewis, il quale con quell'aria enigmatica e quegli occhiali scuri aderiva proprio all'immagine che Stevens aveva in mente. La band che per il momento si faceva chiamare Savage Rose & Fixable iniziò a provare al Pied Bull nel quartiere londinese di Islington e nelle prime registrazioni si trovano le cover di Laugh At Me di Sonny Bono e At The Crossroads del Sir Douglas Quintet di Doug Sahm.  Mutato il nome in Mott The Hoople la band inizia ad esibirsi nei club e a destare curiosità proprio per l' unicità di riversare il ruvido gesto degli Stones nelle liriche ballate di Dylan, un compromesso che fu possibile grazie all'inconfondibile apporto ritmico di Overend Watts, all'uso delle due tastiere, alla cruda ed efficace tecnica chitarristica di Mick Ralphs e soprattutto alle lunari e meditabonde ballate scritte a cantate da Hunter.  Per il primo album si pensò addirittura ad un titolo come Talking Bear Mountain Picnic Massacre Disaster Dylan Blues se on fosse che Guy Stevens capì lo scarso appeal di un nome così derivativo ed incitò la band ad aggiungere qualcosa di più rock alle ballate. Cosa che immediatamente avvenne con la scrittura e l'esecuzione di Roack and Roll Queen, un anthem che puzzava di Stones e glam fino al midollo. Diviso tra graffi elettrici e ballate l'album omonimo pubblicato nel 1969 e primo CD di questo box testimonia di una band fuori dai clichè dell'epoca, da una parte la riproposizione del rock n'roll in forma schietta e decisa, ovvero come portare i Kinks a Memphis, dall'altra la sensibilità del songwriting di Hunter resa evidente nella meravigliosa versione di At The Crossroads, in Laugh At Me e in Backsliding Fearlessly, un omaggio talmente evidente a Dylan da sembrare uscito da un suo disco. Ma l'album si apre con una versione strumentale di You Really Got Me dei Kinks, riproposto nelle bonus tracks con una convulsa e arrembante full take di undici minuti ed un altro mix con la voce dello stesso Guy Stevens. Scrivono sostanzialmente in due, Mick Ralphs e Ian Hunter, tra le tracce del primo spicca oltre a Rock and Roll Queen l'epica (oltre dieci minuti) Half Moon Bay, monumentale dimostrazione della schizofrenia musicale della band, autentica anomalia nel già contradditorio paesaggio rock del 1969, contraddistinto da una molteplicità di segni, dal disastro di Altamont alla transizione di Hendrix nella Band Of Gypsies, dall'uscita di Led Zeppelin alla nascita del prog con King Crimson e Van Der Graaf Generator, dai semi punk sparsi da MC5 e Stooges al mondiale successo commerciale dei Creedence Clearwater Revival. Tra le otto bonus tracks aggiunte alle otto tracce dell'originario album Mott The Hoople vale la pena di citare due versioni di Road To Birmingham di Ian Hunter, canzone antirazzista che traccia un parallelo tra la Birmingham inglese e quella americana per gli identici problemi di accettazione ed integrazione della popolazione di colore. 

 
Con a bordo il tastierista Verden Allen ed il batterista  Dale "Buffin" Griffin, i Mott The Hoople tornarono nell'agosto del 1969 alla Batcave di Riccione prima di girare nel circuito dei club inglesi costruendosi la fama di eccitante nuovo set dal vivo, prefigurando per via del loro abbigliamento, dei loro stivali con le zeppe e della loro poca indulgenza verso gli assoli chilometrici, l'arrivodel glam. Così definì la situazione il chitarrista Mick Ralphs " non eravamo come le altre band dell'epoca, tutti quei gruppi che si prendevano troppo sul serio e si lanciavano in quegli assoli interminabili. Noi eravamo un po' più radicali, diversi ed eccitanti, anche un po' pericolosi, ma riuscimmo a costruirci una affezionata base di pubblico che ci veniva a vedere ovunque suonassimo. Dovunque andassimo provocavamo interesse e disordine".
 
Le dieci mila copie vendute del disco indussero i Mott, dopo l'incessante serie di show, a tornare in sala di registrazione con Guy Stevens di nuovo nelle vesti di produttore ma l'incalzante follia di quest'ultimo attribuibile ad un sempre più massiccio uso delle anfetamine ed il drammatico divorzio patito da Ian Hunter, conferirono a Mad Shadows un aspetto sinistro, un pazzo esercizio sonoro nel caos e nell'oscurità. I Mott occuparono lo studio 1 degli Olympic Studios con Andy Johns e Chris Kimsey messi di fianco a Stevens, mentre nello studio 2 c'erano gli Stones a provare Brown Sugar. In quella situazione Mad Shadows fu, come affermò lo stesso Stevens, "un incubo creativo". Una delle canzoni che fotografa lo stato esistente è When My Mind's Gone di Ian Hunter la cui voce soul torturata su un pianoforte blues diventa una diretta confessione della precarietà psicologica esistente in quel momento all'interno del collettivo.  Il disco ancora oggi emana una sua bellezza e profondità amplificando la schizofrenia stilistica del primo album, da una parte gli sguaiati e crudi rock n'roll del genere di Thunderbuck Ram ( la versione nelle bonus tracks è ancora più tirata e zeppeliniana),di Threads of Iron, quasi una anticipazione heavy-metal, e di Walkin' With a Mountain,  oltre alla rabbiosa You Are One of Us, e dall'altra le ballate dylanesche di Hunter, la superba No Wheels To Ride con Ralphs in gran spolvero,una I Can Feel con Hammond alla Procol Harum ed una melodia che si pappa tutte le presunzioni prog prossime a venire, oltre alla sofferta e pianistica  When My Mind's Gone. Anche in questo caso otto bonus tracks aggiunte alle sette del disco originario. Ci sono la versione demo di No Wheels To Ride, le inedite Moonbus (Baby's Got A Down) e The Hunchback Fish e la versione studio di Keep a Knockin' di Little Richard.
La pubblicazione di Mad Shadows ebbe delle complicazioni, la foto dei musicisti con maschere d'argento e tuniche da monaco fu sostituita con una  copertina dal vago sapore satanico. Il primo tour americano dei Mott The Hoople iniziò il 29 maggio del 1970 a Detroit e raggiunse l'apoteosi  al Pop Festival di Atlanta quando il gruppo si esibì davanti a 400 mila persone. Dopo meno di un anno la loro reputazione era cresciuta a dismisura, erano una selvaggia live band che faceva della musica americana con attitudine inglese. Il nuovo disco aveva però sancito le distanze con Guy Stevens, non più il sesto Mott ma un uomo in preda ad un delirio autodistruttivo. I Mott The Hoople cessarono di essere la band di Stevens nel momento in cui Ian Hunter scrisse  When My Mind's Gone, questi era ormai la figura centrale e carismatica della band sebbene sia Ralphs che Watts sembravano indispensabili nella loro economia sonora, e così scelsero di autoprodursi andando a registrare il terzo album Wildlife tra novembre e dicembre del 1970 agli Island Studios di Londra.  La scelta dell'overdubbing piuttosto che una registrazione live accontentava le suggestioni country-rock di Mick Ralphs che con Whiskey Women dedicata alle groupie del Whisky A Go-Go di Los Angeles, con Wrong Side of The River, con l'ariosa It Must Be Love e con la cover di Melanie Lay Down sbarca in California.  I titoli di Ralphs provenivano dalle session di Mad Shadows ma rimessi a nuovo per Wildlife finirono per non accontentare sia lui che Hunter, incerti su una produzione reputata troppo diluita, troppo "per bene". Personalmente reputo Wildlife un ottimo album proprio per quell'umore pastorale e autunnale che già la foto di copertina trasmette, in linea con le copertine dei dischi del periodo di Traffic, Jethro Tull, Spooky Tooth guarda caso tutte produzioni Island. Le ballate suonano sontuose, la voce di Hunter è sofferta e melodrammatica in Waterlow, la malinconia diventa struggente in Angel of Eight Avenue, una delle più grandi New York song mai scritte, e l'autobiografica Original Mixed Up Kid arriva ad evocare il country-pub-rock dei primi Brinsley Schwartz. Dal vivo è la lunga e rovente Keep A Rockin' di Little Richard dove Hunter sciorina tutto il suo amore per Jerry Lee Lewis. Nelle bonus tracks sono riportati titoli usciti a 45 giri (The Debt, Midnight Lady, Downtown) più altro materiale tra cui gli inediti The Ballad of Billy Joe di Hunter, Growing Man Blues, Long Red  e la cover di Neil Young Downtown. Con Wildlife i Mott riescono a conservare la nostalgia di Dylan in una salsa chutney di sapore inglese e a dispetto della loro sauvagerie dal vivo, in studio riescono a declinare le immagini tipiche del rock in liriche sottilmente personali con canzoni d'amore  su passati fallimenti e quotidiani turbamenti, senza perdere il sottile umorismo british.

 
A causa della tiepida accoglienza ricevuta da Wildlife, i Mott tentano la carta del singolo da classifica, si fanno aiutare dal produttore dei Vanilla Fudge George "shadow" Morton e a metà del 1971 pubblicano Midnight Lady ( bonus nel terzo CD) guadagnandosi un passaggio a Top of the Pops. Il retro del singolo è occupata da un'altra bonus qui riportata, ed è l'ennesima ballata firmata da Hunter, The Debt. Ma il punto climax dei loro anni con la Island, almeno per quanto riguarda le esibizioni, è il concerto alla Royal Albert Hall di Londra nel secondo anniversario della loro esistenza. Un concerto pazzesco iniziato in sordina  con cinque brani lenti tra cui la versione di Like a Rolling Stone e poi impennato a tal punto da generare una risposta di pubblico ed un caos pari alla Beatlemania. Sedie rotte, danni al locale, l'entusiasmo dei presenti debordò fino a mettere a dura prova lo storico teatro londinese a testimonianza di quanto fossero trascinanti i Mott in concerto e quanto fosse travolgente ed eccitante il loro show. "Facevamo ogni cosa contro le convenzioni-ha detto lo scomparso Mick Ralphs-era l'attitudine punk in un'era pre-punk, portavamo la gente al delirio e la loro reazione poteva essere incontrollata tale da causare danni all'edificio. Ma non facevamo nulla affinché le persone si mettessero le une contro le altre, solo eccitazione ed entusiasmo con la musica".

Sapendo che il contratto con la Island era ormai in scadenza, i Mott tentarono col nuovo album di recuperare la primitiva energia degli esordi. Guy Stevens in uno dei suoi momenti di lucidità obbligò la band a riregistrare live e a rinominare alcuni brani che avevano gi inciso. Così How Long divenne Death May Be Your Santa Claus, compare One of The Boys che sarà pubblicato come singolo solo nel 1972, e Mental Train fu reinventato come The Moon Upstairs. Nel lotto entrarono una canzone di Dion sulle dipendenze, Your Own Backyard ed un personale rifacimento di Darkness, Darkness degli Youngbloods. Anche Verden Allen si mette a scrivere, nella sua Second Love si sentono perfino delle trombe dal vago sapore mariachi ed in Mental Train il suo moog apre a sonorità progressive. Ma pur spostando di poco il loro baricentro verso il montante hard-rock, i Mott non snaturano la loro indole e la devastante ballata The Journey stabilisce le coordinate della loro musica e l'abilità di Ian Hunter nello scrivere e cantare canzoni che lacerano il cuore. Quello che avrebbe dovuto intitolarsi prima come Brain Damage e poi Bizarre Capers esce come Brian Capers, ultimo album di una storia ancora lunga ma completamente diversa, il cui secondo capitolo sarebbe iniziato di lì a poco con All The Young Dudes.
Brian Capers uscì nell'agosto del 1971 e Guy Stevens lo volle dedicare a James Dean nel significato di ribelli con una causa da perseguire che furono i Mott The Hoople tra il 1969 ed il 1971. Il mese seguente la band si esibì in un trascinante concerto al Fairfield Hall di Croydon dove misero in campo i furiosi nove minuti di You Really Got Me, una medley tra la loro No Wheels To Ride e Hey Jude dei Beatles, una versione punk-rock di Keep a Knockin' di Little Richard, i loro due cavalli di battaglia Rock and Roll Queen e Thunderback Ram e pure Ohio di Crosby,Stills, Nash & Young. Tutto ciò viene documentato nel sesto CD del box Mentail Train, compresa la registrazione live effettuata per Radio 1 della BBC nel dicembre di quell'anno con The Moon Upstairs/Whiskey Women/Your Own Backyard/ Darkness,Darkness/The Journey e The Death May Be Your Santa Claus. Ma è il possibile canto del cigno, all'inizio del 1972 la band è percorsa da tensioni interne e non basta la registrazione di Black Scorpio e Ride on the Sun per un  nuovo album per rimettere in sesto la situazione. Ci penserà David Bowie, ma in quei due anni a cavallo di due decadi i Mott The Hoople furono davvero un'esplosione di caos controllato, lucida pazzia e ballate disperate in grado di lasciare un impronta futura nel rock, sia si tratti di glam o di punk e di quello che poi sarà definito americana. Tanti i loro sostenitori, a cominciare da Jeff Tweedy e Joe Strummer, come disse Mick Jones " se non fosse stato per loro non ci sarebbero stati nemmeno i Clash".
Il quinto CD di Mental Train, assemblato per l'occasione riassume dodici ballate dei Mott con un frammento di Like A Rolling Stone e diversi inediti, ulteriore celebrazione di una band che con la sua musica aveva costruito un ponte tra le due sponde dell'Atlantico.
 
MAURO  ZAMBELLINI        OTTOBRE 2018
 

 

 

 
 
 

 

 

lunedì 12 novembre 2018

Cartoline dal Sud: 2) NASHVILLE, TENNESSEE

 
Il mio quarto viaggio nel sud-est degli Stati Uniti inizia a Nashville, città che non avevo mai visto, e si concluderà dopo quindici giorni a New Orleans, città che ormai conosco quasi a memoria ed ogni volta ci torno volentieri. Siamo in tre, con me ci sono Roberto, l'organizzatore dell'Ameno Blues, anche lui fortemente motivato dalla musica, e Gigi, storico compagno di venture più o meno proibite. A Nashville via Londra arriviamo la sera del 2 ottobre, ci staremo tre giorni, pochi ma quanto basta per farsene un'idea. Il viaggio è lungo, i giorni non sono molti, bisogna calibrare bene le tappe e Nashville offre molti punti di interesse, soprattutto musicali. Non è una città bellissima ma sono poche le città americane che possono fregiarsi di un simile apprezzamento, i paragoni con le città europee sono fuorvianti. 

Sarà per la musica, la  centrale Broadway piena di locali e di negozi di stivali e il Cumberland River che la attraversa ma Nashville mi ricorda un po' Austin anche se quest'ultima è più calda e colorata per via delle sue influenze messicane e la sua skyline non me la sono ancora oggi tolta dagli occhi. Insomma la preferisco ma Nashville  vanta  più musei musicali  oltre che un intero quartiere, Music Row, interamente dedicato all'industria discografica. Sbarazziamo il campo sul fatto che Nashville voglia dire solo country music, affatto, a Nashville potete trovare di tutto, dal blues al rock a qualsiasi sottogenere che il sud degli Stati Uniti abbia partorito. E' vero che sta nel Tennessee, vicino agli Appalachi, ma qui il sud si comincia a sentire di brutto, anche nella cucina, sempre abbondante e over, specchio di quel more is better che stride con il nostro più raffinato less is better. Dopo una settimana non se ne può più di quelle montagne carbo-proteiche e si sogna una spartana aglio, olio e peperoncino. Ma tant'è.  Dicevo dei musei, dall'Hotel Clarion, a est del Cumberland River e vicino al Nissan Stadium, patria della squadra di football dei Tennessee Titans, dove siamo alloggiati, arrivare sulla centrale Broadway è un gioco da ragazzi ma è meglio spostarsi con la navetta perché in centro i parking sono carissimi. Appena imboccata la Broadway da sud ci si imbatte nel Johnny Cash Museum,

visita obbligata per chi ama e ha amato l'uomo in nero. Occhi e orecchie vanni in giuggiole tra copertine di dischi, fotografie, vestiti, cimeli, poster, chitarre, stivali, giacche, film e postazioni digitali dove è possibile selezionare le canzoni di Cash, anche nelle versioni di altri. La vita dello straordinario musicista nato nell'Arkansas ma di fatto legato a Nashville dove è morto nel settembre del 2003 dopo aver vissuto nella vicina Hendersonville, nel Tennessee, è raccontata per filo e per segno.

Come è noto gli americani hanno una storia che paragonata alla nostra è ridicola ma una cosa che sanno fare bene è valorizzare quel poco che hanno. Con tutte le nostre ricchezze artistiche, storiche e archeologiche dovremmo imparare da loro come si difende un patrimonio, non lo si lascia degradare e si fa business. Perché con la cultura si fanno soldi e si crea lavoro, nonostante qualche cretino affermi il contrario.

Se il Johnny Cash Museum è una piccola delizia, la  Country Music Hall of Fame è un imponente palazzo dedicato al cuore bianco della musica americana.  Non avere problemi di spazio garantisce esposizioni colossali, padiglioni dove è possibile esibire pure delle  automobili, qui è il caso dell'enorme Cadillac dello stilista country&western Nudie (quello delle giacche di Gram Parsons per intenderci) accessoriata di corna di vacca e di fucile saldato sul cofano posteriore. Oltre ad una serie di "gingilli" kitsch piazzati per tutta la carrozzeria dell'auto.

E' una delle stravaganze del Museo che al di là delle bizzarrie mantiene una rigorosità esemplare nel ricapitolare con foto, pannelli, cimeli, dischi, strumenti, poster, vestiti e quant'altro l'evoluzione della country music  con i suoi principali e più oscuri protagonisti. Dagli immigrati europei anglo-scoto-irlandesi e tedeschi coi loro archeologici strumenti e le loro arie, fino al country moderno, comprese quelle tondeggianti ragazzine bionde cotonate e truccate che cantano pop pensando sia country, sognando magari di diventare la nuova Dolly Parton. Altra stoffa. Ma c'è posto anche per emergenti interessanti come Sturgill Simpson e Chris Stapleton a cui hanno allestito apposite bacheche.  

Se tutto il Museo è top, ci sono due  sezioni che mi hanno deliziato in modo particolare, forse perché più vicine al mio sentire, e sono quelle dedicate alla carriera di Emmylou Harris ( Songbird's Flight), e soprattutto quella denominata Outlaws & Armadillos che attraverso una ricchezza di materiale impressionante  racconta del country fuorilegge degli anni 70 contaminato con il rock e con la scena di Austin. Dai pionieri del movimento tipo Tom T.Hall, Bobby Bare  fino ai veri apostoli di quel filone ovvero Waylon Jennings, Willie Nelson, Jesse Colter, Tompall Glaser, Kris Kristoffersson, Billy Joe Shaver, David Allan Coe,senza dimenticare i poeti Townes Van Zandt, Guy Clark, Jerry Jeff Walker e i cani sciolti Kinky Friedman e Terry Allen e i flatlanders Joe Ely, Butch Hancock e Jimmy Dale Gilmore.
 E' una sezione temporanea ma dura  fino al febbraio del 2021, interessantissima, favolosa, allestita in modo superbo con pannelli ricchi di foto e scritti dove viene spiegato tutto, anche i dettagli più nascosti. Varrebbe la pena visitare la Country Music Hall of Fame anche solo per questa sezione ma nel museo si accede anche allo storico studio B della RCA dove registrarono Elvis Presley, Waylon Jennings, Dolly Parton e altri famosi. Due ore e mezzo di visita e non sentirli, da evitare invece lo shop, prezzi elevati anche nei dischi e oggettistica super turistica. Meglio quello del Johnny Cash Museum.

Ascoltare musica sulla Broadway è la cosa più semplice di questo mondo, già dalle 10 di mattina i locali versano birra, friggono alette di pollo e patatine ed esibiscono musicisti in tutte le salse.

Dallo scoppiettante gruppo di giovani country-rockers a folksinger al femminile che strimpellano davanti a tre persone ancora assonnate, da scafati cowboy che amplificano in modo chiassoso il classico Nashville sound a piccoli combo che mischiano honky tonk e rockabilly, ce n'è per tutti i gusti e si può girare da un locale all'altro (gli ingressi gratuiti e si può evitare di bere ad ogni tappa) senza per forza di cose ubriacarsi. Il più interessante di questi locali, per l'arredamento interno, i cimeli , la qualità della birra e delle signorine al banco è il Nudie's Honky Tonk, inventato dallo stesso Nudie e dislocato a fianco del celebre negozio di dischi di Ernest Tubb, dentro il quale c'è una
ampia selezione di country, bluegrass e affini con la parte finale occupata da un altare dedicato a Loretta Lynn. Per due giorni di seguito attorno a mezzogiorno al Nudie's Honky Tonk  mi è capitato di ascoltare un brillante gruppo country-rock di cui non ricordo il nome che visto alle nostre latitudini farebbe il botto. Ma anche lì l'apprezzamento era notevole ed il secchiello dei tips ben pieno. Ma i locali migliori per ascoltare musica non stanno sulla Broadway, bisogna andare in altri quartieri. A East Nashville per esempio divenuto il quartiere più in della città per insediamento artistico, atelier e ristoranti.  Ma una traversa della Broadway ospita una delle sale da concerto migliori d'America, la chiesa madre della musica country, il Ryman Auditorium.  Vale la pena una visita, anche se non la regalano, e se ha avete fortuna di capitare nei giorni giusti, un concerto. Annunciati erano Bob Weir, Boz Scaggs e Jason Isbell & 400 Unit, ma non nei giorni della mia permanenza a Nashville. Peccato.
 

Il quartiere chiamato The Gulch sta tra la Broadway ed il Music Row ed è un quartiere fighetto come se ne incontrano sempre più spesso nelle città americane. Anche Austin ne ha di simili. Negozi trendy all'europea, wine bar, veggie e sushi bar, atmosfera soft. Pure un piccolo supermercato con all'interno una tavola calda per poter mangiare senza avvelenarsi, accompagnati da ottima musica diffusa. Questa è una delle ricchezze americane, non il cibo intendo, ma la musica nei locali, almeno nel sud-est. Dai bar ai ristoranti, dalle tavole calde ai negozi, la musica è sempre "di livello", abbondanza di rock storico (non per forza classico) e roba nuova allettante e interessante che fa venir voglia di comprarsi il disco. Proprio lì nella tavola calda leggo su uno delle tante riviste  gratuite che riportano gli eventi della settimana,mi  sembra fosse il Nashville Scene, il concerto di tale Kristina Murray, che dalla presentazione sembra essere una delle promesse del songwriting di Nashville. Prendo nota, mi piace viaggiare seguendo l'input del momento, difficilmente programmo un viaggio attorno a grandi concerti almeno di non andare appositamente, preferisco lasciarmi trasportare da ciò che viene e prediligo ambientazioni piccole, club, bar, juke joint.
Comunque sono arrivato a The Gulch perché allo Station Inn , locale ruspante e confortevole di Pine Street, si esibisce Jack Pearson, chitarrista e cantante che tra il 1997 ed il 1999 fu nella  Allman Brothers Band. Ne uscì per questioni di tinnito ma non ha mai abbandonato la musica divenendo un musicista molto seguito dalla comunità di Nashville ed in genere da tutti gli appassionati di rock-blues. Un vero mago della chitarra, stimato e apprezzato, richiesto in festival e concerti ma limitato negli spostamenti causa la sua paura di volare.  E' di casa allo Station Inn dove ci suona mediamente una volta al mese, ed il locale, in realtà non troppo grande, è gremito. Si esibisce in trio col batterista Joshua Hunt ed il tastierista Charles Treadway che per tutto il concerto farà scorrere le sue dita su un  Hammond che regala pienezza al suono del combo. Un suono fluido e pastoso, un mix di rock, blues e jazz che Jack Pearson, capelli lunghi, baffoni bianchi, aspetto piuttosto dimesso, terrà ancorato a paesaggi allmaniani. Pearson è un virtuoso dal tocco elegante e dal fraseggio melodico, non ha una voce formidabile ma le sue qualità li sfodera tra le corde della chitarra creando quel suono a ruota libera che trova compimento nella splendida versione di In Memory of Elizabeth Reed, molto applaudita dai presenti. La performance è divisa in due lunghi set con una lunga pausa nel mezzo, il tempo per girovagare nel locale, comprarsi una t-shirt e ordinare delle birre, servite al banco da due signore anziane che contribuiscono a rendere lo Station Inn più un centro anziani che un rock club. Facile in questa pausa avvicinare Pearson, farsi firmare il suo Live in vendita all'entrata e strappargli la promessa di un intervista il giorno dopo, che non avverrà causa un forte raffreddore che lo costringerà a letto. Tra i titoli passati e riconosciuti I Can Fix It, World Gone Crazy, Real Hot Pepper, uno strambo rifacimento di Besame Mucho e la bella cover di As The Years Go Passing By, un brano che hanno suonato tutti, da Albert King a Fenton Robinson, da Eric Burdon a Santana, da Jeff Healy a Gary Moore. Lunghezze oltre gli otto minuti, brani che se non fosse per le pause per accordare le chitarre e asciugarsi il sudore, si unirebbero in una lunga ininterrotta jam. Prima dell'esibizione in trio, Jack Pearson in coppia col maestro del fingerpicking, l'australiano Tommy Emmanuel ha deliziato i presenti con un paio di numeri acustici di alta scuola.
 

Di tutt'altro tenore la sortita la sera seguente al The Basement un oscuro locale al 1604 di 8th Ave. South, periferia sud di Nashville. Arrivarci è un po' come uscire dalla città, abitazioni sparse, magazzini, qualche area abbandonata,  luci inesistenti ed una casa che sembra uscita da un film horror. L'indirizzo parla chiaro ma di musica  non se ne vede l'ombra, qualche asse di legno inchiodato in diagonale sulla porta suggerisce l'abbandono dell' abitazione, piuttosto cadente. Poi una luce che proviene dal retro indica il vero accesso, bisogna costeggiare una stradina laterale e ci si ritrova in un cortile sul retro della casa . L'atmosfera horror non cambio ma un tipo giovane sul ballatoio in legno antistante all'entrata maneggia un mazzetto di dollari, per cui capisco al volo come funziona. Otto dollari e tre band, mi pare conveniente. Due locali comunicanti  non molto ampi, poche sedie, un bagno sgangherato, un bancone per le birre con un barman maleducato, un piccolo patio per i fumatori ed una oscurità piuttosto inquietante. Pare di essere in uno scalcinato centro sociale o in una casa occupata ed invece è uno dei luoghi culto della musica underground, e non solo,  di Nashville. Naturalmente fili a vista che pendono come stelle filanti, impianto elettrico pre-bellico e ventole arrugginite che sparano aria fredda da bronchite. Un posto così in Italia lo chiudono ancora prima di aprirlo, invece negli States funziona e l'acustica è perfetta. Dopo aver maneggiato con cavi, amplificatori e microfoni sul palco, una band di cowboy texani parte senza presentarsi e pronunciare verbo. Una graziosa cantante con cappellaccio, jeans a zampa, capelli lunghi e chitarra a tracolla trascina la band sulle note di un classico country-rock elettrico aggiornato con una spigliatezza ed una freschezza giovanile. Siamo dalle parti del cow-punk ma le melodie sono il forte del loro set. 45 minuti di musica e non si smette un minuto di far andare il piedino.  Non mi preoccupo nemmeno di conoscere il loro nome, nell'oscurità basta la loro musica e la loro spontaneità. Dopo di che è la volta di Kristina Murray la star della serata. Nativa della Georgia, è oggi di casa a Nashville dove si è fatta un nome tra i songwriters della città e giornali e riviste parlano di lei. The Basement si è difatti riempito per il suo arrivo, un pubblico giovane , per età molto diverso da quello dello Station Inn. Supportata da una gruppo di cinque elementi, tra cui due tastiere, la bella Kristina infila una canzone dietro l'altra sfoggiando una bella voce ed una varietà tematica che la posiziona su quella strada indicata al tempo da Emmylou Harris e Linda Ronstadt che oggi arriva a Courtney Marie Andrews.
Un mix di troubadour storytelling, folk-rock, country-rock e accenni southern rock, cantato col piglio di chi si muove nell' underground ma ha ambizioni da grande. Un sound solido che permette diversi assoli di chitarre ed il dialogo tra pianoforte ed organo, Kristina Murray si fa prendere dal calore del pubblico e sciorina per intero i pezzi del suo Southern Ambrosia dove accanto ai nomi citati spuntano cenni di Jackson Browne,  sognanti ballate ed uno scoppiettante honky-tonk. Il disco è prodotto da  Michael Rinne ed è pubblicato dalla Loud Magnolia Records della stessa Murray. Da tenere presente, a Nashville sulla Murray sembrano scommetterci e gli applausi sono generosi. Quando, dopo un'ora la Murray lascia il palco, è il momento della terza band ma il fuso orario non è ancora stato smaltito per cui  la cosa migliore sembra essere quella di tornare in hotel. Arrivederci a Macon.

 

MAURO ZAMBELLINI  NOVEMBRE 2018