Hanno riavvolto il nastro i Black Crowes e sono ritornati
alla linea di partenza. Dopo anni ognuno per la sua strada, Chris e Rich
Robinson dal 2019 hanno ricominciato a parlarsi e a fare musica insieme, prima
sfruttando la ristampa del loro album d’esordio Shake Your Money Maker per allestire un tour che li ha visti esibirsi
in venti paesi per un totale di 150 show, a cui è seguito un disco live, e
adesso mettendo in circolazione il decimo album della loro discografia, dopo
quindici anni dal loro ultimo lavoro con brani originali. Happiness Bastards lo spavaldo titolo con cui si
ripresentano è un chiaro e rinfrescante ritorno ai suoni e al vigore degli
esordi, un tuffo nel più quintessenziale schietto e viscerale rock n’roll
tinteggiato con una buona dose di rhythm and blues. In un periodo in cui questa
musica sembra messa alle strette dalle nuove ondate tecnologiche e pop, loro e gli
Stones con le recenti registrazioni tengono in vita una idea antica ma ancora in
grado di ossigenare sangue e menti di molti ascoltatori, ribellandosi ai
destini segnati da trend più importanti per i meccanismi e i calcoli aziendali
che per il benessere delle masse. Ammesso che queste siano disposte a lasciarsi
contagiare da un classicismo che stando alle cifre di vendita di Hackney
Diamonds miete ancora proseliti.
D’altra parte come diceva un rocker tutto di un pezzo, Tom Petty “c’erano ideali in quella musica degli anni
cinquanta e sessanta e voglio vedere quegli ideali rimanere intatti”. Scarno,
asciutto e diretto, Happiness Bastards è la
lettera d’amore dei Black Crowes al rock n’roll, un concentrato di ingredienti
atti a svegliare gli animi intorpiditi di rockers pronti per un ultimo ballo. Inossidabili
i Corvi Neri non paiono avere paura del tempo, fanno urlare le chitarre, soffiano
il blues in un’armonica che non è un semplice strumento ma la reliquia lasciata
dal Grande Fiume, scatenano un ritmo a palla dietro l’inconfondibile voce del
leader, lo sciamano che implora una urgente sometimes
salvation e ad ogni ascolto fa salire la febbre. E quando chiudono un album
come Happiness
Bastards suonato senza mai
toccare il freno, con una ballata del calibro di Kindred Friend allora ti
accorgi che il cuore ed il sentimento sono ancora lì, in chi non ha ancora
svenduto il proprio guardaroba anni settanta, musica fatta di riff brucianti,
organi di Chiesa, voci rapite dall’esaltazione del momento. Pazienza se non ci
sono più le galoppate psichedeliche di Marc Ford e album visionari come Amorica
e Three Snakes and One Charm, anche
le atmosfere bucoliche care a The Band di Before The Frost…Until The Freeze….., sono accantonate salvo qualche rara ballata, ciò
che i Black Crowes offrono nel nuovo album è quel gagliardo, maleducato,
sensuale approccio con cui negli anni novanta si fecero spazio nell’affollato
panorama dominato dal grunge preferendo confondersi con le borchie del metal
piuttosto che vestire le camicie di flanella. Happiness Bastards è figlio di Shake Your Money Maker ma di acqua ne è passata e ciò che è stato,
comprese le avventure soliste dei due fratelli, fa parte della continuazione di
una storia con tutto il bagaglio di esperienze vissute, il tentativo di rincorrere
il tempo perduto. Parte con l’acceleratore a tavoletta Happiness Bastards e se non fosse che le note del disco dicano di
Jay Joyce come produttore, si penserebbe
che dietro canzoni fulminanti come Bedside
Manners e Rats and Clowns ci sia la mano di Andrew Watt, l’uomo alla
consolle negli ultimi lavori di Stones ed Iggy Pop. Siamo comunque sotto la
Mason Dixon-Line, qui il sound è più sporco e meno metallico nonostante la
sezione ritmica (Sven Pipien e Cully Symington) sia roba da fabbrica
metallurgica ma non puoi togliere il Sud dai Black Crowes e allora quando è il
turno di Cross Your Fingers il ritmo
singhiozza, la batteria accentua la crudezza delle chitarre, Rich Robinson se
la gioca e fratello Chris quando stacca lascia
al backing vocale e alle tastiere il pretesto per creare
quell’orgiastico gospel di cui sono maestri . L’inizio rutilante di Wanting and Waiting non lascia dubbi, loro
non sconfessano nulla, né il boogie né i tumulti famigliari e le gelosie,
difatti sembra una nuova versione di uno dei loro primi cavalli di battaglia, Jealous Again. Chris è abile nel
trascinarsi dietro sia i cori che l’Hammond ed il battere ottuso della
batteria, le chitarre sono morsi velenosi, il sabba è di nuovo in scena. Me la
vedo già in concerto, sarà impossibile stare seduti agli Arcimboldi. Pezzo da
novanta. Con la cantante Lainey Wilson,
una che si veste come loro pur bazzicando il country, i Corvi concedono la
prima pausa in tanta euforia, Wilted Rose
si apre con le chitarre acustiche, Chris sembra immerso in una sorta di
preghiera, ma ad un certo punto tutto sembra andare a carte e 48 in un
terremoto elettrico che sconvolge quella che avrebbe dovuto essere una pacifica
ballata. E’ caos ma poi la Wilson riconduce il brano sulla via di una ballata
gotico-sudista. Viene lasciato all’Hammond il compito di riaprire le danze, Dirty Cold Sun puzza di Stones in un
ambiente dove il fumo ed il bourbon sono i propellenti di un rock che non ne
vuole sapere di diventare saggio e se i loro miti nel 1969 cantavano Let It Bleed , adesso loro rispondono
con Bleed It Dry pur con gli stessi umori,
ovvero l’armonica, la slide e la voce febbricitante di Chris ad inscenare un
blues da strada sterrata. Forse la
concessione al mainstream arriva con Flesh
Wound, col suo drumming da marcia militare ed il coro trionfale ma le
chitarre in apertura di Follow That Moon citano
i Led Zeppelin prima che diventi un rhythm and blues killer che scuote corpo e
anima. Il trance di Chris nel cantarla suona come la felicità ritrovata nel sentirsi
di nuovo unito a fratello Rich e allo storico bassista Sven Pipien, salvo smentite sempre in agguato quando si tratta di
una brothers band. Ma la sontuosa ed emozionante ballata Kindred Friend non può essere una illusione, quel romanticismo
polveroso dell’ amico affine è la
speranza che il nuovo corso non si esaurisca troppo in fretta. Alzate il volume,
i Corvi Neri stanno ancora cavalcando nelle praterie del rock n’roll.