mercoledì 28 dicembre 2022

FOLLOW THAT DREAM L'esordio di Tom Petty and the Heartbreakers

Pubblicato originariamente sul N.458 del Buscadero (settembre 2022) questo è il primo di un trittico di articoli sulla carriera di Tom Petty. A seguire il resto

 

Sebbene nativi della Florida fu la Città degli Angeli a catalizzare la nascita di Tom Petty and the Heartbreakers. Il nucleo originario esisteva ben prima del 6 novembre 1976, data di uscita del loro esordio discografico, perché dalle parti di Gainsville, nella Florida settentrionale, i Mudcrutch erano diventati popolari tra quanti bazzicavano i club e i raduni della zona. Tom Petty era cresciuto nella difficile relazione col padre Earl, rappresentante commerciale, e la musica gli era parsa l’unica salvezza per evadere dalla famiglia e cercarsi un’alternativa. Nato nel 1950, era il classico figlio dell’età della televisione e probabilmente è questa la ragione per cui Los Angeles divenne nella sua mente il luogo ideale dove realizzare i propri sogni. Il primo incontro con il rock n’roll non fu difatti un jukebox ma un set cinematografico. Lo zio di Petty, Earl Jerrigan aveva il compito di perlustrare il tribunale di Ocala, 40 miglia a sud della casa di Petty a Gainsville, per una scena del film di Elvis Presley Follow That Dream  e invitò Tom ad accompagnarlo. Tom non conosceva il  Re del rock n’roll ma, incuriosito, accettò. Quando si trovò al cospetto di Elvis non disse una parola ma rimase visibilmente impressionato: “ sembrava di una specie irreale, come se stesse brillando, era sbalorditivo, quasi spirituale”.  Tom Petty quel giorno vide il suo futuro e rientrato a casa scambiò la sua fionda di marca Wham-O per un box di 45 giri di Presley. Tre anni dopo Petty ebbe un’altra visione cosmica quando assistette all’esibizione dei Beatles all’Ed Sullivan Show. Non passò molto tempo che convinse alcuni amici del quartiere a mettere insieme una band sul modello di quello che aveva visto e sebbene avesse solo quattordici anni capì che quella era la strada per evitare una vita mediocre.  Ci furono delle band scolastiche ma l’avventura vera e propria iniziò quando gli Epics si trasformarono in Mudcrutch. Ne facevano parte il chitarrista e cantante Tom Leadon,  il batterista  Randall Marsh e l’altro chitarrista Mike Campbell, ai quali poi si aggiunse il tastierista Benmont Tench. Petty si occupava di canto e basso ed il suo background abbracciava quel rock e quel beat che riusciva ad intercettare nelle radio locali. La scena musicale degli anni sessanta e primi settanta che si concentrava attorno all’Università della Florida era abbastanza fertile ma a Petty sembrò un segno premonitore che Bernie Leadon, il fratello maggiore di Tom, fosse emigrato a Los Angeles diventando un membro degli Eagles ed il più giovane Tom Leadon, rimpiazzato nei Mudcrutch da Danny Roberts, in California avesse trovato lavoro nella band di Linda Ronstadt. Agli occhi di Petty, Los Angeles  significava la mecca dei propri ideali, la città in cui tutto era possibile e i suoi sogni si sarebbero realizzati. In seguito il rapporto con la città non sarà così idilliaco e solo fonte di successo, causa la travagliata relazione con l’industria discografica. E difficoltoso sarà all’inizio farsi accettare nella scena californiana, sia coi Mudcrutch prima che con gli Heartbreakers poi, la stampa sarà piuttosto restia a considerare la loro musica un prodotto della West Coast preferendo scrivere di gruppo punk o southern rock o addirittura una band di heartland rock . Ma in quei giorni di gioventù è Los Angeles  il pantheon dove abitavano i miti di Petty che ascoltava alla radio, ovvero i Beach Boys, i Byrds, i Buffalo Springfield e i Flying Burrito Brothers.  Il primo viaggio nella Città degli Angeli Petty lo fa con Roberts e l’amico McAllister, è il 1974 e si portano appresso un demo dei Mudcrutch. Ma prima di arrivare in California si fermano agli studi della Capricorn Records a Macon dove la Marshall Tucker Band stava registrando il secondo disco A New Life.  Aspettarono tutto il giorno prima che qualcuno gli desse retta e ascoltasse il loro demo ma la risposta fu lapidaria : “troppo inglese questa roba, grazie e arrivederci ”.  Rivelò anni più tardi Petty che “in quel momento il Sud era inondato dalla musica della Allman Brothers Band e tutti, tranne noi, cercavano di imitarli. A noi piacevano gli Allman ma odiavamo le imitazioni, pensavamo che fosse una cosa stupida. Los Angeles rimaneva la nostra vera opportunità, là c’erano i Byrds, là volevamo fare quello che non potevamo fare in Florida”.



Prima di lasciare Gainsville, i Mudcrutch avevano già inviato il demo  di On The Street, registrato su due piste nel soggiorno della casa dei genitori di Benmont Tench, a varie case discografiche ricevendo unica risposta da Peter Welding, A&R della Playboy Records e storico del blues e del jazz che aveva lavorato con artisti “oscuri”, il quale pur rifiutando il materiale proposto ne analizzò i singoli brani mettendone in evidenza i difetti e suggerendo possibili migliorie. Arrivati a Hollywood, i tre si trovarono immersi in un mondo che non conoscevano e da ogni parte guardassero trovavano compagnie discografiche. Il feeling con la città fu immediato e la MGM offrì loro la possibilità di registrare un singolo. Presero tempo dopo che in un diner Petty si appuntò da un elenco telefonico i numeri di una ventina di etichette discografiche tra cui la Shelter, ubicata in un bungalow in una zona piuttosto fatiscente di East Hollywood. L’ufficio aveva però un aspetto pittoresco, il legno con cui era rivestito conferiva un fascino campagnolo in contrasto con il decor urbano di luci e cemento del sobborgo. Lasciarono lì il nastro dimostrativo e continuarono il loro giro interpellando anche le più titolate Capitol e London. Fecero in tempo a fare una sortita nel mitico Whiskey a Go-Go di West Hollywood rimanendo incantati dal luogo e dal pubblico che lo frequentava ma di fatto a Petty e compagni non rimase che tornare in Florida sperando  di ricevere qualche telefonata importante, che arrivò quando Denny Cordell, il produttore inglese che era stato alle spalle dei successi di Procol Harum, Moody Blues e Joe Cocker e co-proprietario della Shelter Records li chiamò. Aveva ascoltato il loro demo  e li invitò a fare tappa a Tulsa in Oklahoma dove Leon Russell, l’altro socio della Shelter, aveva allestito un suo studio in una vecchia chiesa. Cordell  incontrò i Mudcrutch al completo in una tavola calda di Tulsa e negli studi di Russell Petty e soci incisero una versione di Cry To Me  di Solomon Burke, I Can’t Fight It  ed una primitiva Don’t Do Me Like That  tutte e tre rintracciabili nel box antologico Playback del 1995. Il viaggio continuò fino a Los Angeles perché la Shelter era fermamente interessata a loro.  Anni dopo, Tom Petty confidò “ arrivai a L.A ed in una settimana avevo in mano il contratto, per disfarmene ci vollero parecchi anni”. Insieme a Petty c’era la nuova moglie Jane, sposata poco prima di lasciare la Florida, con cui diede al mondo la figlia Adria nel novembre del 1974. I Mudcrutch presero alloggio all’Hollywood Premier Motel in Hollywood Boulevard non molto distante dagli uffici della Shelter.  Passò del tempo prima che le cose in sala di registrazione funzionassero, i soldi scarseggiavano e la band fu costretta a spostarsi in due case affittate nella San Fernando Valley, a nord di Hollywood. Ma Cordell fu un vero mentore per loro ed invitò più volte Petty a raggiungerlo nel suo ufficio nell’orario di chiusura per fargli ascoltare i dischi più disparati, da Lloyd Price ai Rolling Stones, da Dylan al reggae, cose di cui il musicista era piuttosto a digiuno perché nei giorni di Gainsville con pochi soldi a disposizione non poteva permettersele e l’unica fonte rimaneva la radio. Fu una bonanza di informazioni e non solo discografiche. Il futuro batterista degli Heartbreakers, Stan Lynch mantiene un identico punto di vista a proposito di Cordell: “ero ancora molto giovane e non sapevo cosa significavano in termini musicali groove e feel. Lo chiesi a Denny il quale mi invitò ad andare con lui ad un concerto di Bob Marley and The Wailers. Mi fece accomodare sulla sua Ferrari, mi passò le chiavi e mi disse di guidarla, spronandomi ad accelerare. Una volta raggiunta una velocità sostenuta, mi disse, ecco cosa significa il groove. Al concerto, Marley ipnotizzò la platea con la sua performance, qualcuno  passò un joint attraverso la balconata, e Cordell disse, questo è il feel”.

La prima menzione sui Mudcrutch in L.A apparve il 31 agosto 1974 su Billboard, annunciava che stavano registrando con Cordell come produttore e Rick Heenan come ingegnere del suono al Village Recorder, uno studio ricavato negli anni sessanta da un tempio Masonico. Quegli studi furono fondamentali nella carriera di Petty ma il primo approccio non fu facile, pareva che i Mudcrutch  si trovassero meglio a registrare nel salotto di Tench che al Village Recorder ma nonostante tutto ne uscì un singolo, Depot Street, con venature reggae, e come B side un più commerciale Wild Eyes. L’idea di un singolo reggae può sembrare balzana conoscendo oggi la discografia completa di Petty ma al tempo la mossa non fu così strana visto che in quel 1974 Clapton scalava le classifiche con I Shot the Sheriff.  Comunque Depot Street non ricevette ne particolari attenzioni radiofoniche ne recensioni, a parte una segnalazione nella rubrica First Time Around di Billboard come nuovi artisti valevoli di ascolto. Le vendite furono inesistenti. La band uscì dallo studio delusa e senza nulla in mano se non un mediocre singolo reggae. La scena rock di Los Angeles era in completa evoluzione, i vecchi miti californiani erano in stand by o pagavano gli eccessi del passato, ed il Sunset Strip era preso d’assalto da nuove e giovani band punk e new-wave. Nell’etere teneva banco un certo Rodney Bingenheimer sulla stazione radio KROQ col programma Rodney on the ROQ dove passava la nuova musica emergente della città.  Nel frattempo i Mudcrutch avevano perso Danny Roberts che aveva fatto ritorno in Florida e al suo posto venne reclutato Charlie Souza, un veterano della scena rock di Tampa con i Tropics. Dal momento che i soldi per le registrazioni erano esauriti, Petty e company furono indirizzati nello studio casalingo di Leon Russell a Encino dove per qualche mese tentarono di incidere qualcosa. Charlie Souza fece in tempo a partecipare alla versione dei Mudcrutch di  Don’t Do Me Like That il singolo che avrebbe lanciato qualche anno più tardi l’album Damn The Torpedoes e segnato in modo indelebile la carriera degli Heartbreakers. La canzone era stata scritta al pianoforte da Petty agli Alley Studios e sempre nello studio di Russell fu registrata Hometown Blues , poi finita nell’esordio degli Heartbreakers, con Randall Marsh alla batteria, Charlie Souza al sassofono e Donald “Duck” Dunn al basso. Ma in ultima analisi le session furono piuttosto fallimentari e Cordell fu costretto a convocare Petty nel suo ufficio dicendogli che le perdite erano tali da imporgli di licenziare la band ma, credendo ciecamente in lui, era disposto a rinegoziare il contratto con la Shelter come  solista. Situazione analoga a quella capitata sempre a Los Angeles quando la Liberty si sbarazzò degli Hourglass ovvero del nucleo originario degli Allman tenendosi stretto il solo Gregg Allman.


(foto estratta da Rick's Airport Recorders)

Tom Petty con la moglie Jane si spostò a vivere al Winone Motel e cominciò a lavorare al suo disco solista negli studi della Warner Bros.  di Burbank ricevendo ancora una volta una telefonata da Leon Russell, il quale lo coinvolgeva in un progetto ambizioso. L’idea di Russell era pianificare un album in cui ogni brano avrebbe goduto di un produttore diverso offrendo a Petty la possibilità di scrivere assieme al lui alcune canzoni. Lo portò a casa di Brian Wilson, gli fece conoscere Ringo Starr,  George Harrison e il  batterista Jim Keltner che in quel mentre si trovavano a L.A e poi Terry Melcher il produttore di diversi hits dei Byrds. Fu una esperienza formativa per Petty entrare in contatto e vedere all’opera simili leggende, anche se alla fine non fu accreditato di nessun brano sebbene la sua Satisfy Yourself  fu riscritta da Russell come I Wanna Satisfy You e apparve nel disco del 1976 di quest’ultimo, Wedding Album, col titolo di Satisfy You. Nello stesso tempo sebbene Dennis Cordell gli avesse messo a disposizione musicisti come Al Kooper e Jim Keltner,  le session per il nuovo disco di Petty non produssero molto se non la romantica Since You Said You Loved Me e la prima versione di Louisiana Rain entrambe contenute in Playback.  Da parte sua Benmont Tench era rimasto a L.A dopo la dissoluzione di Mudcrutch formando un suo gruppo e nel sottobosco musicale di Hollywood era rimasto anche Mike Campbell. Del giro faceva parte anche il bassista Ron Blair che telefonò al batterista Stan Lynch per proporre assieme agli altri due una session con Tom Petty.  La luce si accese, così anni dopo rivelò Petty “Benmont li aveva portati tutti lì e di colpo vidi gli Heartbreakers nascere. Quella era la mia casa”. In verità Randall Marsh, presente in quelle session, non fu incluso nella iniziale line up, al suo posto c’era Jeff Jourard presente nelle prime foto pubblicitarie del gruppo. Quest’ultimo fece in tempo a mettere la sua chitarra in alcuni brani dell’album d’esordio, come nella strepitosa Strangered in the Night e partecipare alla prima uscita di Tom Petty and Nightro al Van Nuys Recreation Center il 19 marzo 1976. Quando Cordell coniò il nome Heartbreakers  scartando Tom Petty and the King Bees la band era già in pista di decollo con Campbell, Tench, Lynch e Blair. Il nome di Tom Petty rimaneva in primo piano, sostanzialmente perché il contratto discografico era a suo nome, e lui sarebbe rimasto se la band non fosse riuscita a prendere piede. Fu reclutato il roadie Alan “Bugs” Weidel che divenne il confidente ed il braccio destro del leader. Molti dei brani dell’album d’esordio degli Heartbreakers furono registrati negli studi della Shelter fatti costruire da Cordell in un vecchio night club armeno dove l’unica vista esterna era un teatro gay porno. In quindici giorni di duro lavoro nell’estate del ’76 vennero messe a punto Fooled Again (I Don’t Like It)  negli studi della WB e Mystery Man registrata live in una sola seduta  agli A&M Studios precedentemente chiamati Charlie Chaplin Studios perché lì il regista ci girò alcuni suoi film, nelle sale della Shelter nacque invece uno dei brani più famosi della discografia di Petty ovvero American Girl, registrata nel giorno del bicentenario il 4 luglio 1976. Molti asserirono che il tema della canzone fosse il suicidio di una studentessa dell’Università della Florida, l’autore spiegò invece che più semplicemente fu scritta a proposito del traffico a ridosso  dell’appartamento in cui viveva. “Abitavo in un appartamento a Encino vicino alla freeway e le macchine passavano in continuazione. Il rumore aveva su di me l’effetto delle onde dell’oceano. Era il mio oceano, la mia Malibu dove sentivo la risacca delle onde, ma invece erano le auto che sfrecciavano. Ispirarono il testo, era il giorno del bicentenario, c’erano tante cose americane che giravano attorno, era tutto rosso, bianco e blu”.   Altro pezzo da novanta dell’album è Breakdown , cavallo dei suoi concerti, scritta al pianoforte comprato proprio in quei giorni. Confrontati ai Mudcrutch, da subito gli Heartbreakers si rivelarono più sapienti e consci delle proprie possibilità, il processo di scrittura e la registrazione furono molto più facili e naturali, le canzoni vennero fuori quasi spontaneamente, registrate per di più dal vivo. “ Eravamo molto eccitati, non avevamo paura di sperimentare qualsiasi cosa, era una gioia suonare insieme e fummo orgogliosi di quello che facemmo”.  Ancora oggi l’album Tom Petty and the Heartbreakers suona come uno dei debutti migliori nella storia del rock americano, canzoni divenute la forza delle esibizioni live nelle decadi successive come Breakdown, Anything That’s Rock and Roll, American Girl, Fooled Again, scampoli di cosmica psichedelia come in Luna, misteriose ballate come Strangered In The Night e Mystery Man  e soprattutto quella diffusa attitudine nel rinfrescare un rock a stelle e strisce che nella seconda metà degli anni settanta si stava imbolsendo.

Ad eccezione di Rockin’ Around (With You) co-scritto con Campbell, tutti i brani sono accreditati a Petty, il disco fu pubblicato il 9 novembre 1976 e ricevette ovunque recensioni positive. Billboard lo incluse nel suoi “LP raccomandati”, Breakdown entrò nella heavy rotazione della stazione radio KWST e nella classifica di Billboard,   la rivista Sounds disse che il disco incorporava il suono delle band degli anni sessanta ma rimaneva puro ed unico, Robert Hilburn sul Los Angeles Times definendolo l’album dell’anno, scrisse che “come la musica dei Rolling Stones, la musica di Tom Petty guadagnava dopo ripetuti ascolti tanto da diventare seduttiva, era la miglior dose di puro mainstream rock da parte di una band americana dai tempi di Rocks degli Areosmith”.  Tom Petty and the Heartbreakers  ancora oggi mantiene la sua solidità e non soffre il tempo, è sfaccettato come un mosaico con quei molteplici rimandi ai Beatles, agli Stones, a Eddie Cochran, alle garage band dei sixties, cantato con la passione di un vero rocker compulsivo. L’uscita permise alla band di andare in tour nella East Coast e soprattutto di apparire più volte in quell’agognato Whiskey A-Go-go fin dai tempi dei Mudcrutch. Divisero il palco con Blondie nel febbraio del 1977 e ci ritornarono per due show nell’aprile seguente, poi “aprirono” per Bob Seger al Winterland di San Francisco.  Andarono in tour per sette settimane in Inghilterra toccando anche Francia, Germania, Svezia e Olanda, paesi dove il singolo American Girl/Anything That’s Rock n’ Roll stava sbancando ma l’impressione, una volta tornati a casa, appena scesi  dall’aereo fu quella di sentirsi di nuovo delle nullità. Non era così, in California il loro nome era ormai sulla bocca di tutti ed il mondo intero li stava aspettando, bastava solo avere un po’ di pazienza. Singolare in quei giorni fu l’incontro tra Petty ed uno dei suoi miti, Roger McGuinn, il quale gli confidò di aver ascoltato American Girl ma di non ricordarsi quando l’aveva incisa. Timoroso Petty gli fece presente che “ mi spiace sir, ma veramente quella è una mia……” al ché McGuinn lo tolse dall’imbarazzo complimentandosi per la bellezza della canzone e manifestando la volontà di interpretarla”. “Grazie sir-ribatté  Petty-avete la mia benedizione”.. Di nuovo Hilburn sulle colonne del L.A Times dichiarò American Girl come il singolo rock debutto dell’anno e ciò non fece che lievitare la popolarità della band, finalmente adottata dalla scena musicale californiana. Ma l’episodio che più di ogni altro focalizza le bizzarrie di quel periodo pionieristico e chiude il cerchio, è ciò che racconta Petty nelle note annesse al box Playback : “ ero a casa a Los Angeles e fu un giorno davvero strano perché fu la prima volta che mi sentii alla radio. Stavo ascoltando KROQ e appresi che Elvis era morto, rimasi sbigottito e, potete non credere, ma KROQ non aveva a disposizione nessun disco di Presley. Inaudito. Allora per supplire alla mancanza misero sul piatto alcuni artisti che Elvis aveva ispirato e scelsero proprio me. Fui stupito ma mi sembrò assurdo che una stazione radio specializzata in new wave e punk non avesse un disco del Re del rock n’roll. Una situazione davvero surreale, la cosa più strana che mi sia mai capitata, essere il sostituto di colui che più di ogni altro mi aveva indicato a seguire un sogno……. poi a mente fredda, riflettendo mi sono detto…..beh ogni generazione ha bisogno delle proprie band”.

Mauro Zambellini




 

lunedì 14 novembre 2022

BRUCE SPRINGSTEEN Only The Strong Survive


 

Se Only The Strong Survive rientra nella rilettura che da un po’ di anni Bruce Springsteen fa della propria storia personale, a cominciare dalla pubblicazione dell’autobiografia e dal confessionale di On Broadway nonché con la ripresa dei tre brani “antichi” di Letter To You, il percorso è logico perché a detta dello stesso le quindici canzoni del nuovo disco fanno parte della sua adolescenza, ciò che aveva amato da ragazzino zeppo di sentimenti d’amore, quando il soul degli anni 60 usciva dalla radio di casa, era compagna della vita famigliare domestica, in particolare di sua madre. Ma c’è un’altra storia che magari i recenti fans di Bruce non hanno conosciuto ed invece ha coinvolto i tanti che lo hanno accompagnato fin dagli albori della sua carriera, dai giorni in cui sembrava un hippie con gli Steel Mill. Siamo stati abituati ad altro, e quando l’artista prese in mano nelle sue strabordanti performance il soul, sia che fosse quello dei Temptations (Ain’t Too Proud To Beg), sia quello delle Ronettes, di Darlen Love e di Dion o di Marvin Gaye (Ain’ That Peculiar) o Curtis Mayfield (Gypsy Woman), di Sam Cooke (Havin’ A Party) e i Drifters (Under The Boardwalk) , di Solomon Burke (Down In The Valley) e di Gary U.S Bonds, di Dobie Gray (Drift Away) e di Bobby “Blue” Bland ( Turn On Your Love Light), di Wilson Pickett (Funky Broadway, Midnight Hour) e di Ernie K.Doe, di Eddie Floyd (Raise Your Hand) e di Edwin Starr (War), di Sam&Dave (Soothe Me) e di Arthur Conley (Sweet Soul Music), di Rufus Thomas (Walkin’ The Dog) e della Detroit Medley, non era quella colata di zucchero filato che esce dai quindici ripescaggi di Only The Strong Survive, decisamente più orientato verso il lato più morbido del genere, quasi innocuo visto che di temi su diritti civili e razzismo di cui le canzoni soul sono piene, qui non c’è traccia. Eppure l’intento di Springsteen era rendere giustizia agli autori di quella musica gloriosa ed in più in generale alla Black America; ha preferito soffermarsi invece sugli struggimenti del cuore, le lacrime e la tristezza di un abbandono, e in un periodo di divisioni come questo può suonare terapeutico, anche se la sua storia sembrava più coerente con l’intensità e quella profondità di impegno sociale dei suoi testi o in ambito di cover, di lavori come le Seeger Sessions. Non avrebbero sfigurato Donnie Hathaway, Marvin Gaye, Otis Redding e Curtis Mayfield tra gli autori scelti per il nuovo disco, piuttosto che un baricentro spostato verso Motown, Philly Sound e sviolinature a destra e a manca.  Poche concessioni alla Stax, alla Hi Records, alla Atco, alla Fame, a Memphis e Muscle Shoals, quando va bene c’è la ripresa di un brano “minore” della Motown di Frank Wilson, Do I Love You (Indeed I Do) che swingata ad hoc è uno dei pezzi più trascinanti dell’album, al contrario dell’altro singolo, Nightshift dei Commodores che invece è una precisa opzione, estetica e culturale. Il vecchio Bruce ci aveva promesso meraviglie e credevamo che la storia fosse andata avanti all’infinito perché accanto alla storica soul music arrivarono nel suo background gli Animals, i Beatles, i Rolling Stones, i Manfred Mann, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison e allora disorienta pensare ad un artista che oggi si diverte con un soul così annacquato e lontano dalle sue radici. Libero di fare ciò che vuole, benintesi e non contesto l’idea di un disco di soul music ma di quali arrangiamenti, di quali canzoni selezionate e di una veste sonora interamente in mano al solo Ron Aniello ( secondo chi scrive il responsabile del decadimento musicale del nostro), salvo sporadici interventi (Sam Moore), i cori e i fiati dei E-Street Horns. Non per forza di cosa attingere al repertorio di Otis Redding, di Wilson Pickett, di Solomon Burke, di Sam&Dave o di Curtis Mayfiled voglia dire recuperare i loro hits e gli standard, perché la musica soul costituisce un bacino così ampio da permettere brani meravigliosi anche se poco noti. Basta sentire cosa hanno fatto Eddie Hinton e Willy DeVille, Paul Rogers e Boz Scaggs, o addirittura l'amico Southside Johnny, per rimanere tra alcuni visi pallidi del rock che hanno cantato il soul.  Bruce Springsteen ha scelto altrimenti evocando l’America dell’innocenza con canzoni peraltro piacevoli da ascoltare alla radio o durante la tombola natalizia, un album carino e innocuo ( termini che non avrei mai pensato di usare per una recensione di un disco del Boss), più che soul un disco pop e vintage.  Poca anima e interpretazioni spesso didascaliche, rari i guizzi, tantomeno il coraggio nel trasformare un vecchio brano in qualcosa di veramente “suo”, assenza di una band, anche fossero dei sessionmen, dominano invece gli arrangiamenti ampollosi e carichi (il soul ha bisogno di archi, violini e trombe ma non è obbligatorio estenderli in tutti i brani), la sensazione è di un professionale lavoro di consolle. Sam Moore il nome che più lega questo Springsteen al soul con cui infiammava i concerti degli anni settanta e ottanta interviene  in Forgot To Be Your Lover, dal repertorio dei Four Tops arrivano When She Was My Girl con un taglio dance da Philly Sound ( la incisero nel 1981 per la Casablanca quando già dominava la Disco music) e 7 Rooms of Gloom incalzante e sincopata come nello stile del quartetto di Detroit, mentre dagli archivi del southern soul esce Any Other Way di William Bell. Sono tra le cose migliori del disco, quest’ultima impreziosito da un buon lavoro di sax nelle retrovie. L’arcinota Don’t Play That Song  si nutre di un imponente supporto corale come fosse una registrazione live ma è gigiona nel cercare l’applauso facile, Someday We’ll Be Together di Diana Ross e What Becomes of the Brokenhearted di Jimmy Ruffin metterebbero in piedi tutto il Cesar’s Palace di Las Vegas.

The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore degli Walker Brothers, un singolo che amavo molto da ragazzo, è in pompa magna, enfatico da morire, Turn Back The Hands of Time portata al successo da Tyrone Davis nel 1970 è un altro degli episodi in cui la voce di Bruce svetta espressiva e forte ma anche qui le orchestrazioni si sprecano, Hey, Western Union Man di Jerry Butler, autore anche della canzone che dà il titolo all’album (la versione di Presley possedeva ben altra sensualità), mostra l’autorevole vocione del Boss in un guizzo coraggioso e ben assestato, ma se Aniello non avesse calcato la mano con gli archi avrebbe avuto ben altro impatto. Cosa che si ripete in I Wish It Would Rain dei Temptations dove la malinconia di un uomo lasciato da una donna che si augura che la pioggia nasconda le sue lacrime, è stemperata da una interpretazione che sa di riscatto. Nightshift si apre con le tastiere di The Streets of Philadelphia e poi cita Marvin Gaye e Jackie Wilson e sintetizza l’intero album, una sensazione di formale eleganza in un copione rispettato alla lettera. Disco inutile.

MAURO ZAMBELLINI       NOVEMBRE 2022  

venerdì 21 ottobre 2022

LO SPAVENTAPASSERI



Solo tre anni prima John Mellencamp, nato il 7 ottobre del 1951 a Seymour nello stato dell’Indiana, aveva sbancato le classifiche americane con un furbo connubio di pop e rock che raccontava di due adolescenti americani, Jack and Diane, che si affacciavano alla vita con i loro sogni, i loro desideri e le loro paure. Col nome di John Cougar era di colpo diventato un teen idol nonostante nell’ambiente musicale avesse evidenziato un carattere non proprio docile e accomodante, abbandonando di colpo le interviste, schernendo i giornalisti che non gli andavano a genio e mostrando quell’ atteggiamento ribelle che il titolo dell’album del 1982 contenente quell’hit ben sintetizzava : American Fool. Tre anni dopo il Cugaro si era trasformato in John Mellencamp pur preservando ancora tra nome e cognome il riferimento al felino americano, e con Willie Nelson e Neil Young allestì a Champaign nell’Illinois una delle manifestazioni di beneficenza più durature nel tempo, il Farm Aid, un concerto per raccogliere fondi in aiuto ad agricoltori e braccianti del Midwest messi in ginocchio dalle restrizioni nei prestiti delle Farmers Bank, frutto del feroce clima dell’era Reagan. Un evento che è continuato per anni e lo ha visto protagonista, una tangibile prova di solidarietà che ha fruttato fino ad oggi 60 milioni di dollari da  devolvere a contadini in difficoltà e alle loro famiglie. Un cambiamento repentino quindi, da scapestrato ragazzo della porta accanto ad artista sensibile alle istanze sociali del suo paese. In mezzo c’era stato un album che aveva fatto presagire il cambio di passo, pur riconoscendo ad American Fool un solido impianto rockista costruito su un tuonante bam-bam ritmico che concedeva margini a canzoni pop assolutamente non banali, Uh-Uh aveva alzato il tiro con tutti quei riferimenti rollingstoniani nel suono e quella canzone, Pink Houses, che senza tante metafore diceva delle miserie causate dall’amministrazione repubblicana. Il suo songwriting era maturato ed era sotto gli occhi di tutti, ma quando in giovane età aveva parlato di amore e ragazze il suo scrivere non era mai apparso futile e ancora prima di Jack and Diane, la sua I Need A Lover, grazie a Pat Benatar, aveva acchiappato i cuori dei teenagers americani. Canzoni che filavano spedite grazie ad uno schietto e diretto rock n’roll a stelle e strisce cantato come facevano i “negri” della Stax e outsider come Mitch Ryder. Un universo di american music incamerato in un suono asciutto e tagliente ma dotato delle giuste melodie, una veste che negli anni ottanta lo  proiettò nel coast to coast della ballata rock, insieme a Springsteen, Tom Petty, Bob Seger.



Ma è il 1983 l’anno del cambiamento, quando Mellencamp sotto lo pseudonimo di Little Bastard produce Uh-Uh assieme Don Gehman, un produttore coi fiocchi che ha firmato i lavori di R.E.M, Blues Traveler, Jimmy Barnes, Hootie and The Blowfish, ristampe di Clapton e Neil Young e con lo stesso Mellencamp ha messo a punto il magnifico Hard Line dei Blasters a cui il piccolo bastardo regalò la bellissima Colored Lights. E’ il significativo prologo di Scarecrow, pubblicato solo un anno dopo Born In The Usa, nell’autunno del 1985, ed in qualche modo parente per la sincerità con cui racconta quell’America che un tempo si riconosceva e trovava rifugio nel rock nì’ roll, oggi dispersa in una frammentazione sociale che è specchio della politica in atto. Scarecrow  (il mio album preferito di Mellencamp pur nella difficoltà di scegliere un possibile the best in una discografia così copiosa e di altissimo livello) è il frutto dell’evoluzione artistica del personaggio senza che venga tradito di una virgola l’ ambiente umano da cui proveniva ed il cammino che lo aveva portato fino a lì, una progressione nel segno di un riconoscimento del proprio passato e contemporaneamente l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza sociale. Con Pink Houses John Mellencamp aveva dato un senso a tutto Uh-Uh, in quei versi “oh but ain’t that America for you and me, ain’t that America were something to see, baby, ain’t that America, home of the free, little pink houses for you and me” c’era il dichiarato rifiuto di camminare su una strada facile dando un seguito ad American Fool, e in quel coro risuonava un misto di ironia patriotica e ambiguità populista con un plausibile riferimento a Woody Guthrie. Ma è con Scarecrow  che Mellencamp si fa carico di una visione sociale ancora più compiuta e profonda, in primis con canzoni come Rain On The Sacrecrow, The Face of the Nation e You’ve Got To Stand for Something. Benintesi, nessuna delle canzoni del disco è esplicitamente politica ma in modo istintivo, rabbioso, passionale l’artista si libera di alcuni condizionamenti del music business e sente il bisogno di dire la sua sul mondo e sull’America. The Face of the Nation è un violento atto d’accusa contro i sogni distrutti di persone lasciate indietro dalle promesse di un mondo hi-tech fatto di inaccessibili possibilità. Un popolo di vecchi, di bimbi che piangono e di gente rimasta senza lavoro a cui il cantante non offre soluzioni concrete (è d’altra parte solo un musicista) ma li esorta ad una semplice, umana perseveranza. Soffia il Dylan di The Times They Are A-Changin’ ma vent’anni prima le persone della sua terra, il Midwest, non stavano perdendo le loro fattorie al ritmo di una ogni cinque minuti. In Rain On The Scarecrow, co-scritta con l’amico George Green, la musica acuisce la drammaticità di una situazione familiare che è diventata mancanza di prospettive, e culmina in una sorta di inno dell’ heartland rock: Scarecrow on a wooden cross. Blackbird in the barn, four hundred empty acres that used to be my farm. I grew up like my daddy did, my grandpa cleared this land, when I was five I walked the fence, while grandpa held my hand. Nella magnifica You’ve Got To Stand for Something non spiega in modo specifico ciò che dovremmo aspettarci ma attraverso una litania di immagini, dai Rolling Stones a Fidel Castro passando per Johnny Rotten, i Who, le Pantere Nere, Marlon Brando e Kruscev, un uomo che cammina sulla luna e Miss America, il messaggio è chiaro: difendi la tua verità e come quella verità si collega alla tua esperienza del mondo. “So che il popolo americano paga un alto prezzo per la giustizia e non so perché, nessuno sembra sapere perché, conosco tante cose ma non ne conosco altrettante”, l’unica cosa di cui Mellencamp sembra certo è che “dobbiamo iniziare a rispettare questo mondo o si girerà e ci morderà il viso”. L’ artista ha scelto di manifestare le sue posizioni in modo esplicito, esprimendo un punto di vista forte proprio nel momento in cui sarebbe stato più semplice per lui sdraiarsi su soluzioni più facili ed immediatamente commerciali. 


Dal punto di vista specificatamente musicale Scarecrow, registrato al Belmont Mall, uno studio allestito in quei giorni dall’artista sulla Route 46 nelle vicinanze di una stazione di servizio e di un truckstop cafè, è un riuscito insieme di crudo rock stradaiolo con un lontano sapore Creedence, colpi di R&B di matrice Memphis ed un po’ di urlacci alla James Brown, il tutto esibito con energia, sincerità e feeling. Il cantato, come la scrittura e l’apporto strumentale, sostenuto dalla coppia di chitarristi Larry Crane e Mike Wanchic e dalla tuonante sezione ritmica di Toby Myers, basso, e Kenny Aronoff, batteria, è appassionato, molte delle canzoni sono scritte in una chiave più bassa rispetto agli album precedenti così che la voce goda di una ampiezza maggiore, un fattore che consente più melodia. Il sound è un perfetto matrimonio di semplicità tecnica e musicale, le ringhianti chitarre di Crane e Wanchic si allacciano al potente drumming di Aronoff e dopo anni di gavetta la band è diventata una estensione vivente del songwriter, uno strumento per disegnare la sua musica. Ci fu pure un cambiamento nel modo di porsi dell’artista, l’ amico George Green co-autore di due brani del disco, arrivò a dire che “aveva imparato a dire per favore e grazie e nonostante lo spirito ribelle si sentiva più felice anche se non ancora soddisfatto”.  I Can’t get no satisfaction, il suo amore per i Rolling Stones più che nelle dichiarazioni lo si rintraccia nel sound di molti dischi, a parte Uh-Uh  mi va di ricordare Nothin’ Matters and What If I Did del 1980  e Whenever We Wanted del 1991. Anche Scarecrow non fa mistero di quell’amore, forse più nei brani di carattere personale che in quelli di taglio sociale. Il range è vario, nell’allegoria country-folk di Minutes to Memories, un vecchio su un Greyhound racconta  ad un giovane quanto ha imparato nella vita grazie al lavoro e alla famiglia, ma alla fine il giovane pur riconoscendo la visione del vecchio si ostinerà a fare di testa sua, pagando un caro prezzo, fino a che nell’ultima strofa ricorderà quel vecchio uomo sul bus ed ora che sono diventato vecchio anche io capisco che aveva ragione”.  In Lonely Ol’Night, un incalzante rock alla Creedence con un pizzico di distorsione elettrica, due amanti si ritrovano  lacerati da bisogni insoddisfatti e paure, come se Jack and Diane anni dopo non fossero più giovani ed innocenti ma posti di fronte alla difficile situazione di  mantenere l’amore, un dilemma sulla condizione umana che si sfoga nel ritornello “she calls me baby, she calls everybody baby, it’s lonely ol’ night but ain’t they all”. Il duetto con Ricky Lee Jones in Between a Laugh and a Tear è l’episodio più dolce e romantico del disco, una ballata  sul desiderio di raggiungere un equilibrio nella vita tra sorrisi e lacrime, una atteggiamento molto diverso da quello espresso in American Fool. La scoppiettante Rumbleseat  sparge buon umore, il senso positivo con cui affrontare ed esorcizzare i conflitti viaggia sulle note di un suono Stax, è un possibile antidoto alla depressione, e  R.O.C.K In The Usa è quello che dice il titolo, una corsa al ritmo del rock n’roll con un testo che suona come un ode ai santi dell’american music. “Dissero arrivederci alle loro famiglie, salutarono gli amici, con qualche sogno in testa e pochi soldi in tasca, alcuni bianchi, altri neri, con quel po’ di fede che bisogna sempre avere roccarono gli States. C’erano Frankie Lymon, Bobby Fuller, Mitch Ryder, Jackie Wilson, Shangri Las, gli Young Rascals, Martha Reeves, per non dimenticare  James Brown. Venivano dalle città e dalla provincia, suonavano sulle macchine con chitarre e rullante e facevano goin’ crack boom bam”. Il ruvido e arrabbiato rock n’roll The Kind of Fella I Am  ha una slide alla Ron Wood che accarezza il blues, gli Stones sono anche in Justice and Independence’85 . Ma è Small Town a fare di Scarecrow una sorta di concept album sull’età che avanza. Diverse canzoni ritraggono umori e aspetti della vita e del passato del songwriter anche se la metafora della piccola città induce ad una visione sociale sulle aspirazioni e frustrazioni di quel Midwest fregato dalla modernità e dal liberismo esasperato. Introdotta da Grandma’s Theme dove Mellencamp con la chitarra acustica accompagnare la flebile voce di sua nonna Laura cantare il vecchio folk The Baggage Coach, Small Town è una magnifica ballata, la risposta blue collar alla muscolare Born In The Usa del collega Springsteen, ed è uno dei titoli più rappresentativi del suo songbook. John Cascella aggiunge le tastiere, Kenny Aronoff è un martello pneumatico, il violino ne sottolinea il mood provinciale, spesso si parla di perfezione, in questo caso la si raggiunge.


Undici canzoni non fanno la rivoluzione ma danno sicuramente coraggio, in piena era reaganiana Scarecrow  si ergeva come un baluardo, l’urlo critico del rock n’roll, un album epocale che il tempo non ha scalfito, contrariamente ad altri dischi degli anni 80 grazie ad un sound che era già classico al momento della sua  pubblicazione. Giusto celebrarlo con una Super Deluxe Edition ovvero l’originale rimixato e rimasterizzato ed un ulteriore disco di rarità ed inediti. Due le canzoni mai pubblicate prima: Carolina Shag aperta da una rullata alla Aronoff è  polveroso e scapigliato heartland rock perfettamente in sintonia con l’album originale, ottimo, Smart Guys mantiene una connotazione anni ’80 e sembra più che altro una out-takes di American Fool, più intrigante è la versione di Shama Lama Ding Dong con quei coretti soul, i fiati R&B e quell’aria da party che gli aprì le porte della colonna sonora del film Animal House grazie alla versione di Otis Day and The Knights. Due le out-takes di Small Town: un demo acustico di poco più di un minuto ed una bella versione folkie con tanto di violino e mandolino ad anticipare il futuro Mellencamp degli Appalachi. I demo di Between Laugh and a Tear e Rumbleseat  sono prototipi acustici di ciò che verrà poi fuori con la band mentre i rough mixes interessano Lonely Ol’ Night poco diversa dall’originale,  R.O.C.K In The Usa a cui è stata aggiunta nel mezzo una tastiera Farfisa e l’incisiva Minutes to Memories declinata folk-rock. A partire da The Lonesome Jubilee si è parlato delle radici folk di John Mellencamp ma negli anni di Uh-Uh e Scarecrow forte era l’influenza che la musica nera esercitava sul nostro, le due cover qui riportate mostrano  quello “stato d’animo”. Il lato melodico della soul music con tanto di cori doo-wop in puro stile sobborgo newyorchese risuona nella bella interpretazione di Under The Boardwalk  dei Drifters pur personalizzata dal raffinato lavoro di chitarre acustiche/violino e voce crooner, il lato selvaggio del funk esce invece nella focosa versione di Cold Sweat  di James Brown, assoluto punto di riferimento come performer.

Con queste aggiunte Scarecrow brilla ancora di più confermandosi una delle opere più significative per temi e musica del rock americano anni ottanta, attuale anche oggi.

MAURO ZAMBELLINI




 

giovedì 15 settembre 2022

ASPETTANDO COLOMBO Una storia degli anni settanta


 

Londra, agosto 1977

La ristampa in box contenente tre CD doppi riguardanti uno dei più prestigiosi live in ambito rock mai pubblicati, ovvero Waiting For Columbus dei Little Feat,  riavvolge il mio nastro dei ricordi a proposito di uno degli episodi più fortunati  della mia esperienza di fan. L’anno era il 1977, lo stesso della nascita ufficiale del punk e della morte del Re del rock n’roll, non un anno qualsiasi quindi ma venendo dalla periferia dell’impero ed ignaro della rivoluzione in atto a Londra, mi misi in viaggio con un amico e le rispettive fidanzate (una sarebbe poi diventata mia moglie) per una vacanza in Irlanda, luogo sognato per i suoi paesaggi, la sua musica e i suoi alcolici ma allora non ancora nel mirino delle agenzie turistiche. A quel tempo non esisteva Internet, tutto girava in modo diverso, si partiva spavaldi ed avventurosi senza sapere bene cosa avremmo trovato sul percorso, senza prenotazioni e con qualche costosa telefonata internazionale per capire di traghetti e passaggi. Unica garanzia erano gli indirizzi e le segnalazioni delle guide turistiche Clup, edizioni universitarie allora in auge tra il pubblico “alternativo” ancora a digiuno di Routard, almeno in Italia. Del tutto fortuito poi incontrare, strada facendo, qualche concerto o avvenimento artistico appetibile perché come detto, Internet non c’era e pure le riviste internazionali di musica erano da noi di difficile reperibilità. L’unica cosa su cui si poteva contare era la propria autovettura, la tenda, il sacco a pelo e la piccola Bialetti per il caffè, salvataggio d’obbligo dai surrogati d’oltralpe. Fuori dalle grandi metropoli, difatti, si ricorreva al campeggio, per scelta e per economia e la Bialetti anche nei momenti più critici ti faceva sentire a casa. Bisognava avere dimestichezza con le carte geografiche e stradali ma quello è sempre stato un mio pallino tanto che anche oggi quando faccio le escursioni motociclistiche non uso mai il navigatore a meno di non trovarmi nel dedalo urbano di città come Lione o Marsiglia. Ricapitolando siamo in quattro a partire da Somma Lombardo , ci sono le due fidanzate e l’amico Friz (in realtà si chiama Maurizio ma in età di gioventù, 18 anni circa, dopo una bevuta collettiva di frizzantino nel Circolo del paese vicino dove si andava a rimorchiare le ragazze, tornando a casa coi rispettivi motorini lo trovammo riverso a terra col suo Bianchi Falco 50cc e i 45 giri che gli avevamo affidato perché si era soliti portare sempre appresso il mangiadischi, sparsi per tutta la piazza. Fu naturale chiamarlo da lì in poi Friz ), direzione Nord, attraversamento della Francia fino a Calais, imbarco per Dover e poi Londra. Due giorni nella metropoli inglese e poi altra cavalcata fino in Galles a Holyhead dove un altro traghetto ci avrebbe portato a Dublino. Naturalmente in quell’era senza Internet e piuttosto avversi per spirito “alternativo” nonché ideologico alle agenzie turistiche, capitava di arrivare a Calais e non avendo nessuna prenotazione aspettare ore per il primo traghetto disponibile. Stessa storia a Holyhead dove arrivammo in una notte buia e tempestosa e aspettammo mezza giornata prima di imbarcarsi. Era il prezzo dell’avventura e andava bene così, in fondo a guardar bene quel mondo meno globalizzato  e più lento era più umano di quello attuale. L’arrivo a Londra fu comunque problematico perché districarsi tra le sue vie con la nostra Renault 4 guidando a sinistra e contemporaneamente cercando un hotel adatto alle nostre tasche non fu per nulla semplice. Lo trovammo con la sua unica stella dalle parti di Earl’s Court e l’impresa ci sembrò di grande auspicio. Bagagli in camera, una doccia nel bagno comune in corridoio, e poi via entusiasti e pimpanti alla scoperta della grande città. D’obbligo servirsi della metropolitana ma prima di scendere nell’abisso delle linee londinesi compro un giornale, non ricordo il nome, di quelli che ti dicono cosa fare in città in termini di spettacoli, concerti, musei, ristoranti, club, cinema e chi più ne ha ne metta. Già appassionato da anni di musica e al tempo conduttore di Radio Varese 100 e 700, radio libera da me ribattezzata (è stato pubblicato anche un libro a proposito)in maniera iperbolica come si usava tra situazionisti, l’unica radio libera dell’occidente occupato, mi cade l’occhio su un trafiletto che annuncia quattro serate al Rainbow Theatre dei Little Feat. Fermi tutti, panico, innalzamento improvviso della pressione arteriosa, aumento del battito cardiaco. Conosco e apprezzo i Little Feat e l’occasione di trovarseli a portata di mano, per di più casualmente, a Londra è un colpo di fortuna che neanche se vendi l’anima nei crossroads del Mississippi ti riesce. Oggi sapremmo tutto sei mesi prima riguardo al possibile tour inglese dei Feats, anche in quale albergo alloggiano, ma quella era preistoria rock, un altro mondo felice nella sua limitatezza di informazioni. Mi volto verso gli amici e comunico che per qualsiasi cosa al mondo voglio andare al concerto dei Little Feat la sera stessa. Di nuovo panico, ma degli altri. Friz li conosce marginalmente anche se ha sempre avuto buon orecchio per la musica e rimane in stand by, immediati musi lunghi per le due donzelle che manco sanno dell’esistenza di Lowell George e compagni e sognavano una cenetta in qualche tipico pub londinese. Accampano pretesti in difesa della loro resistenza, “ma senza biglietti è inutile andare” anche perché la scritta sold out a margine del trafiletto non lascia scampo, e poi “il teatro sta dall’altra parte della città ed è un casino arrivarci”. Non indietreggio, loro possono fare ciò che vogliono ma io vado in metropolitana dall’altra parte della città a vedere i Feats, cascasse il mondo. Li avviso della eccezionalità dell’evento, dicendo di una band che difficilmente esce dagli Stati Uniti, trovarsela lì a due passi è una vera fortuna. Friz si lascia convincere e a questo punto è fatta, perché due splendide ragazze, sole, a digiuno di inglese e geografia urbana, con orientamento ai minimi termini e fondi limitati per il taxi, dove vanno? Non è maschilismo ma real politik e  quindi il gioco è fatto. Adesso, penso dentro di me, una volta che ho convinto la ciurma, la devo far entrare in toto in teatro, e quel Sold Out di tutte le serate è piuttosto sinistro. Rischio di fare la figura dello scemo se fallisco la missione, niente concerto e niente cenetta al pub tipico. Musi lunghi per un paio di giorni. Ma quando si è giovani non si ha paura di nulla.  Costruito negli anni 30 e conosciuto come Finsbury Park Astoria e divenuto Rainbow Theatre nel 1971 dopo uno show degli Who, il teatro è stato sede di centinaia di concerti, da Frank Zappa ai Faces, da Alice Cooper ai Pink Floyd, da Bowie ad Eric Clapton, da James Brown ai Grateful Dead, dai Queen a Marc Bolan, per non dire di King Crimson, Bob Marley, Ramones e Van Morrison. La lista è lunghissima e i Little Feat sbarcarono lì la prima volta il 19 gennaio del 1975.  Arriviamo davanti al teatro l’afosa sera del 2 agosto , c’è un po’ di ressa, il pubblico diligentemente sta già varcando le porte ed effettivamente alle casse troneggia “tutto esaurito”. Sul viso delle fidanzate appare un misto di rabbia e ghigno soddisfatto, Friz è perplesso, io individuo in pochi minuti l’anello debole della situazione. Nella hall, prospiciente l’entrata principale, scordatevi  security,  metaldetector e i controlli di oggi (mi ripeto, era un’altra epoca) scorgo un robusto colored man ( mi piacerebbe chiamarlo afromericano ma siamo in Inghilterra ed evitatemi l’accusa di razzismo) addetto al taglio dei biglietti di entrata. Gli giro intorno alla chetichella, incrocio il suo sguardo, in un momento di pausa cerco di trovare un contatto orale con lui dicendogli del mio lungo viaggio dall’Italia e del desiderio di vedere questa band, impossibile da vedere alle nostre latitudini. Il tutto avviene furtivamente, con uno stentato inglese ma con una mimica che non lascia dubbi. Gli ripeto che non sapevo del concerto, altrimenti mi sarei munito di biglietti, insomma stabilisco una spicciola complicità mentre i paganti entrano sparsi. Lui mormora qualcosa e sorride, sembra suggerirmi una possibilità, che colgo al volo e da buon italiano dico agli altri tre di starmi appresso e non proferire verbo, solo seguire i miei passi. Mi avvicino al tipo di colore e gli allungo di nascosto delle sterline, stropicciate, se ricordo bene l’equivalente di un paio di biglietti. Lui non proferisce parola, le impugna come fossero dei ticket, se le tiene strette in mano, si sposta  guardando  l’orizzonte ed io mi infilo tra le tende del teatro portandomi dietro gli altri tre. Tu sei pazzo, mi dice quella che sarà la mia futura moglie, pazzo sì ma dentro il Rainbow Theatre,  in attesa dei Little Feat che non sono quelli del “dopo” ma quelli con Lowell George, cazzo. I problemi però non sono finiti perché senza biglietti non abbiamo nessun posto assegnato. Ci sediamo vicini in una postazione di buona visibilità ma non prestigiosa. Regola numero uno, è sempre meglio volare basso specie se si è clandestini, ma arrivano i legittimi detentori di quei posti per cui dobbiamo sloggiare. Facciamo un altro tentativo ma solita storia, la paura è diventare sospetti che vagano senza meta. Con il sold out è ingenuo aspettarsi posti vuoti a meno di qualche abbandono dell’ultimo momento. Invito gli altri a sparpagliarsi ( ci ritroveremo uniti al momento dell’encore tutti in piedi mischiati al pubblico plaudente, davanti a Mick Taylor che suona A Apolitical Blues e Teenage Nervous Breakdown) prima che  qualche “maschera” ci “avvisti” e ci accompagni fuori tirandoci per le orecchie e dandoci un calcio nel sedere. Altro che portoghesi, italiani! Così facciamo, per via che il teatro si riempie e noto altre persone in piedi. Ci confondiamo e aspettiamo un po’ tesi l’inizio del concerto. Poi mi sciolgo ed è un orgasmo perché l’esibizione sarà eccezionale, trionfale, esaltante, con i Little Feat raggiunti in otto brani dalla sezione fiati dei Tower of Power e da Mick Taylor fuoriuscito da poco dai Rolling Stones e ancora in perfetta forma. Morale : ancora oggi l’amico Friz non smette di ringraziarmi per avergli dato la possibilità di assistere ad un avvenimento così eccezionale, per di più immortalato da uno dei dischi live imprescindibili nella storia del rock, Waiting For The Columbus  pubblicato nel 1978 e oggi documentato in modo perfetto e ampio dall’odierna ristampa deluxe con l’aggiunta dell’intero concerto londinese del 2 agosto, di quello alla Manchester City Hall del 29 luglio del 1977 e di quello al Lisner Auditorium di Washington, D.C del successivo 10 agosto. Una band catturata al top delle proprie possibilità,  solo un anno prima della improvvisa morte del suo leader  Lowell George.

E le ragazze mi chiederete ? Mah, visto l’entusiasmo del sottoscritto non poterono fare altro che buon viso a cattivo gioco ma di quel concerto non le ho sentite più parlare, tranne che citare l’escamotage dell’ingresso in qualche serata tra amici. Penso che dei Little Feat si ricordino poco, una l’ho persa di vista tanti anni fa, l’altra divenuta mia moglie è andata in trance a Zurigo nel 1981 vedendo il Bruce Springsteen del periodo The River  e giustamente perdendo la testa per lui. Dopo Londra raggiungemmo comunque l’Irlanda e fu una vacanza felice. A Dublino apprendemmo della morte di Elvis Presley ma il rock n’roll continuò ugualmente a vivere e a riempire di gioia la mia esistenza.

Mauro Zambellini

N.B Il pezzo continua con la disamina della ristampa di Waiting For Columbus e sarà pubblicata, assieme al testo qui, sopra nel prossimo numero di Ottobre della rivista Buscadero.

lunedì 11 luglio 2022

GOV'T MULE CHIARI BLUES FESTIVAL 2022



Inizio col botto per il Chiari Blues Festival, tornato in pista dopo anni di lockdown. Non poteva esserci cartello migliore per festeggiare il ritorno della musica di qualità e anche la location è sembrata la più adatta per l’evento, una grande tettoia di legno sostenuta da colonne di cemento aperta lateralmente per fronteggiare l’implacabile caldo di quest’estate. Hanno cominciato alle 18.30 i Rusties del cantante Marco Grompi forti di una lunga avventura musicale all’insegna di Neil Young e di alcuni pregevoli dischi solisti. Meglio non poteva esserci per instaurare delle good vibrations, il loro sound è strettamente legato al folk-rock del canadese e più in generale alla scena californiana anni ’70 con iniezioni di psichedelia, ballate dolenti alla southern man ed una nostalgica aria hippie ancora presente nei cuori e nelle orecchie di tanti presenti. Grompi ha un’ugola studiata su quella di Young, le chitarre sfrigolano acide, sezione ritmica e tastiere fanno il loro dovere, come supporter sono perfetti e poi quando sul palco compare a sorpresa Warren Haynes le certezze sono due: che l’americano sia tra i personaggi più veri ancora esistenti nel rock, capace con nonchalance ed umiltà di unirsi  ad una band di sconosciuti italiani (non me ne vogliano Grompi e soci), e quello che sarà un assaggio della magica serata si chiama Cortez The Killer. Tutti accontentati,  una cavalcata selvaggia tra chitarre elettriche che si incrociano e tagliano a note ventose, il sole è ancora caldo ma ancora più calda è l’atmosfera che si crea al Chiari Blues Festival. Cambio di palco e arriva David Grissom, rinomata chitarra che fu di Joe Ely, John Mellencamp, Allman, James McMurtry e chi più ne ha ne metta. Con lui è il bravo batterista Archelao Flo Macrillò e l’ex bassista di Rocking Chairs e Ligabue, Rigo Righetti. Basta un pezzo per confermare quello che ho sempre pensato, David Grissom dà il massimo come sideman, quando la sua chitarra graffia con assoli bollenti e spietati nei dischi e nei concerti altrui, ma quando è lui il leader cede al virtuosismo della sua Paul Reed Smith, chitarra amata dai narcisisti delle sei corde, ed il suo talento va in overdose e diventa pesante e logorroico, fine a sé stesso. Può piacere a coloro che amano certo rock chitarristico piuttosto tecnico tipo Steve Vai, personalmente dopo il secondo brano mi alzo per andare a rinfrescarmi con una birra.Tutt’altra storia quando entrano in scena i giganti. Warren Haynes è dimagrito ma il suo viso dolce e serafico è un inno alla simpatia, Matt Abts bianco più di me sembra più anziano di quello che in realtà è, Danny Louis è l’alchimista dietro un muro di tastiere e Jorgen Carlsson, capelli lunghi neri pare lì quasi per caso. Sembra però, perché nelle quasi due ore di concerto mi sono accorto di trovarmi di fronte al più grande bassista che la scena rock-blues oggi offre. 


Una roba impressionante, uno stantuffo che supporta tutto il sound della band come fosse una pompa elettrica che non smette mai di imprimere velocità e dare potenza, amplificando una sezione ritmica già irrobustita dal drumming quadrato e roccioso di Matt Abts. 


I Gov’t Mule sono una band che non dà scampo, assolutamente devastante anche quando, come nel caso della serata a Chiari, opta per un set  bluesato, profondo, scuro, quasi intimo e da club, dimostrando che assistere ad un loro concerto è una esperienza sensoriale, cerebrale, spirituale e visionaria, un trip senza bisogno di additivi. Basta lasciarsi condurre dalla voce di Capitan Haynes e dai suoi strumenti di benessere, la Les Paul e la SG Gibson, e dalla sua composta ciurma di stregoni del sound. Peccato che il loro set abbia solo lambito le due ore, abituato alle loro maratone del passato, ma in quei centodieci minuti di show è sembrato raggiungere quel punto che gli Allman chiamavano hittin’ the note ovvero il momento spontaneo e naturale in cui si crea totale sinergia tra chi fa musica e chi la riceve.


 Consumata esperienza ed una  passione a 360 gradi verso il rock ed il blues, questi sono i Muli, una istituzione oggi come lo furono in passato gli Allman, i Little Feat, i Led Zeppelin, i Cream. Cominciano lenti e quasi cantautorali con Hammer and Nails, ballata che lascia spazio a Haynes di intervenire con un assolo tremendo, poi si riaffacciano i Gov’t Mule jammati, caotici ed imprevedibili di Thorazine Shuffle, accolta da un boato, prima che l’album Heavy Load Blues  porti in scena alcuni pezzi da novanta e sottolinei che questo è il suo tour. I Asked Her For Water è un blues da pesi massimi, sincopato e greve, un katerpillar sonoro, Make It Rain è spettrale e misteriosa come solo una canzone di Tom Waits può esserlo, l’unisono tra esplosioni di chitarra e coreografia di  tastiere trova il giusto teatro in una scenografia di luci notturne e noir, è uno dei momenti più emozionanti del set. Danny Louis con l’Hammond rifinisce e arrangia, il suo è un abbraccio che funzione come un’orchestra. 


L’arazzo tribale alle spalle del palco rievoca il fiammeggiante passato quando il loro heavy blues si tingeva di colori psichedelici ma a Chiari, complice un palco non faraonico, Haynes e compagni si immergono nella dimensione blues che il loro recente album giustifica. E poi è un Festival Blues, la versione rallentata di Good Morning Schoolgirl è arte dell’interpretazione, e c’è spazio per l’assolo di David Grissom, salito sul palco come invitato speciale, e così Last Clean Shirt di Leiber e Stoller. Si vorrebbe che il concerto durasse ancora un’ora ma i Muli pur lavorando sodo, hanno ridotto i tempi delle esibizioni, almeno per questo tour. Mr.Man seguita da una vivace e corale Soulshine chiude un concerto magnifico e diverso, secondo i loro standard, ossigeno puro per quanti vivono di questa musica, lontana dal marketing e dallo smargiasso avanspettacolo del nuovo e moderno. I conti sono presto fatti, 70 mila per i Maneskin e due mila per i Muli, va bene così, le rivoluzioni le hanno sempre fatte le minoranze.

 

MAURO  ZAMBELLINI       LUGLIO 2022

 

sabato 25 giugno 2022

DRIVE BY TRUCKERS Welcome 2 Club XIII

 

Non hanno perso tempo i Drive By Truckers durante il lockdown visto che in poco più di un anno hanno pubblicato due album, The Unraveling  e The New Ok  e appena smorzata l’onda d’urto della pandemia sono ritornati in tour promuovendo il nuovo disco Welcome 2 Club XIII. Lavoro diverso dai due precedenti perché meno concentrato sul volto oscuro dell’America di oggi tra predicatori religiosi, eroina di ritorno, sovranisti di varia forma e natura, povertà e disgregazioni umane e sociali. Welcome 2 Club XIII  nasce dai ricordi di Patterson Hood quando giovane, negli anni settanta, era costretto a farsi oltre due ore di macchina per trovare un locale che facesse musica e servisse alcolici. La zona del Nord Alabama nei pressi di Muscle Shoals dove Hood abitava era davvero desolata e proibizionista e l’unica possibilità era raggiungere The Line, subito oltre il confine statale, dove sorgevano alcuni honky tonk bar in grado di offrire birra fredda, musica e risse. Uno di questi club si chiamava Club XIII e fu per lui una specie di salvezza. Negli anni ottanta la situazione anche in Alabama divenne più “liberale” ed in quel periodo Hood conobbe Mike Cooley  col quale formò gli Adam’s House Cat. Ma il Sud continuava ad essere il luogo più contradditorio d’America e ogni due anni un referendum costringeva i club e gli honky tonk bar a finanziare coi propri introiti le chiese locali affinché queste potessero indottrinare i fedeli  a tenere lontano dai propri paesi il diavolo nascosto nella bottiglia. “ Il proprietario del Club XIII di tanto in tanto ci organizzava un mercoledì sera o ci lasciava aprire per una band hair-metal per la quale eravamo terribilmente adatti, e tutti stavano fuori finché non finivamo di suonare. All'epoca non era molto divertente, ma ora lo è per noi. La canzone che traina il nuovo album si intitola The Drive ed è una cupa narrazione adatta ad un road movie dalle tinte noir segnata da un pesante riff di chitarra, nella quale Patterson Hood evoca i suoi viaggi nel profondo della notte, quando, dopo essere uscito dal club, con l’auto girovagava per campagne, sobborghi urbani, strade secondarie ascoltando musica a palla, bevendosi qualche birra e perdendosi nel nulla. Molti dei momenti più significativi della sua vita, dice Hood, arrivano da quei vagabondaggi notturni e quando i DBT entrarono in scena, quei late night drives to nowhere  furono sostituiti dai lunghi spostamenti per raggiungere le città in cui si sarebbero esibiti. Quei ricordi antichi costituiscono l’ input di un album dove il guardarsi indietro lascia spazio all’amarezza che traspare dalle ballate, anche se non mancano episodi ascrivibili al ruvido rock dei DBT. Il disco è nato quasi per caso nel corso di tre frenetici giorni dell’estate del 2021 quando la band si unì per riannodare le fila dopo i mesi di inattività imposti dalla pandemia. 



Registrato sostanzialmente dal vivo con la produzione del solito David Barbe, Welcome 2 Club XIII  mostra comunque nei testi elementi di feeling positivo riconquistato a seguito dei lutti che hanno funestato l’entourage della band e della rabbia “politica” espressa dai precedenti tre album, a cominciare da American Land. Permangono amarezza e malinconia ma è come se i Drive By Truckers respirassero ora una sensazione di libertà dopo il lungo periodo di clausura del lockdown. Anche i concerti attuali lo testimoniano, ormai loro sono una macchina da guerra che non fa prigionieri, una grande rock n’roll band oliata in tutte le sue componenti con un carismatico leader, Patterson Hood, un alter ego, Mike Cooley, che ha sempre più spazio nel cantare e scrivere canzoni ed un tastierista/chitarrista, Jay Gonzalez, che è un vero jolly.


Se The Drive  si cala in una misteriosa e plumbea atmosfera notturna, la seguente Maria’s Awful Disclosure, una delle composizioni firmate e cantate da Cooley,  fa riferimento ai risvolti nazionalistici di tanto clericalismo sudista con un sound di echi e riverberi fluttuanti in uno spazio dai colori psichedelici dove si fa sentire il lavoro alle tastiere di Jay Gonzalez.  Shake and Pine è uno di quei brani in cui si avverte l’eredità Muscle Shoals di Patterson Hood, quell’intreccio di country e soul mai troppo definito qui svolto su un ritmo da marcetta, e la seguente We Will Never Wake Up In The Morning , ancora opera di Hood, è dolente ed introversa, come se i DBT avessero il freno a  mano tirato, ma è il mood necessario per raccontare un’altra balorda storia del Sud. Una vera short story. Non mi fa per nulla impazzire la canzone che dà il  titolo all’album, piuttosto routinaria, diversamente da Forged In Hell and Heaven Sent brano dall’infarinatura country con un bel lavoro di chitarre e l’apporto vocale di Margo Price.  Strepitosa è Every Single Storied Flameout, un fiammeggiante rock di Mike Cooley reso ancor più bruciante dagli interventi di sax e tromba e altrettanto bella è Billy Ringo In The Dark, una dondolante ballata pennellata di nostalgia dove l’inciso di lap steel ne sottolinea l’umore crepuscolare. Chiude Wilder Days scheletrica ballad che rimanda alla traccia iniziale per via dei ricordi di giorni selvaggi in cui ci si credeva invincibili, oggi irrimediabilmente segnati dalla nostalgia, sottolineata dai toni acustici e dall’acuto vocale di Schaefer Llana.



Lungi dall’essere il miglior disco dei Drive By Truckers, Welcome 2 Club XIII  è lavoro dignitoso e di nobile scrittura rivolto soprattutto alla storia dei protagonisti, dove più che i ganci tipici del loro rabbioso e polveroso rock n’ roll  conta un maturo e sardonico senso della riflessione in ballate e canzoni che ne colgono il lato più personale.



 

MAURO  ZAMBELLINI   GIUGNO 2022

foto di M.Z del concerto dei Drive By Truckers al Paradiso di Amsterdam del 6/06/22. Recensione concerto su Buscadero luglio/agosto