lunedì 4 marzo 2024

THE BLACK CROWES HAPPINESS BASTARDS



Hanno riavvolto il nastro i Black Crowes e sono ritornati alla linea di partenza. Dopo anni ognuno per la sua strada, Chris e Rich Robinson dal 2019 hanno ricominciato a parlarsi e a fare musica insieme, prima sfruttando la ristampa del loro album d’esordio Shake Your Money Maker  per allestire un tour che li ha visti esibirsi in venti paesi per un totale di 150 show, a cui è seguito un disco live, e adesso mettendo in circolazione il decimo album della loro discografia, dopo quindici anni dal loro ultimo lavoro con brani originali. Happiness Bastards  lo spavaldo titolo con cui si ripresentano è un chiaro e rinfrescante ritorno ai suoni e al vigore degli esordi, un tuffo nel più quintessenziale schietto e viscerale rock n’roll tinteggiato con una buona dose di rhythm and blues. In un periodo in cui questa musica sembra messa alle strette dalle nuove ondate tecnologiche e pop, loro e gli Stones con le recenti registrazioni tengono in vita una idea antica ma ancora in grado di ossigenare sangue e menti di molti ascoltatori, ribellandosi ai destini segnati da trend più importanti per i meccanismi e i calcoli aziendali che per il benessere delle masse. Ammesso che queste siano disposte a lasciarsi contagiare da un classicismo che stando alle cifre di vendita di Hackney Diamonds  miete ancora proseliti. D’altra parte come diceva un rocker tutto di un pezzo, Tom Petty “c’erano ideali in quella musica degli anni cinquanta e sessanta e voglio vedere quegli ideali rimanere intatti”. Scarno, asciutto e diretto, Happiness Bastards  è la lettera d’amore dei Black Crowes al rock n’roll, un concentrato di ingredienti atti a svegliare gli animi intorpiditi di rockers pronti per un ultimo ballo. Inossidabili i Corvi Neri non paiono avere paura del tempo, fanno urlare le chitarre, soffiano il blues in un’armonica che non è un semplice strumento ma la reliquia lasciata dal Grande Fiume, scatenano un ritmo a palla dietro l’inconfondibile voce del leader, lo sciamano che implora una urgente sometimes salvation e ad ogni ascolto fa salire la febbre. E quando chiudono un album come Happiness Bastards  suonato senza mai toccare il freno, con una ballata del calibro di Kindred Friend  allora ti accorgi che il cuore ed il sentimento sono ancora lì, in chi non ha ancora svenduto il proprio guardaroba anni settanta, musica fatta di riff brucianti, organi di Chiesa, voci rapite dall’esaltazione del momento. Pazienza se non ci sono più le galoppate psichedeliche di Marc Ford e album visionari come Amorica  e Three Snakes and One Charm, anche le atmosfere bucoliche care a The Band di Before The Frost…Until The Freeze…..,  sono accantonate salvo qualche rara ballata, ciò che i Black Crowes offrono nel nuovo album è quel gagliardo, maleducato, sensuale approccio con cui negli anni novanta si fecero spazio nell’affollato panorama dominato dal grunge preferendo confondersi con le borchie del metal piuttosto che vestire le camicie di flanella. Happiness Bastards  è figlio di Shake Your Money Maker  ma di acqua ne è passata e ciò che è stato, comprese le avventure soliste dei due fratelli, fa parte della continuazione di una storia con tutto il bagaglio di esperienze vissute, il tentativo di rincorrere il tempo perduto. Parte con l’acceleratore a tavoletta Happiness Bastards  e se non fosse che le note del disco dicano di Jay Joyce come produttore, si penserebbe che dietro canzoni fulminanti come Bedside Manners e Rats and Clowns  ci sia la mano di Andrew Watt, l’uomo alla consolle negli ultimi lavori di Stones ed Iggy Pop. Siamo comunque sotto la Mason Dixon-Line, qui il sound è più sporco e meno metallico nonostante la sezione ritmica (Sven Pipien e Cully Symington) sia roba da fabbrica metallurgica ma non puoi togliere il Sud dai Black Crowes e allora quando è il turno di Cross Your Fingers il ritmo singhiozza, la batteria accentua la crudezza delle chitarre, Rich Robinson se la gioca e fratello Chris quando stacca lascia  al backing vocale e alle tastiere il pretesto per creare quell’orgiastico gospel di cui sono maestri . L’inizio rutilante di Wanting and Waiting non lascia dubbi, loro non sconfessano nulla, né il boogie né i tumulti famigliari e le gelosie, difatti sembra una nuova versione di uno dei loro primi cavalli di battaglia, Jealous Again. Chris è abile nel trascinarsi dietro sia i cori che l’Hammond ed il battere ottuso della batteria, le chitarre sono morsi velenosi, il sabba è di nuovo in scena. Me la vedo già in concerto, sarà impossibile stare seduti agli Arcimboldi. Pezzo da novanta. Con la cantante Lainey Wilson, una che si veste come loro pur bazzicando il country, i Corvi concedono la prima pausa in tanta euforia, Wilted Rose si apre con le chitarre acustiche, Chris sembra immerso in una sorta di preghiera, ma ad un certo punto tutto sembra andare a carte e 48 in un terremoto elettrico che sconvolge quella che avrebbe dovuto essere una pacifica ballata. E’ caos ma poi la Wilson riconduce il brano sulla via di una ballata gotico-sudista. Viene lasciato all’Hammond il compito di riaprire le danze, Dirty Cold Sun puzza di Stones in un ambiente dove il fumo ed il bourbon sono i propellenti di un rock che non ne vuole sapere di diventare saggio e se i loro miti nel 1969 cantavano Let It Bleed , adesso loro rispondono con Bleed It Dry pur con gli stessi umori, ovvero l’armonica, la slide e la voce febbricitante di Chris ad inscenare un blues da strada sterrata.  Forse la concessione al mainstream arriva con Flesh Wound, col suo drumming da marcia militare ed il coro trionfale ma le chitarre in apertura di Follow That Moon citano i Led Zeppelin prima che diventi un rhythm and blues killer che scuote corpo e anima. Il trance di Chris nel cantarla suona come la felicità ritrovata nel sentirsi di nuovo unito a fratello Rich e allo storico bassista Sven Pipien, salvo smentite sempre in agguato quando si tratta di una brothers band. Ma la sontuosa ed emozionante ballata Kindred Friend non può essere una illusione, quel romanticismo polveroso dell’ amico affine è la speranza che il nuovo corso non si esaurisca troppo in fretta. Alzate il volume, i Corvi Neri stanno ancora cavalcando nelle praterie del rock n’roll.

 

MAURO  ZAMBELLINI       

 

giovedì 28 dicembre 2023

MY BEST OF 2023

 

Niente ristampe, edizioni deluxe, vecchi concerti ritrovati, solo dischi dell’anno. Questa è la sporca dozzina, un disco  al mese.



LUCINDA WILLIAMS  Stories from a rock n’roll heart

Il disco più nerazzurro dell’anno, lo dice la copertina, anche il più rock n’roll



IAN HUNTER     Defiance part 1

Il disco brit-rock dell’anno. Non fatevi ingannare dalla carta d’identità, qui c’è una vitalità che è rimasta ai tempi dei Mott The Hoople. Forever young.



JOHN MELLENCAMP   Orpheus Descending

Un disco  che unisce la grande canzone d’autore americana con la protesta socio-politica e la malinconia del tempo che passa. Caldo, arguto,confortante



THE ROLLING STONES    Hackney Diamonds

Una delle poche certezze rimaste da un secolo a questa parte



ANGELO leadbelly ROSSI   It don’t always matter how good you play

Come aprire un juke joint dalle parti di Gallarate e far divertire ogni sera con un show diverso. Blues a geometria variabile ed un tocco psycho



THE FUZZMEN     The Fuzzmen

Italian third mind. Shakerare garage, Traffic, jazz, Curtis Mayfield, southern e psychedelia. Servire a temperatura ambiente.



ROSE CITY BAND  Garden Party

Bucolici e psichedelici, rilassanti e gradevolmente erbivori. Nel senso della panama red.



DUANE BETTS   Wild & Precious Life

Paesaggio pastorale, chitarre in libera uscita, ballate al profumo delle magnolie, un pianoforte che svolazza e quella vecchia fascinosa aria del Sud. Come ringiovanire di 30 anni padre Dickie.



LANKUM    False Lankum

Tradizionali e solenni, cupi e dronati, celtici e psichedelici. Folk irlandese d’avanguardia. Mettersi il maglione di lana.



VAN MORRISON   Movin’ on Skiffle

Irriducibile. Le tradizioni “povere” della musica Americana trattate con un irish beat, una voce che è uno strumento e pinte di swing.



CHRIS   STAPLETON     Higher

Come unire il country di Nashville meno  edulcorato  con il soul di casa Muscle Shoals, il tutto dietro ad una voce forte ed autorevole



ROBERT FINLEY    Black bayou

I misteri, l’oscurità ed il blues del bayou, come nei racconti di James Lee Burke. Louisiana mon amour.

 


 

giovedì 23 novembre 2023

GOV'T MULE Teatro Dal Verme MILANO 20/11/23


 

 

Esiste la serata perfetta nel rock ? Si quando in città, nella fattispecie Milano, arrivano i Gov’t Mule e suonano in un teatro comodo, dall’acustica ottimale, davanti ad un pubblico caldo e competente che ricambia la bellezza che arriva dal palco con applausi e partecipazione sentita, così da instaurare quella sinergia tra artisti e pubblico che gli Allman chiamavano hittin’ the note. Avrò visto 8/9 concerti dei Muli ma questo del 20 novembre a Milano rimarrà impresso indelebile nella mia memoria, una band mostruosa costituita da quattro eccezionali solisti  che si fondono nella chimica di un insieme che non ha eguali oggi, per tecnica, amalgama e inventiva, regalando musica sublime anche quando, come nella prima parte dello show, può apparire dura, contorta, difficile ma sempre legata ad una idea di sperimentazione che si traduce al momento, mentre suonano  col sorriso sulle labbra, in assoli, rallentamenti, stacchi e ripartenze, parti cantate e torrenziali flussi sonori che portano l’ascoltatore in un paradiso del vero sentire dove si pensava fosse ormai già esaurito il numero dei concerti memorabili. 


Il dimagrito Warren Haynes, sempre modesto e affabile, è il condottiero di questa pattuglia che definire rock è limitativo perché nel loro concerto c’è di tutto ma solo esclusivamente musica, a parte il suggestivo gioco di luci di vago sapore psichedelico che illumina il palco. Solo musica perciò, che sa essere rock, blues, jazz, free, psichedelia, reggae, hard, fusi in composizioni che lasciano comunque trasparire il senso della canzone, anche quando questa si traduce in una jam che si vorrebbe non finisse mai. Haynes suona le chitarre con delicatezza come se le stesse accarezzando ma ne trae un fiume in piena, le conosce come se fossero suoi figli, non hanno segreti per lui, e canta con quella voce fatta apposta per strappare commozione nelle ballate blues, salvo urlare ogni tanto quando il tema diventa duro e rabbioso. Ma non è mai una rabbia iconoclasta, piuttosto una reazione a qualcosa di irragionevole ed ingiusto come nelle tematiche del blues, è statico in scena ma è la musica creata che vola, si innalza, attorciglia le emozioni, ti porta dove sogneresti essere. Di fianco a lui Danny Louis 


è la ragnatela sonora che collega il solismo di Haynes con lo stantuffo ritmico, avvolgendo il tutto. I suoi tocchi sono nobili ed estasianti, è solenne e drammatico, è lieve e fluido, sia quando è frontale verso la platea col suo Hammond o voltato di fianco sul piano elettrico. Berretto di lana, occhiali, sobrio nel look ma straripante con le dita è l’alchimista dei Muli, il lato melodico dell’ensemble, il contraltare del sempre più contratto (nelle pose) e magro Matt Abts  il treno su cui viaggia la musica dei Gov’t Mule.


 La quintessenza del batterista, picchia quando è il momento e poi diventa così soffice e delicato da sembrare che non abbia in mano nemmeno le bacchette quando Haynes smorza il pezzo, lo addormenta dolcemente in un affascinantissimo mood jazzy, dove sono solo i sussurri e i celestiali tocchi a tenere ancora in vita la canzone. Per poi riesplodere in un magma sonoro dove la Les Paul del leader  ricorda, a seconda dell’istante, B.B King o Santana, Duane o Elmore James (quando va di slide). 


Kevin Scott è il nuovo bassista, vecchia scuola non possiede il funambolismo del  dimissionario Jorgen Carlsson ma non sbaglia un tempo, è tosto ed il timing con cui risponde ad Abts è dimostrazione di dinamiche assolute. Alto, robusto, barbuto pare uno dei Metallica ma si è inserito perfettamente nel gruppo e quando fa il suo assolo gli altri lo assecondano come si deve, in un pulsante ed ipnotico drive. 


Energici, potenti e duttili i Muli affrontano la prima parte dello show con più durezza ma offrendo lampi di assoluto trance come Thorazine Shuffle  e diversi ripescaggi dal lontano passato. Riemergono Temporary Saint, Bad Little Doggie con cui si è aperto il concerto, l’omaggio a Monk di Thelonius Beck, la splendida sincopata Broke Down The Brazos e poi due titoli che giustificano il fatto che il tour è all’insegna della recente pubblicazione. Da Peace…..Like a River  arrivano difatti Peace I Need,  una chicca con quel carico di blues da pelle d’oca, e After The Storm, nella seconda parte ci sarà tempo anche per Shake Our Way Out. Chiude il set I Asked Her For Water e potrebbe essere già sufficiente se non fosse che dopo venti minuti di break, ciò che si ascolterà nell’altra ora e trentacinque minuti di concerto (durata totale 2 ore e quaranta) sfiora il soprannaturale. Haynes menziona Heavy Load Blues  e il blues sale in cattedra. Dopo la mirabolante Endless Parade e la reggatissima Unring The Bell,  chiama sul palco l’armonicista Fabio Treves e con lui eseguono Good Morning Little Schoolgirl  frazionata in un ritmo molto diverso dall’originale classica, quasi singhiozzante. Poi i Muli si scatenano nella lunga Sco-Mule  che tra rallenty, ripartenze, impennate e scorribande strumentali con un il drive bestiale di Matt Abts (sia Santo subito), Carlos Santana dell’età dell’oro sembra lì sul palco. Il momento più romantico dello show è affidato al colpo al cuore di Beautifully Broken e allora il Teatro Dal Verme ha ormai cambiato galassia e per chi è in sala non resta che abbandonarsi al piacere sensoriale di una musica totale. Potrebbero fare tre concerti in un giorno con scalette tutte diverse tanto è immenso il loro repertorio e la loro versatilità, scelgono Shake Our Way un funky nero come la pece e la lunga Feel Like B.U.S.H,  un blues urbano ad alto numero di ottani per chiudere lo show. L’encore non si fa attendere,  Haynes canta solo a-cappella e commuove con Grinnin’ in Your Face  di Son House, poi richiama Treves in Long Distance Call di Muddy Waters, l’amore di entrambi, e trascina Muli e pubblico adorante in Soulshine, finale previsto di un concerto straordinario. Eleganza e sensibilità,  Soulshine  non è solo la canzone più nota dei Gov’t Mule ma è anche il filo che riconduce agli Allman (uscì nell’album Where It All Begins ), la band che ha dato i natali a tutta questa fantastica storia musicale che dura tutt’ora.

 

MAURO ZAMBELLINI 

Le foto sono dell’amico Zanza

 

giovedì 19 ottobre 2023

THE ROLLING STONES Hackney Diamonds


Diciotto anni di attesa sono tanti, nonostante la parentesi cover blues di Blue and Lonesome, ma ne valeva la pena perché Hackney Diamonds è un album sorprendentemente fresco e al passo coi tempi. I Rolling Stones dimostrano la loro longevità artistica con un album forte, brillante, energico, evocativo dove sono presenti gli elementi caratteristici del loro stile ma spostati in avanti in virtù di una produzione, il newyorchese Andrew Watt (Elton John, Iggy Pop) che ha saputo conferire al loro sound quella lucidità e modernità necessarie per non scivolare in un prodotto di nostalgia o una ripetizione di uno standard. Registrato in diversi studi sparsi per il mondo, da Los Angeles a New York, da Londra a Nassau, ed intitolato come lo storico Hackney Empire, epicentro dell’arte pionieristica nell’East London da almeno 125 anni, e suonato dai tre rimasti del gruppo più una pletora di collaboratori tra cui Benmont Tench, Paul McCartney, Elton John, Matt Clifford, con la presenza di Steve Jordan alla batteria (ma in un paio di brani c’è ancora Charlie Watts ed in uno Bill Wyman), Hackney Diamonds è una dimostrazione di vitalità senza eguali, la testimonianza di una band rimasta ancorata a quel flusso di rock n’roll e blues che ha forgiato la loro essenza artistica e la loro passione, nonché la loro carriera. Si rimane sbalorditi davanti a dei musicisti instancabili che pur conoscendo così tanti saliscendi, baciati dal successo ma anche avversati da lutti e capitomboli, riescono ad essere ancora oggi portavoce di un rock n’roll che nonostante il fiorire di tanti altri idiomi musicali, rimane una plausibile fonte di piacere, eccitazione e consolazione. Mick Jagger, Keith Richards e Ron Wood e con loro tutti quelli che si sono portati appresso in questa cavalcata selvaggia, hanno realizzato un lavoro che appaga i desideri di qualsiasi fan, dove ballate romantiche e polverose convivono con micidiali e feroci pugnalate rock, canti gospel inneggianti a quegli anni settanta di cui loro furono angeli e diavoli si intrecciano con sensuali e maliziosi funk di scuola soul, vecchi blues acustici dell’età della pietra si accompagnano a smargiassi pop-rock adatti a riempire di eros, macchine e cuoio nero un video con cui far ballare il mondo intero (se questo pensasse di più a divertirsi che a creare guerre). Insomma Hackney Diamonds è un disco che ha lasciato di stucco anche un vecchio fan come me e questo non è lavoro per cui bisogna dire l’età degli autori per esaltarlo o semplicemente giustificarlo, questo è un ottimo disco di rock, senza tempo e senza ma. Parte con Angry, il singolo pubblicato il cui video diretto da Francois Rousselet riassume la risaputa iconografia glamour del gruppo tra scenari urbani, auto sportive, belle ragazze e cartellonistica amarcord, ma subito dopo si entra in pista con le scalpitanti note di Get Close in cui appare chiaro come  la voce di Jagger sia ancora giovane e squillante e come il drumming di Steve Jordan sia ben diverso da quello di Charlie Watts, più tosto e meno swingante e quindi più in linea con la moderna produzione di Watt. Detto questo, chi scrive non dimentica che la peculiarità ritmica degli Stones sia stato lo swing del maestro Watts. Matt Clifford e Elton John lavorano con le tastiere, il produttore Andrew Watt si occupa del basso, in altri pezzi ci penserà Keith Richards, le chitarre graffiano. A metà irrompono il sassofono di James King e Ron Blake e allora è facile ricordare quello che facevano Bobby Keys e Jim Price quando c’era bisogno di sporcare il rock con il rhythm and blues del Sud. Arriva Depending On You e le acque si calmano, una superba ballata con tanto di arrangiamento d’archi (dovrebbero prendere nota quelli invaghiti dalla pompa magna delle stelle dell’Ovest ) evoca l’antica bellezza di Waiting For A Friend, un’ aria di romantico e corale country&western infonde un sapore epico. Al pianoforte c’è Andrew Watt, l’organo è di Benmont Tench, Jagger è un mattatore, il crescendo mette al tappeto anche i più duri del reame, traspare commozione. Niente lacrime di circostanza, gli Stones innestano la marcia e con due brani estraggono l’armamentario da battaglia. Bite My Head Off è di una violenza inaudita, chitarre a palla, suono compatto, furia punk, giro ossessivo, muscoli ed urla. La cosa che lascia di stucco è il basso nelle mani Paul McCartney, ovvero come schiaffeggiare una carriera con tre minuti e mezzo di hard-rock. Non da meno è Whole Wide World, una sorta di rockabilly metallizzato alleggerito da un refrain cantabile e indurito dal secco e arrembante assolo di chitarra di scuola British. Andando di questo passo ai tre verrebbe un infarto e allora in  Dreamy Skies la slide di Ron Wood ricama uno sfilacciato country della serie Faraway Eyes. Jagger parlotta citando Hank Williams e l’honky tonk, le chitarre acustiche ci mettono una elegia western e la sezione ritmica lavora in punta di piedi. Al contrario in Mess It Up gli Stones si ricordano di aver fatto ballare tutte le discoteche del pianeta con Miss You, Charlie Watts swinga ed il brano si traduce in un funk-dance piuttosto furbetto, col falsetto di Jagger che rimanda alle leggerezze pop di Emotional Rescue. Niente di grave, Elton John, Bill Wyman e Charlie Watts rimettono le cose in carreggiata, Live By The Sword è tagliente come una lama, suona come una registrazione live, inizia con una nota rubata a Spoonful e poi diventa un duro pop-rock venato di blues per cui gli Artic Monkeys farebbero carte false per averlo. Chitarre strapazzate e martellate da parte di Jordan, delirio e caos. Come da copione il ritmo rallenta, Driving Me Too Hard è un'altra ballata polverosa e stradaiola, da gustarsi in autostrada. Jagger è superlativo e sa che di lì a poco entrerà in scena Keith Richards per una di quelle sue ballate dondolanti di soul esangue ed intimo ma emozionante da morire. Keef non si smentisce e lascia il segno nella lenta Tell Me Straight. Siamo alla traccia numero undici ed è il momento di alzarsi in piedi per un applauso fragoroso. Nei sette e passa minuti di Sweet Sound of Heaven, un canto celestiale di spiritualità biblica, convergono il soul, il gospel delle chiese battiste del Sud, riverberi old shool, You Got The Blues e You Can’t Always Get What You Want, Gimme Shelter ed una magnifica Lady Gaga che qui fa la Merry Clayton della situazione dialogando con l’inarrivabile Mick Jagger in una ascesa vocale che porta direttamente in Paradiso. Al pianoforte c’è Stevie Wonder, il finale e la coda sono brividi caldi di estasi e piacere, pura  leggenda, tra le cose migliori dei Rolling Stones dal 1972 ad oggi.

Dove è nata tutta la storia, si chiude. In due minuti e 45 secondi Jagger e Richards, nudi e soli, voce, chitarra e armonica, rileggono la genesi del loro viaggio nella musica con una scarna , primitiva e spartana Rolling Stone Blues dove il blues di Muddy Waters incontra quello di Skip James. Eleganza, amore e riconoscimento verso i padri fondatori di tutto quello che è venuto dopo, i Rolling Stones rimangono la più grande rock and roll band del pianeta, vecchi e solo in tre in un mondo che ha perso la ragione.

 

MAURO  ZAMBELLINI    OTTOBRE 2023 

giovedì 21 settembre 2023

DUANE BETTS Wild & Precious Life

Tale padre, tale figlio. Richard “Dickie” Betts ha passato la sua arte musicale al figlio Duane ed il risultato è qui da sentire, Wild & Precious  è un ottimo disco che rinfresca come meglio non  poteva l’immortale e amato sound della Allman Brothers Band, catapultandolo ai giorni nostri senza troppe rughe e nostalgia. Il merito è tutto di Duane Betts anche se va riconosciuto al padre di essere stato un maestro perfetto perché come canta e suona la chitarra il figlio è frutto di una educazione tecnica e sentimentale che non lascia dubbi in merito. Wild & Precious Life è il primo disco completo di Duane Betts, dopo essere stato nella band di suo padre, The Great Southern. Nel 2018 aveva pubblicato un interessante Ep a suo nome, Sketches of American Music  per poi dare vita col figlio di Gregg Allman, Devon e con Berry Oakley Jr., figlio del bassista della ABB, alla Allman Betts Band. Due album a loro nome, tre chitarre soliste in azione, compresa quella di Johnny Stachela e due cantanti dalle voci molto diverse, lui e Devon. Adesso il salto solista, e che salto. Accompagnato al basso da Berry Oakley Jr., da Johnny Stachela, dal batterista Tyler Greenwell e dalle tastiere di John Ginty, co-produttore dell’album, Duane Betts inforca la chitarra e canta dieci canzoni scritte di proprio pugno, inconfondibilmente allmaniane nello stile ma arricchite da una personalità che, pur risentendo di tale background, infonde emozioni che i due album della Allman Betts Band non trasmettevano. Merito suo come compositore e del superbo team di musicisti coinvolti, dove non mancano invitati speciali come Derek Trucks, Marcus King e Nicki Bluhm. Certo ci sono momenti che rievocano il passato, in Waiting on a Song è facile ritrovare Blue Sky  con quell’assolo che produce arpeggi squillanti e armoniche sequenze che erano pane per Dickey Betts, e la strumentale Under The Bali Moon ricorda l’architettura sonora di Elizabeth Reed , una jam di jazz e rock che si sviluppa su un pianoforte tintinnante a supporto delle chitarre, ma Duane Betts sa prendere quei momenti nella sua direzione e li usa in modo singolare. Con estrema fluidità va su e giù sul manico della chitarra, fornendo paesaggi sonori lussureggianti di un southern rock non ancora in archivio e regala canzoni di perdita e di amore, di lotta e gioia, con correnti di note, frasi su frasi, ponti strumentali dove il leader e Johnny Stachela dialogano da grandi performer e il puntiglioso lavoro al pianoforte e all’Hammond di John Ginty, un gigante, ricama il tutto. L’iniziale Evergreen è un biglietto da visita coi fiocchi, l’arpeggio delle chitarre acustiche, il piano e l’Hammond come detonatori della forza propulsiva della sezione ritmica e delle chitarre prima che la tromba di John Reid metta disordine al brano con un finale jazzy. Forrest Lane è bucolico country-rock di forme dolci e ondulate, ricorda quanto fece il padre Dickey nel primo album dei Great Southern, anche qui l’Hammond è determinante nell’economia sonora del brano, quasi sulla stessa lunghezza d’onda Colors Fade emana una rilassatezza country-blues con la voce di Niki Bluhm e note accarezzate da chitarre da sogno. Nei sette minuti di Saints to Sinners,  Betts e Stachela si dividono i compiti in una jam che ripristina la dualità chitarristica della Allman Brothers Band, quando entra in scena Derek Trucks in Stare at The Sun  i suoi brucianti e convulsi fraseggi marchiano un brano dalla forte impronta blues. E’ invece Marcus King l’invitato in Cold Dark World, lui e Betts, con la complicità di Stachela, si rincorrono a suon di roventi riff sullo sfondo del lamentoso Hammond di Ginty mentre basso e batteria incalzano con un dinamismo da combo jazz . Circles in The Stars chiude le danze, una romantica ballata dove regnano il pianoforte, la lap steel e la melodiosa voce di Duane Betts.

Registrato allo Swamp Raga Studio di Derek Trucks e Susan Tedeschi a Jacksonville, Wild & Precious Life  finalmente ridà voce con dignità a quello che una volta chiamavamo southern rock, una brillantezza e freschezza anni luce distante dalla retorica caricaturale di tante band del settore. Blues, country, rock e swing cucinati con spezie regionali e tocco da grande chef.

 

MAURO ZAMBELLINI     SETTEMBRE  2023

 

 

sabato 26 agosto 2023

WILCO Todays Festival TORINO 25/08/23


 

Non pensavo di emozionarmi ancora così tanto ad un concerto rock visto l’età e la mole di eventi simili alle mie spalle, ma è successo e quando le luci sul palco si sono spente a mezzanotte di un caldissimo 25 agosto torinese, da una parte ero amareggiato perché avrei voluto partecipare a quella festa dello spirito e dei sensi per un’altra ora, e da una parte viaggiavo alto su una nuvola di benessere per aver assistito ad uno show che mi ha riconciliato coi valori più veri del rock n’roll. Attorniato da un pubblico finalmente molto più giovane di me, salvo una buona dose di eccezioni, che cantava a memoria e ballava di felicità sulle note della più straordinaria rock band degli ultimi venticinque anni, sebbene il sottoscritto ami anche con ardore i Drive By Truckers pur con le dovute differenze. Bello il pubblico, bella l’atmosfera ruvida e non celebrativa del Todays Festival, salvo le consuete interminabili file per un panino (ci ha salvato un chiosco di kebab proprio prima di imboccare l’autostrada al ritorno, frequentato da un campionario umano che se ci fosse stato lì Tom Waits avrebbe fatto minimo un doppio album), niente pit e tokens e finalmente di livello internazionale il sistema audio, suono pulito e volumi giusti anche quando le frizioni rock imponevano watt a valanga. L’ultima volta che avevo visto Wilco era il settembre del 2019 al Fabrique di Milano e pur essendo stato un buon concerto avevo pensato che il meglio di loro, sia su disco che su palco, fosse passato, avvertii una flessione nell’ entusiasmo, un ripetersi senza troppa energia, rispetto a quanto vidi negli anni precedenti. Quello era il mio quinto concerto e con dispiacere mi sorse il dubbio che la strada verso una dignitosa standardizzazione fosse stata imboccata. Sbagliavo e proprio in quello sta la forza di una band capace di scatenare le emozioni, quella di smentirti, di sorprenderti, di spiazzarti, inebriandoti ancora con la propria musica, che nel caso di Wilco non è cambiata, caso mai si è arricchita di altre sfaccettature. La pausa per la pandemia, i lavori solisti del leader Jeff Tweedy ed un disco ispirato come il recente Cruel Country hanno ridato fiato e impeto alla band tradotte in una performance, quella del Todays Festival (ma non è stata da meno quello della sera precedente a San Mauro Pascoli) che ha raggiunto le vette di quella magistrale esibizione del luglio 2007  nello stesso luogo, quando ad un certo punto dell’esecuzione di Spiders (Kidsmoke) la corrente saltò e Jeff Tweedy trascinò il pubblico a seguirlo nel cantare all’unisono il refrain della canzone per quasi dieci minuti. Una dimostrazione di sinergia tra artista e pubblico rara da trovare nelle arene del rock, ebbene Tweedy ricordandosi di quel magico momento ha iniziato lo show torinese con la stessa canzone stoppando la band ad un certo punto e riprendendo di nuovo a cantare assieme al pubblico il ritornello, come se la storia si fosse fermata a quindici anni fa e noi e loro fossimo ancora lì a gustarci quella magia. E di fatto eravamo ancora lì, magari aumentati di numero a rispettare una band ed una musica come non ce ne sono altre, capace di infonderti una felicità che almeno nel mio caso avevo dimenticato in un concerto. Tweedy ha dimostrato di avere con Torino un rapporto particolarmente intimo, per tutto il concerto ha sorriso, così come i suoi compagni di ventura, divertiti di trovarsi davanti ad una platea che non ha lesinato applausi e gesti di riconoscenza e amore. Non poteva iniziare meglio lo show che si è poi rivelato di una forza, potenza e lucidità straordinarie con oasi bucoliche di ballate dal profumo californiano e momenti di assoluta controllata baraonda rumorista, dove Nels Cline faceva urlare le sue chitarre in territori limitrofi al free jazz indirizzandosi su ardite scale elicoidali, e Pat Sansone, abbandonate per un attimo le tastiere, gli rispondeva con una veemenza chitarristica che lasciava di stucco per come fondeva Television e Johnny Thunders, sferzante rock anni 70 e punk, Crazy Horse e artiglieria tedesca. In mezzo, ingrassato, paffuto e stranamente solare Jeff Tweedy teneva il timone con le sue chitarre acustiche, quelle canzoni che sembrano frutto di un improvvisato colpo di genio ed invece posseggono una ricchezza che sintetizza metà della storia della musica rock e quella voce tra il trasognato, il romantico e il malinconico, a tratti sorniona a volte liberata in urla di rabbiosa gioia. Di fianco a lui un bassista poco menzionato, ma assistere a come pompava nell’iniziale Spiders per rendersi conto che John Stirratt è uno degli elementi cardini del sound della band e assieme al vulcanico picchiatore Glenn Kotche, uno dei migliori batteristi in circolazione, costituisce una sezione ritmica capace di fare la differenza, e come per gli Heartbreakers di Tom Petty, distingue una rock band da una grande rock n’roll band quali sono oggi Wilco. Potrà sembrare superfluo ma anche l’uomo nell’ombra, il pianista e tastierista Mikael Jorgensen, è basilare nell’economia del gruppo, e lo si sente quando accompagna con note basse le ascese verticali di Cline, che detto tra noi è colui che ad un certo punto ha cambiato l’impatto live della band dandogli una connotazione meno classica, più sghemba, improvvisata, aperta a schegge impazzite anche quando la canzone pare iniziare come una innocua ballad country&western rubata a Gram Parsons. Se qualcuno si aspettava che Cruel Country potesse limitare l’impatto sonoro del set di Wilco con una dimensione più dimessa e minimale, è stato smentito perché molte sono le ballate che la band mette in campo creando suggestioni pastorali e sognanti orizzonti folkie, e da quell’album sono arrivate la canzone titolo, I Am My Mother e Falling Apart (Right Now), ma le versioni che ne danno è fuori da qualsiasi copia e incolla ed è bastato ascoltarsi come hanno trattato Bird Without A Tail/Base of My Skull con Cline e Sansone scatenati con le chitarre per capire la qualità rivoluzionaria del loro gesto, in molti momenti pronto a tradursi in jam che lasciano increduli e senza fiato. Ma Wilco sono stati forgiati da un passato di dischi preziosi e fondamentali, fa ancora piacere vedere un album come Being There che contrassegnò il distacco definitivo dall’eredità di Uncle Tupelo mandare in visibilio il pubblico con Misunderstood  e I Got You at The End of The Century, che ogni volta mi dà per un attimo l’impressione di essere una cover dei Big Star, e Outtasite(Outta Mind) con cui si è chiuso il concerto. Da A Ghost Is Born sono state estratte oltre al brano di apertura, Hummingbird, una sorta di scanzonato cabaret alla Kinks e la magnifica The Late Greats che assieme a Jesus, Etc. racchiude l’irresistibile sapienza melodica della scrittura di Tweedy. Impossible Germany iniziata in sordina ma poi scarabocchiata con cruente senso free dall’assolo di Cline ha mandato in visibilio l’intero festival ed un altro applauso fragoroso ha accompagnato I Am Trying To Break Your Heart dove si consuma il delirio sonico della loro musica tra margini angelici e celestiali del cantato di Tweedy e lo sprofondamento nella infernale tempesta elettrica creata dal resto della ciurma, un sabba che evoca il kraut rock. A Shot In The Arm, unico estratto da Summerteeth ha il potere, ed è una delle loro caratteristiche, di creare una eccitante e sospesa aspettativa prima della deflagrazione finale, con le voci che man mano lasciano il posto al forsennato accavallamento degli strumenti con Kotche che picchia come un ossesso e Sansone e Cline che se la sparano a mille in una battle of guitars che non fa prigionieri. Rimangono sul campo altri titoli tra cui Random Name Generator presa da Star Wars e Downed On Me da The Whole Love ma ormai il Todays Festival è ai loro piedi e Jeff Tweedy e compagni rispondono con l’assoluta semplicità delle anti-star, nessuna enfasi celebrativa, solo il grande potere di un rock n’roll che ha assorbito il passato, le giungle urbane, i colori tranquillizzanti delle campagne lungo le highways, l’amarezza del presente e uno sguardo amorevole verso il futuro. Wilco rimangono qui a farci credere che il rock n’roll sia ancora un grande sogno.

MAURO ZAMBELLINI   AGOSTO 2023

La foto è dell'amico Paolo Baiotti