sabato 26 febbraio 2022

THE HANGING STARS Hollow Heart

 


Bastano poche note di ascolto di Hollow Heart per capire quanto la musica West-Coast  pubblicata tra i sessanta e i settanta sia ancora in grado di fare proseliti in giro per il mondo. E non parlo di ascoltatori, che non sarebbero affatto una novità, ma di ragazzi giovani che si mettono a formare band per suonare quelle atmosfere tanto  ammalianti quanto vivaci e colorate. Dopo l’entrata in scena dei vari Jonathan Wilson, Ryley Walker, Israel Nash, Dawes, Allah Las, Beachwood Sparks la cosa potrebbe non destare sorpresa ma se le origini del gruppo in questione ovvero gli Hanging Stars, affondano nei circondari di Londra un motivo di curiosità esiste. Il cantante e chitarrista Richard Olson, il batterista Paulie Cobra ed il bassista Sam Ferman, il chitarrista e tastierista Patrick Ralla e Joe Harvey-Whyte con la pedal steel sembrano aver fatto indigestione di Byrds, Buffalo Springfield, Flying Burrito Bros., America e di tutta quella briosa materia pseudo psichedelica che aleggiava sulla Baia di San Francisco e avvolgeva il Laurel Canyon. Una dieta curiosa per chi è abituato alla pioggia e alle nebbie inglesi e proprio per tale motivo nella solarità di quella musica, nelle atmosfere oniriche, nel jingle jangle e nei lamenti della lap steel, nelle dolci armonie, ha trovato l’ antidoto per sfuggire al grigiore portandosi appresso anche un po’ di folk britannico. Gli Hanging Stars hanno così scelto la loro via, per nulla revivalista visto che i testi delle canzoni sono impiantati nel presente e i suoni posseggono sufficiente freschezza da apparire contemporanei.



Tre album, Over The Silvery Lake del 2016, Songs For Somewhere Else dell’anno seguente e A New Kind of Sky del 2020 sono bastati a far conoscere la loro ricetta più americana che inglese, presentata anche con una generosa dose di concerti da entrambe le parti dell’Atlantico tanto da sedurre artisti della West-Coast quali GospelbeacH e Miranda Lee Richards con cui i cinque hanno stabilito un solido rapporto di collaborazione. Per il quarto album gli Hanging Stars hanno optato per una remota località sulla costa nord-orientale della Scozia, Helmsdale, posizionata alla stessa latitudine di Gotenborg in Svezia e col respiro di quell’aria scandinava si sono messi a lavorare col produttore Sean Read ( Dexys, Soulsavers) nello studio di Edwyn Collins, ex leader degli Orange Juice, una volta che gli spettacoli dal vivo erano stati sospesi per la pandemia. La scelta di tale studio con l’attrezzatura su misura di Edwyn Collins  ha permesso un nuovo tipo di esperienza, e con Sean Read al timone, la band ha mantenuto una concentrazione e una disciplina che ha permesso loro di realizzare ciò a cui aspiravano. La contagiosa atmosfera bucolica del luogo, lo studio era posizionato davanti alle scogliere, ha contribuito all’ispirazione generale donando a Hollow Heart  un fascino tipicamente nordico, sognante, malinconico a tratti ma anche mosso come può esserlo una mareggiata da quelle parti, e coi cromatismi ora intensi ora tenui della bellissima costa settentrionale scozzese . Tale atmosfera si è tradotta in dieci canzoni armoniose con impasti di chitarre alla Byrds ed evocative pedal steel, un arioso country-rock venato di psichedelia e folk. Musica per orizzonti di mare, di costa e di cielo, ondeggiante come una barca trasportata dalle onde, ballate in balia del vento, fluttuanti e avvolgenti, un sentore di tranquillità paziente, dall’effetto quasi ipnotico. Si parte con Ava ed è un introduzione tra acustico ed elettrico con la voce di Olson che trascina gli altri in un’ armonia che concede spazio alle chitarre e ad una sezione ritmica ben equilibrata e presente. Anticipa quello che potrebbe essere uno dei singoli dell’album ovvero Black Light Night, una melodia del tastierista Patrick Ralla con testi di Olson che gira cupo con schegge penetranti di chitarra ammorbidite dalle armonie vocali. Il tempo sembra scivolare silente su una ballata tanto romantica  quanto irresistibile come è Weep & Whisper,  un fuoco morbido dalle tonalità eteree punteggiato da pedal steel e pianoforte, che racconta di " una ragazza che portava i capelli lunghi in un fiocco di raso senza fine" per poi concludersi con un pungiglione finale " stai pensando al futuro, poi il futuro arriva e fottiti, fuori fa freddo”.



Radio On ha un incedere magnetico ed un canto supplichevole (Olson), sembra rivangare  quel pop scozzese che fece proseliti negli anni ottanta grazie a Lloyd Cole&The Commotions e Aztec Camera. Voci che si sovrappongono, una ombrosità melodica che si riflette in armonie vocali studiate sui dischi di Beach Boys e Mama’s and Papa’s e siamo in Ballad of Whatever May Be pur con la sensazione di uno spazio al di fuori del tempo.

Hollow Eyes, Hollow Heart è una canzone sul rifugiarsi in qualcosa che davvero non si dovrebbe e di conseguenza sul sentirsi un guscio vuoto, un aura oscura lo collega ai Fairport Convention ma il cantato è ovattato ed il sound si delinea come  cosmico country rock. You’re So Free si nutre dell’eco leggero e vaporoso delle canzoni dei sixties, vengono in mente i Turtles ma parla di no-vax, Rainbows in Windows di Sam Freman contiene frammenti della voce narrante di Edwyn Collins e si srotola grazie ad un ottimo  fingepicking  su un’onda sulla quale hanno surfato anche i Sadies di New Seasons.  I Don’t Want To Feel So Bad Anymore sembra proprio una canzone dei Byrds con un apertura in stile Roger McGuinn, la conclusiva  Red Autumn Leaf  svolazza deliziosamente traballante in un candido e disordinato lo-fi e con il suo outro si ricollega all'intro della prima canzone dell'album chiudendo così il cerchio .

Caldo pur essendo baciato da un’aria nordica, Hollow Heart   è un disco che unisce antico e nuovo, freschezza e sentimento, visionario ma pronto a soddisfare le esigenze di un gusto moderno.

MAURO ZAMBELLINI    FEBBRAIO 2022

sabato 12 febbraio 2022

deep america THE DELINES


 Pochi autori in tempi recenti hanno lasciato un segno così profondo nella descrizione dei personaggi e nella creazione di atmosfere filmiche come Willy Vlautin. Autore di novelle e romanzi che, su entrambe le sponde dell’Atlantico, hanno trovato consensi in pubblico e critica, plaudenti la  freschezza della sua scrittura, l’osservazione dettagliata dei caratteri ed il lirismo profuso dalla sua prosa, Vlautin ha intrapreso un viaggio in quella America della decadenza dove la vita delle persone sono tasselli di un’opera in cui la sua compassionevole narrazione si scontra col desolato paesaggio in cui esse  si muovono. Dal debutto di Motel Life  fino a Io Sarò Qualcuno  e La Notte Arriva Sempre, passando per The Free  e La Ballata di Charley Thompson, tutti regolarmente editi in Italia dai tipi di Jimenez, quel sottobosco di perdenti, assassini, balordi, sadici e falliti sono l’ esempio della banalità del male e della difficoltà di sopravvivenza in un paese in rovina, un coraggioso affresco sulla gente comune come solo Raymond Carver è riuscito a dipingere in tempi più o meno vicini. Affascinato dallo squallore ma umanamente complice dei suoi personaggi tanto da vestirli di uno sguardo compassionevole e comprensivo, Vlautin sa scrivere una ballata sui perdenti tanto da farseli sentire fratelli, e ancora prima dei frequentatori della letteratura americana questa sua virtù ha colpito il pubblico del rock che lo ha incontrato grazie ai dischi dei Richmond Fontaine, la band di Portland, Oregon di cui Vlautin è stato leader. Cantore delle macerie esistenziali che popolano gli anonimi motel e gli squallidi casino nelle città di frontiera del Nevada come Reno e Winnemucca ( appunto The Fitzgerald  e Winnemucca  sono due album dei RF sull’argomento), Vlautin ha usato la sua lucida capacità visionaria per creare canzoni che sono la colonna sonora e la sceneggiatura di un film su un’America di provincia dimenticata e battuta. Basta un titolo come We Used To Think The Freeway Sounded Like a River  disco del 2009 per comprendere l’immaginario on the road di Vlautin, prologo di quel Don’t Skip Out On Me del 2017 con cui assieme ai Richmond Fontaine musicò una  soundtrack strumentale per accompagnare la lettura del suo Io Sarò Qualcuno. Tra folk desertico, border music, twangin’ e suoni messicani, portò l’ascoltatore nell’odissea del boxeur in cerca di gloria Horace Hopper/Hector Hidalgo.  E’ stato l’ultimo sforzo discografico dei Richmond Fontaine e poteva essere l’addio di Vlautin dalle scene del rock per dedicarsi completamente al “mestiere” del romanziere, ma invece la storia ha preso la via di un nuovo inizio grazie all’incontro con la cantante Amy Boone.  Si è portato appresso il percussionista Sean Oldham ed il bassista Freddy Trujillo, entrambi transfughi dai RF, e ha trovato nelle corde vocali della Boome quel tratto dolce e romantico che mancava alle sue visioni di lacerato neo-realismo blue highway, inventandosi così i Delines. La vulnerabile ed evocativa voce di Amy Boone che anni prima era stata in tour coi RF cantando alcune parti  di Post To Wire  (2003) che in studio erano state appannaggio dalla sorella Deborah Kelly (entrambe avevano trascorsi col gruppo texano dei Damnations TX) è stata la molla che ha dato il via alla nuova esperienza. La Boone, i tre ex RF, il tastierista Jerry Conlee dei Decemberists ed il suonatore dei pedal steel Tucker Jackson proveniente dai Minus 5, si sono riuniti a Portland col produttore John Morgan Askew che già aveva partecipato a Don’t Skip Out On Me  per mettere a punto, nel 2014, Colfax,  lavoro dalle atmosfere sospese e notturne trainato dal cantato della Boone e da un folk-rock venato di soul dilatato dalla lap steel di Jackson. Una coreografia sonora adatta ai temi prediletti di Vlautin,  lotte quotidiane di chi vive alla periferia del sogno americano, precarietà dei rapporti,  ineluttabilità di destini. 

Suggestioni replicate dall’altrettanto magnifico The Imperial  cinque anni dopo. In mezzo un secondo album, Scenic Sessions, pubblicato in edizione limitata da vendere durante il tour europeo del 2015, contenente la cover di Sunshine degli Sparklehorse,  ed un rovinoso incidente automobilistico che nel 2016 ha messo fuori gioco Amy Boome. Lo shock e le diverse fratture alle gambe hanno avuto come conseguenza depressione e paura di non essere più all’altezza ma la realizzazione, anche se faticosa, di The Imperial  è servita ad esorcizzare un periodo critico che sembrava compromettere definitivamente la vita artistica della Boome e di conseguenza dei Delines. La musica come terapia ha giovato ad un album dalle sonorità avvolgenti e languide, sfumato ed emozionante, dove controverse storie di amanti fanno da sfondo all’ambientazione dimessa e solitaria dei luoghi. Gli amanti dell’appartamento n.315 nella canzone che dà il titolo all’album (The Imperial è una sorta di hotel a buon mercato con stanza date in affitto a chi non può permettersi una casa) sanno che il loro futuro è vuoto come la desolazione di quello stabile ed il  passato è pieno di sbagli ma il modo in cui Boone canta tale scenario è talmente candido ed innocente che si avverte ancora un briciolo di speranza. Allo stesso modo l’amore disperato di Eddie and Polly, il singolo tratto dall’album, è un film commovente sulle cicatrici di un mondo che non riserva lieti fini ai romantici, e la conclusiva Waiting On The Blue col suo tono rarefatto sussurra una salvezza che la notte non è riuscita ad oscurare. C’è molta tristezza nell’opera di Willy Vlautin ma la rappresentazione che i Delines danno di questo blue mood è sublime ,come se la fragilità di una America abbandonata possa nutrirsi di melodie che arrivano al cuore in modo così sincero e partecipativo,  intorpidendo con la luce fioca dei ricordi una musica incantata ma non soporifera. Merito dell’autore, della espressività vocale della Boone, del lamentoso suono della lap steel di Tucker Jackson, di una sezione ritmica in punta di piedi, di chitarre tanto educate quanto perfette (Vlautin ed il produttore Askew) e degli eleganti arrangiamenti con tastiere e tromba di Cory Gray. Quest’ultimo è diventato una pedina importante nell’economia sonora dei Delines, i suoi schizzi con la tromba hanno contribuito all’ originalità di una musica che rimane evocativa e visionaria pur concedendosi scarabocchi di jazz , come poteva esserci nei primi lavori degli Spain. Ma l’idea per l’attuale The Sea Drift  è venuta  quando la Boome e Vlautin si sono confidati il mutuo amore per Tony Joe White e l’una ha chiesto all’altro, quasi per scherzo, di scriverle una nuova Rainy Night In Georgia. Amy Boone ha confessato che due delle sue canzoni favorite di gioventù furono la versione di Brook Benton del brano di Tony Joe White e Ode To Billie Joe di Bobbie Gentry. Prima di ventanni però non aveva mai sentito Tony Joe White ed un amico musicista di Austin, sorpreso, la invogliò a supplire alla mancanza. Il giorno dopo la Boone corse a comprare un album di Tony Joe White cercando le più ampie informazioni su di lui. Si imbatté in una intervista data dall’artista che asseriva che fu Ode To Billie Joe  a spingerlo a scrivere Rainy Night In Georgia. Due piccioni con una fava, quando Willy Vlautin le disse che voleva usare la canzone di Tony Joe White come ispirazione per The Sea Drift,  la Boone ne fu entusiasta, abbracciò subito l’idea come fosse la chiusura di un cerchio. Immediatamente i due iniziarono a pensare ad un ideale set per le canzoni e fu naturale scegliere il Texas orientale, dove la Boome aveva vissuto per anni,  in particolare la Costa del Golfo che entrambi amavano. Vlautin cominciò a buttare giù le canzoni proprio in quel luogo e la band fu coinvolta nel creare un intero album sulla costa texana, a record drifting up and down the Gulf Coast così lo definirono. A qualcuno potrebbe venire in mente a proposito di tale ambientazione l’album del 1981 di Guy Clark The South Coast of Texas  oppure  il  noir  Galveston, bel romanzo di Nic Pizzolatto, lo sceneggiatore della serie True Detective, poi messo in pellicola da Melanie Laurent, ma la vena paesaggistica dello scrivere di Vlautin non si è limitata ad una crime story piuttosto a vicende di amanti disperati, donne sole, uomini in bilico. Talmente rapito dal paesaggio umano e geografico , ad un certo punto Amy Boone si è chiesta se Vlautin stava scrivendo le canzoni per un disco o una vera e propria sceneggiatura. Con l’aiuto del produttore John Morgan Askew, la band si è infilata nel nuovo studio Bocce estraendo l’ ennesima gemma dell’  immaginario “ provinciale” dei Delines, il cui tema è esemplificato dalla essenziale copertina pseudo marina dove spicca un luna park poggiato sul pontile che si allunga nel mare. 


Una cover “costiera” aderente al tipo di musica non proprio solare, asciutta nel suo significato ma suggestiva, come già era successo per The Imperial.  Il set di The Sea Drift  è l’ennesima dimostrazione del taglio  cinematografico del rock dei Delines e la conferma dello stato di salute della band, ormai in possesso di uno stile proprio e riconoscibile. Amy Boone ha ritrovato confidenza con gli studi di registrazione, il bassista di stampo soul Freddy Trujillo ed un batterista cool-jazz come Sean Oldham sono esperti nel costruire un groove tanto sensuale quanto elegante, mentre Cory Gray, rincara il senso drammatico di alcune parti con arrangiamenti d’archi e la sua tromba assume un tono evocativo nei due episodi strumentali del disco. La prima canzone scritta per il disco è stata All Along The Ride  e di conseguenza ha creato l’universo di The Sea Drift . Emana una calda tristezza nel raccontare una relazione tra due amanti che si sta dissolvendo , sono in macchina di ritorno da Corpus Christi e la voce della Boone attanaglia il cuore come se fossimo lì vicino a loro, respirando il loro dolore. Ma la canzone che più di altre ha contribuito al suono e alle sensazioni dell’intero disco è Little Earl  il cui groove si ispira proprio al country-soul di Tony Joe White e gli arrangiamenti di Cory Gray sottolineano il carattere cinematico del pezzo, due fratelli coinvolti in un furto andato storto in un mini-mart alla periferia di Port Arthur in Texas. Bizzarro  il tema di Kid Codeine  tradotto in una musica briosa e quasi scanzonata. Vlautin dice di aver scritto il brano dopo che una barista di mezza età incontrata nel centro di Los Angeles portò i Richmond Fontaine in uno strip bar. Si accompagnava con un ragazzo ventenne che non disse una parola, la ballerina di turno danzò erotica per loro prima di schiantarsi contro il tavolo, nel contempo la barista con l’amico a fianco insisteva su come scommettere alle corse di cavalli in California. Sebbene Vlautin volesse dare al brano  un eco da pop song francese  anni sessanta, lo stralunato tema della canzone ricorda invece i surreali Little Feat della prima ora.  Diverse sono le canzoni che hanno come protagonisti i personaggi femminili. Nell’avvolgente lirismo di Drowing In Plaint Sigh una donna si sente intrappolata in una situazione famigliare che invece di offrirle conforto e sicurezza le trasmette solo pressione e solitudine. Vuole ricordare cosa si prova ad essere amati, fugge, corre a casaccio ma non ha nessun posto dove andare. In Hold Me Slow, una ballata impreziosita da arrangiamenti quanto mai raffinati e da una grande intensità vocale, la stessa donna, stanca, cerca il suo colpo di fortuna. L’unisono strumentale è perfetto, la melodia si fonde con le tastiere,  tromba e  chitarra accompagnano l’incedere lento e dondolante, niente è fuori posto. Surfers in Twilight  è priva di qualsiasi supporto ritmico, si racconta di una donna in una città costiera che uscita dal lavoro vede il marito sbattuto contro un muro e ammanettato dalla polizia. Non sa cosa abbia fatto ma in cuor suo sente che ha fatto qualcosa. This Ain’t No Getaway  ha colorazioni bluastre e caduche, un’altra donna torna  a casa dal suo ex compagno per prendersi le ultime sue cose. E’ l’alba, prima del lavoro e lo trova sveglio, ubriaco e con una pistola accanto. Lei non scappa, prende le sue cose e se ne va determinata a non essere vittima di altra violenza.  In Saved from The Sea l’atmosfera è malconcia e romantica,  il narratore si chiede se il mondo non sia così crudele, e la vita di lei non sia così tutta da buttare. Potrà questa donna disperata essere salvata dal mare della solitudine?, è la domanda che la voce accorata della Boone pone all’ascoltatore. Nei versi di Past The Shadows  affiora il sogno autodistruttivo di vivere nell’oscurità, come un vampiro ai margini della società normale, il suono è intrigante, seduttivo, la tromba di Grey è ancora lì a dare enfasi. Sostanziale al suono di The Sea Drift, Cory Grey  è presente un po’ in tutti i brani ma diventa protagonista nei due strumentali,  in Lynett’s Lament  il cui titolo fa riferimento al personaggio principale di La Notte Arriva Sempre riflette luci notturne con un suono alla Chet Baker , e lo stesso tema viene ripreso nella conclusiva The Gulf Drift Lament, omaggio ai luoghi in cui l’album è stato concepito.



The Sea Drift  è un disco visuale le cui canzoni sono piccole vignette di un film che i Delines raccontano con una musica sognante, malinconica ed evocativa, assolutamente ammaliante.

MAURO ZAMBELLINI   febbraio 2022