sabato 30 novembre 2024

THE ROLLING STONES Welcome to the Shepherd's Bush



Fino alla fine del secolo scorso i Rolling Stones sono stati la più grande rock n’roll band della storia, poi nei duemila hanno cavalcato con furbizia la loro leggenda non privando il pubblico di grandi show come testimoniano le diverse pubblicazioni uscite a seguito dei tour Four Licks, Bigger Bang, 14 On Fire e No Filter.

L’ultimo tour del secolo scorso fu allestito per promuovere l’album Bridges To Babylon,  iniziato il 23 settembre 1997 a Chicago si concluse due anni dopo il 20 giugno a Colonia in Germania. Ci fu una interruzione nella parentesi europea, un primo segmento con partenza nel giugno 1998 da Norimberga e arrivo a Istanbul nel settembre  dello stesso anno, ed una seconda tranche tra maggio e giugno del 1999. Un tour faraonico che toccò Stati Uniti, Canada, Messico, Giappone, Sud America, Germania, Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Austria, Spagna, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Estonia, Russia, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Grecia e Turchia, ma non l’Italia. Appendice di quella carovana fu il No Security Tour, il cui disco omonimo uscì nel novembre del 1998, con date negli Stati Uniti, in Canada ed Europa, per esibizioni in arene più piccole a differenza dei mega stadi del Bridges To Babylon, luoghi che contenessero al massimo 20 mila persone. Dall’inesauribile archivio delle Pietre Rotolanti arriva in via ufficiale la registrazione del 8 giugno 1999 al Shepherd’s Bush di Londra prima delle due serate a Wembley che raccolsero circa 70 mila persone. I Rolling Stones si esibirono per un numero di limitati fortunati (1800) nel teatro di Shepherd’s Bush, venue che sorge nel quartiere di Hammersmith noto alle cronache del rock fin dagli anni sessanta. Lo spazio ridotto, l’intimità di un pubblico sostanzialmente da club, la felicità di suonare in casa regalano un feeling paragonabile agli anni in cui gli Stones ad inizio carriera si esibivano al Crawdaddy.  Performance di classe, atmosfera da club, qualità audio eccelsa, sound meno potente rispetto a quello degli stadi, con parecchie sottigliezze strumentali,  Welcome To Sheperd’s Bush è paragonabile (pur con le diversità del caso) al Mocambo 1977  e alle esibizioni in formato teatro ( Paradiso  Amsterdam, Olympia Parigi, Brixton Academy Londra) immortalate nello splendido ed imperdibile cofanetto Totally Stripped.  Disponibile in più formati (BluRay+2CD, 2CD, 2LP, 4K UHD) Welcome To Shepherd’s Bush è un attestato della grandeur  degli Stones nel secolo scorso prima che lo spettacolo in sé prenda il sopravvento. Se la voce di Mick Jagger nel corso del tempo ha sorprendentemente tenuto, tanto che le ultime performance non hanno nulla da invidiare alle più nobili esibizioni del passato, lo stesso non si può dire per l’amato Keith Richards che dopo la “caduta dall’albero” ha un po’ smarrito quello smalto e quel graffio che da chitarrista ritmico tramutava in un diabolico e geniale colpo solista, rendendo riconoscibile dopo solo una nota la canzone intera. Ancora oggi i suoi riff sono una delle portate più attese dello show delle Pietre ma mi è capitato di assistere in concerti recenti a delle entrate che più dei riff assomigliavano a dei frastuoni metal. Poco male, va bene così per un musicista che è sul palco da più di sessanta anni, di fianco c’è l’amico Ron Wood che a tratti è il vero motore chitarristico della band, specie quando lavora di slide. Ne è sempre stato consapevole Keef fin da tempi non sospetti, affermò difatti “ Ronnie porta la giusta alchimia, a contrario di Mick Taylor è uno fatto per una band con due chitarre, la sua forza che è poi anche la mia, è suonare in coppia con un altro chitarrista. Niente menate virtuosistiche”.  Nella calda serata del Shepherd’ s Bush dove il livello di energia è costante per tutti i 96 minuti del set, Keith Richards è ancora lo stregone che con un solo tocco ti rivela cosa sia il rock n’roll  e gli Stones sono quella alchimia che ti fa dire, cazzo ma questi nella loro apparente semplicità rock-pop-blues hanno davvero venduto l’anima al diavolo. Forse lo pensavano anche i colleghi accorsi a vederli nel teatro di Hammersmith, da Pete Townshend a Jimmy Page, da Robert Plant a Lenny Kravitz, dagli Areosmith alle mogli, ed ex mogli. Nel 1999 gli Stones non avevano ancora compiuto i 40 anni di attività ma la storia l’avevano già scritta e questa è una ulteriore occasione per sentire ancora l’ odore di zolfo perché il menù non è il karaoke degli ultimi anni. Ci sono ingredienti “esotici” come Melody  che prima era stata eseguita live solo a El Mocambo e qui beneficia del raffinato lavoro di Chuck Leavell al pianoforte e Michael Davis col trombone, le rarissime rese di Moon Is Up e Brande New Car  estratte da Voodoo Lounge, una sontuosa versione di I Got The Blues e quella Route 66  che attesta la vicinanza della loro Londra a Chicago, Memphis e New Orleans.

19 titoli tra cui tre classici messi nel finale, Tumbling Dice con Richards che riffa di brutto e alle spalle la sezione fiati (Bobby Keys, Tim Ries,Micheal Davis, Kent Smith) che inscena uno smargiasso e chiassoso R&B, i sei minuti e passa di Brown Sugar  con incendiario assolo di Bobby Keys al sax e Charlie Watts inusuale “picchiatore”, ed una devastante, veemente e colossale Jumpin’ Jack Flash  che fa piazza pulita di tante altre versioni. Nel mezzo spicca Honky Tonk Women  con l’invitata di turno Sheryl Crow ( frequente sui palchi del Bridges To Babylon Tour )a fianco di Lisa Fisher ed una scoppiettante It’s Only Rock n’ Roll.  L’inizio è affidato alla lasciva e funky Shattered, alla nervosa e punkizzata Respectable , all’unico estratto di Exile  All Down The Line  resa caliente dall’infuocata sezione fiati all’unisono, e ad una intensa versione bluesata di Some Girls con Wood e Keef in gran spolvero. Lo stesso Richards si riappropria (vocalmente parlando) di Before They Make Me Run  e sfoggia un malinconico country-blues in You Got The Silver, la quale immancabilmente evoca in me una scena del film di Antonioni Zabriskie Point e mi rimanda ad un mondo che oggi mi pare sia appartenuto ad un altro pianeta. You Got Me Rocking, anch’essa di Voodoo Lounge, promossa nei successivi tour a classico del loro set, è una frustata con il magnifico slidin’ di Ron Wood e la furba Saint of Me proveniente dal loro album in studio del momento, grazie al coro del pubblico che ne allunga il finale si tramuta in quegli inni cantati da tutto lo stadio nel football inglese.  

Classe, canzoni e feeling, nel caso specifico un suono pulito da teatro con arrangiamenti di fiati e cori di prim’ordine, da qualunque parte ed in qualsiasi momento li si prenda i Rolling Stones non deludono mai.

 

MAURO ZAMBELLINI    NOVEMBRE 2024

 

mercoledì 27 novembre 2024

JAMES LEE BURKE Clete Jimenez Edizioni

Per la prima volta nella serie del detective Dave Robicheaux, l’autore James Lee Burke affida il ruolo di protagonista a Cletus Purcel, storico compagno di avventura di Robicheaux, investigatore privato, ex membro del Dipartimento di Polizia di New Orleans  allontanato per i suoi modi non propriamente ortodossi e veterano di guerra. Sempre in prima linea quando c’è da prendere la parte dei più deboli, corazza dura e pochi punti deboli, Clete sa che Dave è il cavaliere errante e lui lo scudiero ma non per questo rinuncia ad immergersi in prima persona nel lercio mondo della Louisiana del Sud stravolto dalla droga,  abitato da corrotti invischiati con la politica, da papponi capaci di accarezzare una donna solo con la frusta o sottometterla con l’eroina, da riccastri in cerca di notorietà ma semplici pedine di un gioco più grande di loro, da ambigue femme fatale disposte a tutto, da sudicie frattagli umane che inneggiano ai campi di concentramento nazisti e non si fanno scrupolo nel commerciare il leprechaun, nome di un uno gnomo irlandese per nascondere una sostanza altamente tossica capace di scatenare una epidemia mondiale. Tutto inizia quando Clete trova la sua Cadillac Eldorado del 1959 saccheggiata e fatta a pezzi da un gruppo di teppisti coinvolti nel traffico di droga, il suo passato tormentato emerge con prepotenza e scatena una reazione istintiva pensando a quegli spacciatori che hanno venduto il fentanyl  a sua nipote, morta per overdose. Si mette sulle tracce dei responsabili e viene assunto da una donna misteriosa per indagare su suo marito che sembra coinvolto con i responsabili del traffico di leprechaun, imbattendosi di conseguenza in una serie di brutali omicidi ad opera di un uomo tatuato che compare nelle situazioni più impensabili. L’intreccio si complica, Clete ha allucinazioni in cui vede Giovanna d’Arco rivelarsi  come consigliera e protettrice nell’ aiutarlo a sfuggire agguati mortali, mette in dubbio i secondi fini della donna che lo ha assunto come detective e con l’aiuto di Dave Robicheaux entra nel corto circuito di un mondo in cui i bastardi che hanno distrutto la sua Caddy ed i relativi personaggi di contorno potrebbero essere le pedine di un piano molto più oscuro e pericoloso di quanto potessero immaginare. Avvincente e violento e sorretto dall’inconfondibile prosa di James Lee Burke, umoristica, sagace, visionaria, altamente  lirica quando si dilunga nelle descrizioni di quella parte della Louisiana che si estende tra New Orleans e la regione cajun, trasportando i lettori letteralmente in quel luogo di magia e mistero.  Era un luogo antidiluviano che poteva essersi formato durante il primo giorno della Creazione e poi essere stato dimenticato: era selvatico e minaccioso in modo tranquillo, con le paludi e gli acquitrini che sfociavano nel Golfo del Messico senza che se ne vedesse la fine. La sua bellezza testimonia se stessa, come una signora vanitosa e temibile. I chilometri di canneti sommersi, tifa e muschio appeso alle querce, i pellicani che volano in  formazione, il rollio delle nuvole  e le trombe d’acqua all’orizzonte ti fanno tremare. Il sole non  cala, muore, e il suo fuoco si porta dietro il fumo rosso”,  Clete  porta una nuova prospettiva ad un serie divenuta iconica, il miglior romanzo a puntate sul profondo Sud americano nella costante lotta tra la giustizia dei deboli ed il male dei potenti e criminali, letture che non si vorrebbero mai concludere tanto perspicaci sono le metafore sociali e la vena dissacrante dei due protagonisti. Forse in Clete  sono più importanti l’analisi psicologica dei personaggi, la dettagliata descrizione ambientale, la suggestione visionaria di un Medioevo che sale  come nebbia dal bayou, più che la storia stessa, quasi un pretesto per potarci in un universo che si vorrebbe contemporaneamente vivere e fuggire. Come afferma Clete a pag.307  : “ Sempre meglio che vivere nella Città della Noia.  Come diceva il grande filosofo americano Bob Seger, datemi il vecchio rock n’roll di una volta”.

MAURO ZAMBELLINI       NOVEMBRE 2024

 

 

mercoledì 23 ottobre 2024

MARCUS KING BAND Fabrique, Milano 20/10/24


 

C’era attesa per il ritorno a Milano di Marcus King con la sua attuale band dopo la pubblicazione dell’album Mood Swings non troppo benvoluto dai fans della prima ora. Da qualche tempo il baricentro della sua musica si è spostato dal furente, chitarristico e jammato rock-blues degli esordi ad un mood più confacente alle sinuosità del soul, anche in virtù di una voce calda e leggermente arrochita che ben si adatta alle melodie di questo genere. Le prime avvisaglie si sono avute al tempo di Carolina Confessions ma sono diventate evidenti con la produzione di Dan Auerbach di El Dorado e del recente Mood Swings, il primo vicino alle ambientazioni del country-soul, il secondo un succoso modern soul che premia una voce che ha pochi eguali al momento, la più autorevole assieme a quella dell’amico Warren Haynes (entrambi della Carolina, il primo del Sud, l’altro del Nord) nel  cantare un soul-blues di derivazione americana. Lo show milanese ha tolto qualsiasi dubbio, Marcus King, uscito dal tunnel della dipendenza, è parso in forma ed immerso in questa fascinazione, ritagliandosi all’interno del concerto, un siparietto in solitario per voce e chitarra acustica a sottolineare la veste di soul songwriter. Così, con la maestria di un giovane Bobby Womack, ha dato voce ai palpiti di un cuore innamorato nella struggente Bipolar Love, in Die Alone e appunto Mood Swings. Ma non crediate che ciò che è stato il suo passato sia stato buttato alle ortiche perché la Marcus King Band seppure in formazione rinnovata possiede ancora l’artiglieria per sparare un benessere elettrico che tonifica i sensi, sia nelle intense ballate che hanno i titoli di Save Me e Goodbye Caroline, momenti in cui la commozione serpeggiava palese in platea, sia nei pezzi più muscolosi dove un secondo chitarrista, Drew Smithers, non sempre in tono e piuttosto meccanico nei suoi affondi con la slide (forse perché costretto a suonare una  Custom del 1976 visto che le sue sono scomparse nel trasferimento da Madrid a Milano) dialogava con la Gibson e la Telecaster del leader in una sincronia di esaltanti assoli di pura scuola southern rock. Se poi aggiungete il potente e dinamico batterista Jack Ryan, un bassista che per tutta la durata dell’esibizione ha sorriso come fosse ad una festa di compleanno, ed un tastierista, Mike Runyon, che con l’Hammond intrecciava i fili dell’intero sound  con quel grasso sentore di Muscle Shoals e Stax, allora era chiaro a tutti che la  Marcus King Band poteva tranquillamente innestare la sesta marcia senza mai andare fuori giri. Cappello da cowboy, basettoni da soulman anni 70, scuro abito di taglio western, Marcus coi suoi pards è stato annunciato dalle note de Il Buono, il Brutto e Cattivo prima di partire a razzo con l’arcigno rock-blues di It’sToo Late preso da Young Blood, per poi dedicarsi alla melodica e romantica Beautiful Stranger, a Hero e This Far Gone in modo da avvalorare il nuovo corso della sua discografia. Ma se le ballata soul con la loro innata sensualità sono il cuore pulsante di tali tracce, la resa live non si limita all’ elegante ammiccamento proprio del genere, perché King con i suoi compagni di ventura vitalizza il parlare d’amore con l’ elettrizzante ed energico ardore di cui sono capaci e allora quella che era semplice sensualità si trasforma in una esplosione di carnalità rock. In Inglewood Motel la stanza sembra grondante di amore, la voce di Marcus King fa vibrare l’anima e la band si scioglie in un sussulto jazzistico che rivela una bravura strumentale di prim’ordine, il brano si fonde con Azucar per poi lasciare posto al malinconico tono country di Good Time Charlie’s Got The Blues, una composizione di Danny O’Keefe che veniva interpretata anche da Presley. La robusta ed originale rivisitazione di Are You Ready for the Country di Neil Young sul giro di chitarre di Crossroads dei Cream e 8 A.M, un lascito di California Confessions, che parte lenta prima di scatenarsi in una bufera soul-rock, è quello che necessita perché dopo neanche un’ora di show la platea, finalmente divisa tra giovani e anta, donne e uomini, raggiunga la temperatura di godimento. La sanguigna Honky Tonk Hell trasuda boogie e bettole sporche di avventure da quattro soldi, Fuck My Life Up Again rimette in pista il soul prima della scorbutica e caotica jam Lie Lie Lie dove il batterista scatena tutta la sua forza in un assolo d’altri tempi per finire nel Rice Pudding del Jeff Beck Group. L’attesa per l’encore non dura nemmeno un minuto, sappiamo da una vita qual è la generosità delle band nate sotto la Mason-Dixon line, la dolce Delilah e Wildflowers & Wine, altri due estratti dai dischi prodotti da Auerbach, preparano il gran finale per una Ramblin’ Man che manda in visibilio l’intero Fabrique evocando Dickey Betts, gli Allman ed una tradizione musicale che ancora sa essere viva e contagiosa.



Nella stessa sera su altri palchi della stessa Milano andava in onda  la redenzione, la glorificazione e la santificazione del personaggio di turno, un ecumenismo di mani protratte a toccare il mito in una sorta di rito salvifico, niente di tutto questo alla periferia oscura della città, dentro le mura del Fabrique dove il rock n’roll rimaneva una manifestazione profana di sensi, cuore e turbamenti pelvici, il canto semplice e meraviglioso di un ragazzo venuto dal profondo Sud che canta e suona la chitarra come un Dio (dei bassifondi).

MAURO ZAMBELLINI     Foto di RODOLFO SASSANO

martedì 27 agosto 2024

RAY LAMONTAGNE Long Way Home


 

E’ un ritorno alla semplicità dei primi album, in particolare a Trouble, quello che esce dalle nove tracce di Long Way Home, ultimo lavoro del cantautore nato nel 1973 a Nashua nel New Hampshire. Dopo aver girovagato nel cosmo con dischi come Supernova e Ouroboros più vicini ai Pink Floyd che al folk-rock degli inizi, il ritorno a casa era stato annunciato nel 2020 da Monovision ma è diventato esplicito in Long Way Home. Con quella voce sabbiosa da crooner perso nel diluvio che contraddistingue il suo cantato e canzoni che distillano emozioni e storie di vita intima e sulla strada, Ray LaMontagne riannoda le fila della sua esperienza artistica e lo fa nei migliore dei modi, recuperando schiettezza, liricismo, atmosfera per regalare nove canzoni che arrivano al cuore per via diretta. L’amore per il folk-rock dei songwriter degli anni settanta è palese, i suoi veri vicini di casa sono Van Morrison, John Martyn, Neil Young, Jackson Browne, Nick Drake e quella schiera di trovatori dall’animo turbato che caratterizzarono quell’epoca. Senza dimenticare che la sua voce si presta molto bene al soul e qui se ne ha dimostrazione in My Lady Fair dove sembra di entrare in una registrazione della Stax dei sixties, il punteggiare di un organo memphisiano, il calibrato gioco tra ritmica e fiati, la voce “velata” alla Otis Redding, le carezze e la sensualità di Ben E.King, tutto porta in quella direzione. Non è la sola canzone a parlare quella lingua, l’iniziale Step into Your Power fa battere i piedi attorno al corale backing vocale delle Secret Sisters in uno di quei caldi quadretti di nostalgia soul anni sessanta, mentre I Wouldn’t Change a Thing apre un altro capitolo, quello del folk-rock con aromi di country music per via di una lap-steel che fa molto americana. Non molto diversa The Way Things Are potrebbe essere materia di David Crosby con quel arpeggio delicato, la voce sospesa ed il sound minimale, e Yearning un riferimento neanche troppo inconsapevole al Van Morrison delle settimane astrali, compresi quegli spigolosi accordi di chitarra sullo sfondo di contrasto a quella melodica in primo piano. Un ricordo di un’epoca meravigliosa che la seguente And They Called Her California già nel titolo lo sottolinea, se non fosse che il dolente andamento ritmico, voce compresa e quell’armonica inconfondibile trasportano di getto in On The Beach di Neil Young. Sembra proprio una outtake di quell’album del 1974. Prodotto in tandem con Seth Kauffman ( Lana Del Ray, Angel Olson, Floating Action), il nono album di LaMontagne, a detta dell’autore, parte dal ricordo di quando a 21 anni vide in club di Minneapolis suonare Townes VanZandt, un pensiero che lo ha accompagnato tutti questi anni ispirandolo nella scrittura di Long Way Home, la lenta  ballata con cui si chiude l’album omonimo, introdotta da So, Damned, Blue, un inizio atmosferico alla Fletwood Mac di Albatross per poi diventare una intimissima confessione di arrendevolezza capace di tramutarsi in un palpitante momento erotico. Finale di album strepitoso che rimette Ray LaMontagne nella cerchia dei migliori songwriter dei nostri anni.

 

MAURO ZAMBELLINI 2024

mercoledì 26 giugno 2024

JOHNNY CASH Songwriter

Registrate all’inizio del 1993 poco prima di incontrare il produttore Rick Rubin per quelle che sarebbero diventate famose come American Recordings , le undici canzoni di Songwriter  dovevano costituire un album poi accantonato perché Johnny Cash fu talmente assorbito da quella partnership musicale da proseguire una collaborazione durata per i restanti anni della sua vita. Quei demo furono registrati nei LSI Studios di Nashville e rimasero nel cassetto fino quando, trenta anni dopo, il figlio di Johnny Cash e June Carter, John Carter Cash li ha scoperti e col produttore David “Fergie”Ferguson ha isolato la voce e la chitarra acustica dell’autore per poi darne nuova vita, aggiungendovi parti strumentali con musicisti che avevano già suonato col padre. Nella Cabin di Hendersonville nel Tennessee dove Johnny Cash  era solito scrivere, registrare e rilassarsi, il figlio John Carter, chitarrista e co-produttore del progetto, con l’aiuto del fidato tecnico di studio del padre, David Ferguson e l’altro tecnico Trey Call hanno ridotto gli originali alla sola voce e chitarra  e plasmato quel materiale grazie agli interventi del chitarrista Marty Stuart, del bassista Dave Roe ed il batterista Pete Abbott. Il risultato raggiunto è prodigioso, rispettare il sound dell’epoca con un approccio di misura e di eleganza, un sottile lavoro di interventi calibrati che preserva il cuore delle canzoni proiettandole in un contesto moderno. Fondamentale il ruolo di Ferguson, probabilmente una delle persone che sapeva meglio cosa piaceva a Johnny Cash, ingegnere del suono dello studio di Jack Clement dove Cash amava registrare e con cui aveva lavorato nella maggior parte degli album per la Mercury e per le American Recordings, e grazie all’aiuto del quale sono stati selezionati i musicisti protagonisti di Songwriter,  album che permette di recuperare canzoni che mostrano l’ampiezza della scrittura di Cash secondo una veste che suona come se l’artista l’avesse registrato oggi. Il chitarrista Marty Stuart che suonò con Johnny nei Tennessee Three negli anni ottanta, ed il bassista Dave Roe in tour con l’artista nella decade successiva ed il batterista Pete Abbott già con la Average White Band, sono il nocciolo  strumentale dell’operazione a cui si sono aggiunti Matt Combs (chitarra acustica e mandolino), Mike Rojas (Hammond B3 e pianoforte), Russ Pahl (chitarra, basso, dobro e steel), Sam Bacco (percussioni), Ana Cristina Cash (cori) e altri invitati tra cui Dan Auerbach , Harry Stinson, Vince Gill e Waylon Jennings la cui voce è stata salvata dalle originali session di I Love You Tonite e Like a Soldier. “Nell’approccio siamo andati dritti alle radici, per quanto riguarda il suono, e abbiamo cercato di non esaltarlo eccessivamente, afferma John Carter Cash -  l’abbiamo costruito come se papà fosse nella stanza. Fergie e io abbiamo trascorso migliaia di ore con papà nello studio di registrazione e quindi abbiamo cercato di comportarci come se fosse lì”. “Conosco John Carter da quando era un ragazzo, aggiunge Ferguson- quindi è stato fantastico poter  lavorare con lui. Mi ha lasciato molta libertà d'azione, soprattutto in termini di groove e cose del genere. Siamo andati proprio nella stessa direzione. Non c’è mai stata una conversazione o un piano su un prodotto finale, si è semplicemente trattato di fare del nostro meglio”.

Quelle di Songwriter  sono undici canzoni che parlano d’amore, dolore, bellezza, famiglia, salvezza spirituale, lotte personali e redenzione con quella profondità vocale e compositiva e quella lucidità che hanno reso Johnny Cash una leggenda, con l’aggiunta di un pizzico di spensierato umorismo. Undici gemme di saggezza, tormento e passione a cominciare dalla stupenda Hello Out There, afflato vocale gospel trasformato in una visionaria dimensione  cosmic-country  dal magnifico riff di Marty Stuart e dalla dilatata steel di Russ Pahl, un messaggio di salvezza che l’autore aveva registrato poco prima della collaborazione con gli U2 per The Wanderer. Non da meno è la seguente Spotlight, canzone sulla perdita di un’amore impreziosita dalla chitarra bluesy di Dan Auerbach, dalle percussioni di Sam Bacco, con l’ arrangiamento d’archi di Matt Combs che accompagna l’inconfondibile voce di Cash, una vera radiografia dell’anima. Drive On come Like a Soldier  facevano parte del primo capitolo delle American Recordings, la prima risplende nel lavoro di 4 chitarre in contemporanea (Stuart, John Carter Cash, Wesley Orbison, Russ Pahl) e parla delle difficoltà sopportate dai veterani di guerra del Vietnam comunicando attraverso un sound rarefatto tutto quel dramma, la seconda tratta invece della lotta di Cash contro la dipendenza. Scritta dopo un periodo in un centro di recupero si muove su una linea country-folk con la voce di Cash che sembra cercare una rinascita accompagnato dall’amico Waylon Jennings, uno degli outlaw della country music.

Due toccanti canzoni d’amore, entrambe dedicate alla compagna della sua vita June Carter deceduta tre mesi prima della sua scomparsa nel 2003 ritraggono un Cash accorato, signorile nel condensare in poche note e parole, con pacata discrezione, un estratto di storia personale sua e della famiglia. I Love You Tonite è una commovente lettera d’amore scritta alla moglie nel 1991 mentre Poor Valley Girl  parla sia di June che di sua madre Maybelle Carter e lo fa coi modi tipici del country più asciutto e domestico, col tocco raffinato del dobro di Russ Pahli , il contrabbasso di Dave Roe ed il contributo vocale di Vince Gill. Sulla stessa falsariga Soldier Boy è un estratto di arte della semplicità, rappresentazione di una voce universale che all’epoca in cui questi demo furono realizzati era piuttosto ignorata. Cash si trovava in una fase di pausa della sua carriera, non aveva ottenuto quello che gli era dovuto seppure avesse firmato un pezzo di storia musicale a stelle e strisce, solo le American Recordings  riporteranno la giusta e meritata attenzione sulla sua opera. A maggior ragione Songwriter, dal punto di vista lirico,  è album imprescindibile di un artista colto in un momento particolare della sua vita, con canzoni per la maggior parte inedite, “rivestite” a nuovo con l’intento di portare nuove persone a scoprire e approfondire la conoscenza di un artista tanto importante. Un autore che in Have You Ever Been To Little Rock  esprime l’orgoglio per la sua terra natale su una bellissima melodia tradizionale, mentre il tema della dolcissima  She Sang Sweet Baby James  ruota attorno ad una giovane madre single che canta Sweet Baby James di James Taylor per confortare il suo bambino. Johnny era un fan di Taylor sin da quando quest’ultimo si esibì nella prima stagione del "Johnny Cash Show" nel 1971. Se Well Alright  attraverso il ritmo sardonico del classico boom chicka boom  propone con umorismo l’incontro casuale tra una lei ed un lui in una lavanderia a gettoni, Sing It Pretty Sue estratta dall’antico booksongs di Cash è la confessione di un fan che abbandonerà ogni pretesa e non dirà a nessuno del loro incontro riguardo a  lei che ha rinunciato a tutto per una carriera affascinante ed essere una star di proprietà pubblica. Chitarre acustiche ed elettriche, sezione ritmica in punta di piedi per non privare la scarna poesia degli originali, sfumature e dettagli centellinati ad arte, lap steel e contrabbasso, melodie che pulsano di amore e sofferta esistenza, Songwriter  presenta undici canzoni di rara bellezza ancora più accattivanti con questo ritocco sonoro, il giusto riconoscimento ad uno dei grandi autori, narratori e cantanti della musica popolare americana, degno di sedere a fianco di Woody Guthrie, Hank Williams, Muddy Waters,  Bob Dylan.

Songwriter  è disponibile nella versione singolo CD con gli undici titoli citati e nella versione doppio CD con altri titoli noti del suo repertorio e brani ri-registrati negli anni ottanta.

MAURO  ZAMBELLINI     GIUGNO 2024

p.s  dedicata a Paolo Carù grande fan dell’uomo in nero.

 

 

 

 

 

lunedì 17 giugno 2024

In memory of Richard Forrest Betts


 

 

Per tutti coloro che hanno amato la Allman Brothers Band ed in generale il rock americano, la scomparsa di Richard Forrest Betts, nato il 12 dicembre 1943 a West Palm Beach in Florida, lascia un vuoto incolmabile anche se ad onore del vero Dickey era uscito di scena qualche anno fa, da quando nel 2018 era stato curato per una lesione cerebrale conseguente ad una caduta e a causa di un ictus aveva dovuto annullare un tour. E’ morto a 80 anni nella sua casa di Osprey nelle vicinanze di Sarasota in Florida, il suo manager David Spero ha affermato che Betts era malato di cancro e di una malattia polmonare cronica ostruttiva. Personaggio difficile ma chitarrista mostruoso che suonava con sicurezza e creatività in uno stile unico e riconoscibile con un fraseggio melodico dove confluivano country, blues e jazz, Betts in gioventù aveva cominciato con l’ukulele per poi passare al mandolino e banjo nel road show famigliare denominato World of Wonder. Optò per la chitarra elettrica per far colpo sulle ragazze e all’età di 16 anni lasciò la famiglia per unirsi a degli adolescenti che lavoravano in un circo itinerante. Facevano una decina di spettacoli al giorno in una sorta di vaudeville e per Betts fu un modo di sentirsi parte di un gruppo, ma man mano che la sua reputazione musicale cresceva anche il suo lato selvaggio ne traeva vigore. Quando venne assunto da una band dell’Ohio, i Jokers, per uscire dallo stato natale ebbe bisogno del permesso del giudice perché era stato messo in libertà vigilata dopo aver scavalcato la recinzione di un vicino e sparato ad una mucca. Con il bassista Berry Oakley, il tastierista Reese Wynans e la moglie Dale diede vita ai Blues Messengers che il proprietario dello Scene Club di Jacksonville, dove divennero la residency band, ribattezzò Second Coming perché a suo dire Berry Oakley assomigliava a Gesù Cristo e quel nome presupponeva un secondo avvento. Le influenze musicali di Betts sono state varie e diverse fin dagli inizi, se il primo approccio riguardava il bluegrass e l’hillbilly dei Monti Appalachi nel tipico retaggio famigliare, poi arrivò la passione per il rock n’roll di Chuck Berry e soprattutto il blues di B.B King e Albert King, ma amava anche il gypsy jazz di Django Reinhardt ed il folksy sound psichedelico dei Grateful Dead. Un background che assorbì senza porsi mai limitazioni di genere, possedeva un orecchio incredibile ed il suo tocco poteva trasformare in un istante una melodia gentile in un fuoco aggressivo. I suoi riconoscibili morbidi e melodici assoli di chitarra, valga l’esempio di In Memory of Elizabeth Reed e High Falls, sapevano dipingere in note gli armoniosi paesaggi del suo Sud, quel saliscendi di colline irrorate dal profumo delle magnolie che divennero un segno distintivo del suo stile, specie dopo la morte di Duane Allman quando si trovò ad essere l’unico chitarrista della Allman Brothers Band, una svolta country-rock squisitamente espressa da titoli come Ramblin’ Man e Jessica e da un album leggendario come Brothers and Sisters. Elogiato in veste di chitarrista, Betts è altrettanto indimenticabile come autore e cantante. Le sue prime composizioni per la ABB risalgono al secondo album, Idlewild South (1970) dove firmò la monumentale In Memory of Elizabeth Reed divenuta nel tempo emblema del fluido e torrenziale melting della band negli show dal vivo, sintesi di quel geniale mescolamento jam che offriva a ciascun musicista la possibilità di divagare ed improvvisare secondo un’attitudine jazzistica che traeva spunto dai dischi di Miles Davis e John Coltrane, e Revival, una canzone gioiosa e ritmata introdotta da una sei corde acustica, la cui linea melodica ricorda Jesus is Just Alright dei Byrds ed il cui finale si dilata fino a rammentare Love the One You’re With di Stephen Stills. Il debutto nel ruolo di cantante solista nella ABB avvenne con il dolce e melodico country&western Blue Sky, assieme all’incantevole numero acustico Little Martha ultimo brano a presentare la splendida armonizzazione di chitarre di Betts e Duane Allman in coppia. Dedicata alla moglie di allora, una ragazza indiana di nome Wabegijig che significa “cielo azzurro”, Betts chiese a Gregg Allman di interpretarla ma fu il produttore Tom Dowd a convincere Betts nel cantarla lui stesso. Con le sue morbide linee, quella canzone prefigura una pastorale cavalcata tra i bucolici paesaggi del Sud-Est degli Stati Uniti con una sequenza di frasi chitarristiche  che i due maestri sembrano eseguire rilassati e senza alcun sforzo, Duane rendendo il suono simile a quello di una pedal steel proiettandosi in uno degli assoli più tenui e delicati della sua carriera, mentre Betts regge una salda linea melodica con meravigliosi turbinii di note. La si trova sul doppio album Eat a Peach (1972) e non è l’unica sua composizione di quel disco: il lungo strumentale Les Brers In A Minor , titolo che in francese cajun significa “fratelli in La minore”, anticipa i cambiamenti in atto nella ABB seguiti alla scomparsa di Duane con un andamento cinematico dettato dalla scioltezza esecutiva di accento jazz di Betts, dal calibrato uso dell’organo da parte di Gregg, dal potente basso di Oakley usato come una seconda chitarra solista e da strati e strati di percussioni in una poderosa ma fluida sequenza sonora. Ma è con Brothers and Sisters che Dickey Betts sale in cattedra affiancando Gregg nella scrittura delle canzoni, assumendo il ruolo di condottiero della band, seppure in parte riluttante, in un momento di sbandamento e di incertezze per le morti improvvise (dopo Duane quella di Oakley)tanto che la stessa Atlantic non sembrò, a torto, credere al loro futuro. I concerti del periodo immediatamente post-Duane non furono tutti esaltanti e si può capirne la ragione ma ancora prima dell’entrata in scena di Chuck Leavell e del bassista Lamar Williams, Betts con l’orgoglio tipico del southern man si rimboccò le maniche, imparò a suonare la slide in quello che prima era compito del solo Duane e creò una valida alternativa a Gregg nel cantare. Responsabile la dipendenza all’eroina di Gregg, assunse il ruolo di leader e trainò la band verso una nuova stagione. Se ne ha dimostrazione nel concerto del 7 aprile 1972 alla Manfield House della Syracuse University (disco recensito su Buscadero n.474) dove nella anomala line up a cinque, la ABB interpreta un’altra parte della propria storia con una sontuosa e commovente performance nella quale Betts si erge mattatore, Oakley tuona con un basso dal drive forsennato e Gregg con la sua voce trasforma il dolore in gioia.



In Brothers and Sisters sono quattro i brani firmati da Betts che sottolineano il naturale spostamento verso un originale sound country-rock per una band che da doppia sezione ritmica e due chitarre si tramutava in una band con doppia sezione ritmica e due tastiere complementari, il pianoforte di Leavell e l’organo di Gregg. La cavalcata country-blues di Pony Boy scritta e cantata da Betts con l’umore  tipico delle liriche di Willie McTell racconta la tradizione famigliare di uno zio bevitore che cavalcava un cavallo verso casa da una taverna per evitare il controllo delle forze dell’ordine sulla guida in stato di ubriachezza, mentre la scoppiettante Ramblin’ Man cantata con voce schietta dallo stesso chitarrista, inizialmente considerata troppo country dal resto del gruppo, divenne un hit nella top 10 di Billboard narrando della voglia di viaggiare di un uomo "nato sul sedile posteriore di un autobus Greyhound che percorre l'autostrada 41".  La muscolosa Southbound cantata da Gregg ma scritta da Betts  dava modo al nuovo arrivato Chuck Leavell di dimostrare quanto poteva arricchire l’alchimia sonora della band, mentre l’interplay tra pianoforte e chitarra solista raggiungeva l’apoteosi nello strumentale Jessica dedicata alla figlia.

La storia è nota, un processo a carico del roadie Scooter Herring per traffico di stupefacenti e collusione con la Mafia Dixie, il patteggiamento e la deposizione di Gregg nello stesso processo per evitare il carcere, quintali di droga, liti, risse e matrimoni consumati come sigarette mandano in tilt una band che fino a poco tempo prima era sinonimo di comune, se non addirittura di famiglia. Esemplare la descrizione di Phil Walden, il creatore della Capricorn Records: “a quel punto eravamo tenuti insieme con lo spago, tutti conducevano una vita a dir poco sregolata, spendendo soldi come se non ci fosse un domani, ognuno aveva la propria suite d’albergo e la propria limousine, assumendo  quantità di stupefacenti a dir poco prodigiose, consumando in una sera tanto alcol quanto ne consumava l’intera clientela di un bar ben frequentato in un fine settimana”. Una sera Betts ubriaco demolì i locali della Capricorn rivoltando scrivanie e sbattendo a terra i dischi d’oro appesi alle pareti, la moglie Sandy altrimenti detta blue sky divenne vittima di pesanti maltrattamenti e chiese il divorzio, il marito accettò di pagare alla moglie un indennizzo di 56 mila dollari. La situazione andò fuori controllo ma prima dello scioglimento del 1976 ci fu ancora tempo per ottima musica. A detta del produttore Johnny Sandlin la realizzazione di Win, Lose or Draw fu uno dei compiti più ardui della sua carriera, le tensioni e le divisioni all’interno della ABB erano al massimo, Gregg  stava costantemente a Los Angeles a consumare la sua burrascosa love story con Cher, le assenze erano in numero maggiore delle presenze, gli unici a suonare sempre insieme in studio erano Leavell, Jaimoe e Williams, ognuno registrava separatamente i propri assolo, fu un miracolo che quell’album uscì. Vituperato in maniera eccessiva dalla critica, in Win, Lose or Draw c’è a mio modo di vedere uno dei numeri più brillanti del Betts musicista: High Falls. Quindici minuti e oltre di armonioso e liquido jazz-blues con un inizio etereo e sognante dove Betts si dileggia in una delle sue dolci e liriche geometrie tanto da evocare paesaggi country pur facendo presagire uno stile “fusion”. 



L’album fu pubblicato nel 1975 un anno prima di Highway Call, primo disco di Betts a suo nome e meraviglioso affondo nella musica delle sue origini, il bluegrass, con il virtuoso di violino Vassar Clements, il suonatore di pedal steel di Conway Twitty John Hughey, il chitarrista Tommy Talton, il gruppo bluegrass dei Poindexters e quello gospel dei Rambos, oltre a Chuck Leavell e ad una sezione ritmica. Niente zucchero e sviolinate Nashville ma jam e libere improvvisazioni in nome di un progressive country con una attitudine tesa a scompaginare le regole del genere in un mix di ballate, western swing, strumenti tradizionali ed elettrici. Il senso di una musica solare e corale, sullo sfondo di una festa agreste tra le boschive pendici dei monti Appalachi, canzoni che riconoscevano il desiderio di una vita rurale più semplice, forse un riflesso della tensione negli incessanti tour della ABB. Non fu l’unica  sua iniziativa solista nel periodo “ognuno per la sua strada” della ABB, nel tentativo di racimolare denaro causa i debiti per il divorzio da Sandy e grazie agli anticipi della Arista si inventò una copia dei Brothers assoldando due batteristi, il valente chitarrista “Dangerous” Dan Toler, il bassista Ken Tibbets ed il tastierista Tom Broome per formare i Great Southern. Un primo album firmato Dickey Betts and The Great Southern (1977) 


rappresenta il caldo viaggio tra bouganiville, palme, distese marine all’insegna di un sinuoso blues dettato dal suo raffinato stile chitarristico, un secondo lavoro col titolo di Atlanta’s Burning Down (1978)con “Rook” Goldflies al basso ed il fratello di Dan Toler, David alle percussioni, nonostante la presenza della cantante Bonnie Bramlett e del tastierista Reese Wynans, indurisce un po’ la materia ma  sconta il modo in cui fu prodotto ed inserite le parti vocali. Fu un flop ma col senno di poi è meno peggio di quanto sembrò all’epoca, quando il fantasma della ABB continuava ad aleggiare sulle scelte fatte dai singoli membri, Gregg con Laid Back ed il tour con l’orchestra, gli altri con i Sea Level. Risposatosi con un’ amica di Cher, Paulette e risolti momentaneamente i suoi problemi grazie alla frequentazione degli Alcolisti Anonimi, Betts si riconcilia con Gregg dopo che alla rivista Rolling Stone, a seguito della deposizione dell’Allman contro Scooter Herring, aveva confidato di non volere mai più salire sul palco con lui. Si porta appresso dai Great Southern, Dan Toler e David Goldflies e nel novembre del 1978 la ABB si ricompone attorno a Gregg e Dickey con Butch Trucks, Jaimoe e i due nuovi arrivati. Enlightened Rogues fa ben sperare e Dickey Betts ne è protagonista firmando cinque canzoni su sette, tra cui Blind Love con l’amico e attore Don Johnson ma la resurrezione dura poco, due album mediocri se non pessimi come Reach For The Sky e Brothers of The Road segnano la fine della prima era della ABB. Corrispose all’arrivo degli anni ottanti dove tutto cambiò: trend musicali, look, suoni e marketing. Con il debutto del compact disc sul mercato, una sempre maggiore diffusione di sintetizzatori digitali e batterie elettroniche oltre ai campionamenti, aveva stravolto le modalità di registrazione della musica, il synth-pop sostituì le chitarre, fu un periodo duro per i musicisti vecchio stampo. Il Southern rock aveva assunto un significato dispregiativo, divenne un marchio che andava stretto all’ufficialità del rock, e scomodo per il business che ormai non ne voleva più saperne di stivali, cowboy, capelli lunghi e jam chilometriche. Con Mtv, l’ art department poteva svoltare la carriera di un artista, la cultura visuale della popular music cambiò radicalmente da un giorno all’altro. Gregg Allman fu costretto a mettersi alla ricerca di serate nei bar per tirare a campare, barcamenandosi in situazioni quantomeno approssimative suonando davanti a veterani e vecchi hippie, Dickey Betts mise insieme i BHLT con Leavell, Trucks e Jimmy Hall di Wet Willie  esibendosi nei night-club, si proposero per registrare un album ma trovarono porte chiuse ovunque. Alla fine Gregg assemblò una piccola band coi fratelli Toler e grazie al vecchio manager della ABB Willie Perkins allestì un tour nel Nord-Est degli Stati Uniti e per economizzare sui costi unì le forze col vecchio amico Dickey nel Double Bill Tour ovvero prima suona uno, poi l’altro e alla fine jam insieme. I biglietti si volatizzarono in un attimo a dimostrazione che molti fans non li avevano dimenticati e quello fu un prologo della reunion. Nel 1987, a sorpresa, Gregg riuscì a pubblicare un album I’m No Angel che diventò disco d’oro mentre Dickey Betts dopo continui cambiamenti d’organico, ridefinì la sua band ingaggiando il talentoso emergente chitarrista Warren Haynes ed il tastierista Johnny Neel che andarono ad aggiungersi a Matty Privette e al batterista  Matt Abts, il quale tempo dopo sarebbe finito nei Gov’t Mule. 


Nello studio Pegasus di Butch Trucks a Tallahassee, ospite del disco, come Dickey Betts Band registrarono Pattern Disruptive, un solido e dignitosissimo compendio di rock, blues e country. Ma fu la pubblicazione nel 1989 di uno dei primi box in CD, Dreams con cui si ricapitolava la storia della ABB, e la nascita di un nuovo format radiofonico, il classic rock, a favorire la resurrezione degli Allman. Per quegli strani corsi e ricorsi della storia le radio americane avevano avviato un parziale cambio di direzione rispolverando la musica di un tempo riproposta con rinnovato entusiasmo, il blues riappariva in scena grazie a Steve Ray Vaughan, Fabulous Thunderbirds, Robert Cray, e Rolling Stones e Who tornarono on the road coi loro show. La Allman Brothers Band li seguì andando in tour ancora prima di pubblicare il nuovo disco con la Arista. Di nuovo Gregg, Dickey, Jaimoe e Trucks si trovarono a fianco l’uno dell’altro, con le aggiunte di Warren Haynes e Johnny Neel sopraggiunti dalle session di Pattern Disruptive, e del bassista Allen Woody transfugo dal gruppo del batterista dei Lynyrd Skynyrd Artimus Pyle. Dopo che gli Allman si ricomposero, molti giornalisti scrissero di un ritorno dei dinosauri, chiedendosi se fossero ancora in grado di fare buona musica, la cosa non fece che dare più spinta e determinazione a Dickey, Gregg e compagni che sul campo risposero con ottimi dischi(a cominciare da Seven Turns del 1990), e grandi tour rilanciando una epopea che li avrebbe portati fino al concerto d’addio al Beacon Theatre di New York nel 2014. Seven Turns fu un cambio di rotta rispetto alle scialbe prove con la Arista, le chitarre di Haynes e Betts resuscitarono il classico sound della ABB e Gregg riacquistò carisma pur essendo ancora in lotta con la dipendenza. Riassunsero il produttore di At Fillmore East,  Tom Dowd il quale fu decisivo per un album importante nella ricostruzione di un rapporto umano e artistico tra i due leader, e Betts si ritrovò di fianco un chitarrista, Haynes, di grande tecnica che lo poteva liberare nei suoi assoli senza che avesse l’impegno della slide. Sette canzoni su nove sono scritte da Betts con le parti vocali distribuite tra lui, Johnny Neel, Haynes e Gregg. Tra le cose migliori spiccano Good Clean Fun, lo strumentale True Gravity una poderosa escursione sui sentieri del jazz con Ornette Coleman nella mente, altro amore di Betts, e la canzone che dà il titolo album dove Dickey ricrea l’atmosfera di Blue Sky attraverso un delicato arpeggio di chitarra acustica prima di immergersi in una vera e propria ballata. I seguenti Shades of Two Worlds (1991) e Where It All Begins (1994)convalidano la sinergia esistente tra Betts e Haynes e quest’ultimo acquista peso nella composizione in titoli come End of The Line, Kind of Bird e Soulshine ma il vecchio timoniere ha ancora colpi in canna e basta Nobody Knows per far capire quanto il suo ruolo sia stato fondamentale nell’intera storia della ABB, coniando con il suo stile un sound che quando di lì a poco sarà allontanato dalla truppa, non sarà più lo stesso. Nel 1995 la ABB fu inserita nella Rock and Roll Hall of Fame ma Gregg era troppo ubriaco per fare il discorso di accettazione, fu il passo decisivo per dare un taglio a tutto, comprese le sigarette, e ripulirsi. Introdotti da Willie Nelson, Betts si cimentò in un esplosivo assolo nell’esecuzione di One Way Out ma poi, imperterrito continuò nella sua dieta a base di alcol e complice il suo atteggiamento dispotico assunse un comportamento molesto nel confronto degli altri compagni. Spesso se ne stava in disparte, raggiungendo sbrigativamente l’albergo a fine dello show, venne arrestato e tradotto in cella nello stato di New York per resistenza a pubblico ufficiale e turbamento dell’ordine pubblico a seguito di un violento alterco con la sua quinta moglie Donna. Sul palco si limitava ai suoi assoli e appariva svagato ed insofferente, era diventato aggressivo e pericoloso, in Oregon prese a pugni Allen Woody e quando Haynes si allontanò temporaneamente dalla scialuppa per andare a formare i Gov’t Mule, il sostituto Jack Pearson, già sofferente di acufeni, fu sottoposto agli esagerati decibel imposti da Betts così da abbandonare la band. L’innesto di Derek Trucks diede entusiasmo a Betts, contento di trovarsi un giovane a fianco ma quando Trucks si cimentava nel suo assolo, si metteva in disparte osservandolo come un falco. Continuava ad ingurgitare ettolitri di birra e spesso farfugliava sulle canzoni suonando ad un volume incredibile, alla fine gli altri lo invitarono a staccare momentaneamente la spina per una cura disintossicante. Avrebbero suonato senza di lui per qualche mese ma le cose non si sistemarono affatto, Betts continuò ad accusare Gregg di averlo licenziato con una telefonata, alla fine fu lui stesso a lasciare i Brothers e la diatriba finì in un arbitrato davanti ad un mediatore per i diritti delle canzoni ed il merchandising. Betts era stato uno dei fondatori della ABB, oltre che una pedina fondamentale per il loro particolare stile rock-blues, il cowboy che in tante occasioni aveva guidato la carovana e risollevato la baracca dopo la morte di Duane ma il suo nome non era mai comparso in quello della band che faceva riferimento solo ai fratelli Allman, e ciò lo indispettiva. Non stette a leccarsi le ferite per tanto tempo, nel giro di un anno aveva già messo in cantiere un gruppo con tanto di sassofonista ed inciso il traboccante Let’s Get Together



un bel album con parecchi riferimenti al be-bop e qualche brano, Rave On e One Stop Be Bop, che i Brothers avevano suonato negli anni precedenti dal vivo ma poi lasciato da parte. Riformò i Great Southern con un manipolo di bravi musicisti tra cui la cantante Twinkle e soprattutto il figlio Duane, degno continuatore di una lezione musicale ed uno stile chitarristico da salvaguardare nel tempo, come dimostra l’eccelso suo album Wild & Precious Life del 2023. Il brillante The Official Bootleg riporta estratti del tour nord-americano di Betts coi Great Southern del 2006 dove trovano posto tutti i classici del suo songbook, da High Falls a Blue Sky, da Seven Turns a Elizabeth Reed, da Southbound a Jessica e Ramblin’ Man mentre per la serie Rockpalast i Great Southern con in squadra Duane Betts e l’altro chitarrista di scuola allmaniana, Andy Aledort, li troviamo nel 2008 in un set altrettanto incandescente. Purtroppo i vecchi rancori con Gregg Allman non consentiranno una reunion con la ABB, Betts ritornò a suonare a New York nell’intima Concert Hall a pochi isolati dal Beacon Theatre nel 2014, ma sebbene invitato non prese parte al concerto d’addio della Allman Brothers Band nell’ottobre dello stesso anno. Insieme a suo figlio Duane, partecipò sabato 3 giugno 2017 a Macon al funerale di Gregg Allman alla Snow's Memorial Chapel, sepolto vicino al fratello maggiore Duane e al compagno di band Berry Oakley nello stesso cimitero di Rose Hill a Macon dove erano soliti scrivere canzoni tra le lapidi, non lontano da quella US Highway 41 cantata da Dickey in Ramblin' Man. L’ottantesimo compleanno di Richard Forrest Betts coincise con uno spettacolo alla Van Wezel Performing Arts Hall di Sarasota dove Dickey viveva con la quinta moglie Donna, ed in quella occasione Devon Allman, figlio di Gregg, e Duane Betts unirono le loro chitarre.  Dopo la morte del padre, Duane ha affermato. “Sono così grato di aver avuto un padre come lui, è sempre stato il mio eroe, il mio mentore e il mio chitarrista preferito al mondo. Voglio ringraziare tutti voi che avete inviato messaggi, pregato e trasmesso buona energia alla mia famiglia e a lui."

Per tutti noi che abbiamo amato le gesta della Allman Brothers Band, Dickey Betts rimane un faro acceso che non si spegnerà mai.

 

MAURO  ZAMBELLINI    MAGGIO 2024

 

 

 

 

 

martedì 19 marzo 2024

JJ GREY & MOFRO Olustee


 

Cambio di formazione rispetto all’album precedente Ol’ Glory di cinque anni fa, dei vecchi Mofro sono rimasti il bassista Todd Smallie e i due trombettisti Marcus Parsley e Dennis Marion, l’unico sassofono ed il flauto sono ora in mano a Kenny Hamilton, c’è una terza tromba, John Reid, il chitarrista è Pete Winders, il tastierista Eric Brigmond e la sezione ritmica è composta dal batterista Craig Barnett e dal percussionista Eric Mason. Un nutrito cast di voci, il fagotto, il fadolin (uno strumento a sei corde usato come un violino ma capace di creare anche i suoni di una viola ed un violoncello) ed un trombone completano la big band, a cui si aggiunge in un paio di brani l’Orchestra Sinfonica di Budapest.



Come si evince dallo schieramento in campo, l’album presenta una diversa complessità rispetto ai precedenti lavori e lo si nota subito con l’iniziale The Sea un’ode all’amato oceano, lenta e melodica dove l’orchestra ne sottolinea il clima di tranquillità, accompagnata dal pianoforte e dalla chitarra acustica. Il verso io appartengo al mare/casa dei liberi svela il profondo coinvolgimento dell’autore in simile contesto. Di tutt’altra pasta la seguente Top of the world, le coriste rispondono alla chiamata di JJ Grey mentre la sezione fiati imbandisce un banchetto di musica New Orleans. Se sei venuto per cambiare il mondo, lascia che ti mostri la porta-canta JJ Grey e il brano si trasforma in una musica festosa e contagiosa, prima che la seguente On a breeze rallenti il ritmo pur mantenendo  intatta la carica di speranza in oh my love, che tu possa vedere cieli sereni e tutto ciò che meriti. Con Olustee ritroviamo il JJ Grey del passato in una storia che evoca i tragici incendi che hanno devastato sette contee della Florida settentrionale nel giugno 1998 provocati dai fulmini sulle campagne aride. Il brano è forte e duro, il lungo devastante assolo di chitarra elettrica dà la sensazione del pericolo e del fuoco che incalza, una esortazione a correre più forte per scampare la morte. L’incendio costrinse a chiudere 135 miglia della highway 95 che collega Jacksonville e Titusville e sospendere l’annuale competizione del Daytona International Raceway. L’alternanza di R&B e ballate trova conferma in Seminole Wind, cover di John Anderson, un grido per la preservazione delle Everglades : il progresso è arrivato e ha voluto il suo prezzo, ed in nome del controllo delle inondazioni hanno fatto piani per prosciugare la terra, ora le radure si stanno inaridendo. Il soul-rock ecologico di JJ Grey prende la piega di una ballata con le trombe al centro della canzone ed un crescendo corale che racchiude tutto il dolore dell’uomo delle paludi nel veder compromessa la ricchezza del territorio dove lui, la sua famiglia, gli amici e la comunità sono vissuti in equilibrio con la natura. Il rhythm and blues di casa Stax si fa strada prorompente in Wonderland, coriste all’attacco e ritmo che incalza con tutta la sezione fiati alle spalle, mentre la seguente Starry Night come da copione allenta la tensione elettrica dando spazio agli arrangiamenti d’archi e all’abbraccio di un canto d’amore che si conclude con la sezione fiati in avanscoperta. Free High è energia allo stato puro, stacchi, urla, schiamazzi gioiosi, Sly and Family Stone sugli scudi ed un arrembante voglia di far casino con tutto quanto di meglio l’epoca d’oro del soul e R&B ha lasciato dietro di se. Ancora soul ma lento e appassionato in Waiting dove l’autore confida non sono mai stato ciò che potevo essere, e so che non è mai stata colpa di nessuno se non mia, mentre in Rooster canta la donna è l’anima di un uomo, riesce a tenere tutto insieme quando tu non puoi, lei è la fonte da cui sgorgo, mi insegna molte cose che non faccio, ma io sono un gallo e questo è un dato di fatto, quindi sai come mi comporterò. E non poteva che essere un funky sincopato e nerissimo, dal ritmo dance ad accompagnare tale affermazione di presunta virilità, per poi abbandonarsi alla circospetta riflessione di Deeper than relief, melodia fin troppo accorata e sinfonica con flauto e archi protagonisti, per i modi schietti di JJ Grey e la sua band. Suona come la chiusura del cerchio e si ricongiunge con la romantica, iniziale The Sea. Accantonati gli aspetti più strettamente blues della sua musica, con Olustee  JJ Grey & Mofro ci offrono una dimostrazione di quanto il rock o presunto tale sia ancora credibile quando parla di preoccupazioni e sensibilità, un anima inquieta in canzoni ricche di sentimento per la vita e l’ambiente con un sound che appartiene di diritto alla tradizione southern.

 

MAURO ZAMBELLINI      MARZO 2024

p.s articolo retrospettivo su JJ Grey& Mofro su Buscadero di aprile