martedì 1 luglio 2025

Bruce Springsteen & The E Street Band San Siro, Milano 30 giugno 2025


Il più grande spettacolo del mondo, l’equivalente dell’insieme tra una manifestazione di giubilo di un popolo che ha riconquistato la democrazia ed una messa gospel la domenica mattina ad Harlem. Certo, c’è anche lo spettacolo nazional popolare di Bruce che scende dal palco e cammina come un Papa lungo la transenna del pit mettendosi a disposizione fisica di quanti hanno sudato e lottato per quel posto, toccando la testa e le mani di ragazze( tantissime), ragazzi e bambini e facendosi abbracciare, succede in Hungry Heart e in Thunder Road quest’ultima ormai priva del suo originale significato stradaiolo, ma ho sentito più parole nette contro Trump e l’autoritarismo dell’attuale governo americano dal Boss che da tutti i politici mondiali messi assieme. Sarà che San Siro è San siro ma Springsteen coadiuvato da una oliatissima E-Street Band ha riversato in gilè, camicia bianca, cravatta e jeans una intensità quasi inaspettata, una intensità che grondava rabbia, gioia, resistenza, fede e speranza. Tutto ciò all’insegna di un rock n’roll che per come è messa in campo oggi la band, oltre alle doppie tastiere di Bittan e Charlie Giordano, al drumming tuonante di Max Weinberg, al preciso stantuffo del basso di Garry Tallent e alle complementari chitarre di Nils Lofgren e Little Steven per via della copiosa sezione fiati e della nutrita compagine delle coriste (compresa la violinista Soozie Tyrell) si è trasformato nella pienezza di una big band che mentre l’enfasi sale suona un gospel a cui tutti si vorrebbero abbeverare per bearsi di un universale inno alla gioia. Sono stati, a mio parere, gli highlights dello show milanese: Long Walk Home e My City of Ruins soprattutto ma anche The Rising e Wrecking Ball, quest’ultima un vero pugno allo stomaco contro le ingiustizie del mondo, la stessa Land of Hope and Dreams con cui Bruce ha dato il via al suo comizio e il cui testo in italiano scorreva sulle immagini dei tre imponenti schermi attorno al palco. 


Bruce rimane di una generosità fuori del normale, tre ore di concerto, la voce che qualche volta stenta, ma con quel caldo umido e soffocante un altro della sua età sarebbe stramazzato al suolo, succede all’inizio di Atlantic City e Born To Run, ma porca miseria non potrebbe lasciare spazio tra una potentissima e violenta Born In The Usa urlata a squarciagola e il nato per correre messo a mò di medley, per tirare un po’ il fiato? No, niente affatto, il suo antico retaggio di lavoratore dello spettacolo che dà tutto al suo pubblico non lo permette e allora l’encore, in realtà altri 50 minuti di concerto, vedono arrivare una dietro l’altra Bobby Jean (in quei quattro minuti mi è passata davanti tutta la mia vita), la sbarazzina Dancing in The Dark, il soul-blues virato doo-wop di Tenth Avenue Freeze Out, la festa totale in una San Siro impazzita di Twist and Shout e la conclusiva Chimes of Freedom di Dylan che magari le ultime generazioni del suo pubblico (ormai maggioritarie) non conoscono ma che la E-Street Band trasforma in un altro di quegli inni gospel che sono oggi il cuore della loro musica, chiusa dall’inchino di tutti i musicisti e dalle note di This Land of Your Land con cui gli altoparlanti annunciavano che il più grande spettacolo del mondo era terminato. Per i veterani come me mancano nella scaletta i titoli di coloro che fuggivano nelle strade secondarie in cerca di una vita o di un amore diverso ma il Bruce di oggi si è spostato al centro senza perdere il contatto con la realtà, e se iniziare con No Surrender e My Love Will Not Let You Down significa ricordare da dove si proviene e quale storia c’è alle spalle, Rainmaker ,anche questa accompagnata dal testo tradotto, è di una durezza contro il potere da far accapponare la pelle pur con la metafora delle illusioni del fabbricatore di pioggia, e Youngstown con il magistrale assolo di chitarra di Lofgren è quello che Landini dovrebbe dire ai governanti sulle bugie del piano industriale. Sono tra i momenti più rock della serata, prima di una Murder Incorporated che non è mai stata una meraviglia di canzone ma è qui apposta a ricordare che il rock n’roll è soprattutto una faccenda di chitarre elettriche e Little Steven pur convalescente ci ha messo del suo. Prima di queste Death of My Hometown ricordava che questa musica è anche frutto di immigrati, di radici celtiche, fi violini e fisarmoniche, di folk inurbato in speranze e precarietà metropolitane. 


Immaginatevi poi in uno stadio strapieno, sudato, entusiasta e gioioso cosa può succedere quando viene intonata I’m On Fire e si fa largo l’elettricità urgente di Because of The Night, per chi scrive The River è un’altra cosa rispetto alle tante sentite nel passato ma l’abbraccio del pubblico, uno spettacolo nello spettacolo, è tale che la canti ugualmente come fosse la prima volta e House of Thousand Guitars sia l’unico episodio veramente acustico di tutto il set, il respiro solitario di un autore che rimane nel mondo dello spettacolo una voce credibile, autorevole e coraggiosa. E ti fa divertire come pochi al mondo.


MAURO ZAMBELLINI   1 LUGLIO 2025

p.s  grande efficienza nell’organizzare un concerto che ha portato allo stadio 60 mila persone, non si capisce però perché il Comune di Milano nei mesi in cui questi eventi si succedano chiuda per lavori la principale via di accesso al mega parking di Lampugnano che coinvolge tutto il traffico che viene dal Nord e da Est, lasciando libera una sola entrata con un solo casello, causando così file interminabili. 

venerdì 20 giugno 2025

BRUCE SPRINGSTEEN LOST AND FOUND 1983-2018



 



 

Esattamente quaranta anni fa, nel giorno del solstizio d’estate, il 21 giugno 1985 sbarcava per la prima volta in Italia Bruce Springsteen con la sua E-Street Band, fu un concerto leggendario che diede il via ad un culto che si è protratto nelle decadi successive assumendo in qualche caso contorni se non di fanatismo almeno di fede. Di anni, di storia, di musica e concerti ne sono passati da quel giorno, oggi Springsteen è una star che non ha paura di dire ciò che pensa ma che, comprensibilmente, per via dell’età ha perso quell’aura eroica che aveva a quel tempo. Poco male, saperlo ancora sui palchi di mezzo mondo a cantare le sue canzoni e suonare rock con la sua band è un inno alla vita e alla resistenza, considerate poi le morti che hanno funestato il suo entourage, musicisti, amici, collaboratori e tutto il resto. Quaranta anni dopo, quasi in contemporanea, esce un box che raccoglie alcune canzoni che in molti conoscono per essere entrate nelle scalette di molti concerti e nei bootleg che sono circolati negli anni, ma anche degli interi album inediti che Springsteen ha tenuto nel cassetto ed in qualche caso avrebbero ampliato la sua discografia ufficiale di aspetti diversi rispetto all’usuale, consolidato e riconoscibile formato del suo rock n’roll. Quella che segue è una disamina dei sette CD che compongono Lost&Found 1983-2018.



Sette CD diversi l’uno dall’altro, si parte con antiche session del 1983 per arrivare a registrazioni di qualche anno fa, impossibile quindi dare un giudizio d’insieme del materiale qui in questione se non addentrandosi nei singoli dischi perché il raggio d’azione si estende dalle cantine al deserto, dal ribelle rockabilly al crooner in astinenza d’amore, da Philadelphia alla California, dal suono E-Street Band a ridondanti sinfonie di tastiere. Qui c’è lo Springsteen parallelo e nascosto che ha accompagnato la sua discografia ufficiale con composizioni ancora incomplete e altre che avrebbero meritato la pubblicazione, non tutto ciò che Tracks II propone è memorabile ma se vi interessa il caro vecchio  rock n’roll andate da qualche parte a Nord di Nashville, lì c’è qualcosa che  ancora fa vibrare i sensi.

Non entro nel merito dell’operazione commerciale, per il sottoscritto il costo di questo box è poco giustificabile, mi limito ad analizzare il contenuto, una selezione di sette album perduti e ritrovati, per la maggior parte registrati in studi casalinghi, spesso in solitario o con l’unico aiuto del produttore Ron Aniello. Si va dalle session del lontano 1983 risalenti al periodo intercorso tra la pubblicazione di Nebrsaka e Born In The Usa fino al recente 2018 con le dieci canzoni di Perfect World  passando per le registrazioni che accompagnarono l’uscita di Streets of Philadelphia servita per l’omonimo film di Jonathan Demme , una fantomatica colonna sonora, Faithless, per un film mai uscito ed una sorta di racconto in canzoni sul border intitolato Inyo. Ma ci sono anche i brani raccolti per Somewhere North of Nashville ispirati al country e al rockabilly e Twilight Hours presumibilmente registrato a ridosso di Western Stars. Non valgono i confronti col precedente volume di Tracks pubblicato nel 1998 che rispettava un ordine cronologico preciso, da Mary Queen of Arkansas del 1972 fino a Brothers Under The Bridge nel 1995, le epoche dei due box sono diverse, così come diverso è l’artista Bruce Springsteen, per età, motivazioni e ispirazione, e pure il mondo della musica ( e non solo quello) è cambiato. Tracks II raccatta cose molto diverse tra loro rivelando un processo creativo non lineare e altalenante, ci sono idee, ricerche, scarti, prove, abbozzi, cose non finite, il tutto all’insegna di un’ inquietudine artistica (probabilmente anche esistenziale) che ha portato l’autore in territori del tutto diversi tra loro e di cui solo ora, con questi 7CD, se ne ha piena conoscenza, almeno per la grande maggioranza degli ascoltatori. Non mancano titoli già noti, soprattutto nel caso del primo CD del box ovvero LA Garage Session ’83, canzoni apparse sia nei tour, sia nei bootleg che nelle B side dei singoli pubblicati all’epoca. Ne sono esempio Follow That Dream, titolo fino troppo noto per gli amanti di Elvis e del Boss, la bellissima Shut Out The Light, qui offerta in una versione da brivido, scarna e sofferente, col controcanto femminile, leggermente diversa da quella inserita nel precedente Tracks, Johnny Bye Bye scritta in onore di Presley, presentata più volte nei tour di The River e BITUSA, e poi Sugarland espressione della sensibilità dell’autore nei confronti dell’America rurale e contadina, e una meravigliosa County Fair  che tratteggia un ipotetico ponte tra la livida atmosfera di Nebraska ed il suono più ampio dell’album seguente. C’è pure il prototipo di My Hometown, ancora più delicata e con una voce tentennante che non ne scalfisce l’intimità. Il primo CD del box, diviso tra il sound scarno e minimale del suo album acustico e alcune aperture immediatamente seguenti, non ospita comunque l’agognato Nebraska elettrico ma brani come Fugitive’s Dream (ripresa in due versioni) che sarebbero diventati canzoni con altri titoli, oppure Black Mountain Ballad la cui linea melodica ricorda vagamente Mansion on the Hill con l’armonica finale che aggiunge un dolce sapore western. La stessa armonica introduce Jim Deer, incrocio di Woody Guthrie e il Dylan degli esordi pur con il forte impatto che Springsteen sa creare quando canta il folk. L’amore per il country emerge nella scoppiettante Don’t Back Down On Our Love mentre più spiazzanti sono The Klansman e One Love il cui drive ritmico appartiene agli anni ottanta di Cure e Feelies, un segnale dell’attenzione di Springsteen verso suoni diversi dal suo. Al polo opposto Richfield Whistle ci riporta grazie al mandolino e all’arpeggio di chitarre acustiche negli umori in bianco e nero di Nebraska. Alla luce di quanto qui riportato mi permetto di affermare che il menù scelto per gli originali Nebraska e BITUSA sia stato il più azzeccato, fermo restando che escludere Shut Out The Light  per chi scrive rimane inspiegabile.

La scelta di Blind Spot come primo brano da far girare in rete per anticipare l’uscita di Tracks II riassume il mood dominante delle Streets of Philadelphia Sessions. E’ una canzone, che come afferma l’autore, esplora i dubbi e i tradimenti in una relazione d’amore, tema caro in quel periodo a Springsteen anche se con Patti Scialfa stava vivendo un periodo particolarmente felice in California. “ Ma se a volte chiudi quei pensieri in una canzone, poi questa ti segue e si infila dentro. Avevo Blind Spot e ho seguito quel filo del discorso per il resto del disco”. Registrate a ridosso dell’uscita del film di Jonathan Demme tra il 1993 e il 1994, le canzoni di quelle sedute rispecchiano il sound di musica contemporanea anni novanta con loop, sintetizzatori e una ritmica hip hop di matrice West Coast. Bruce aveva cominciato a scrivere la canzone per il film di Demme pensando a qualcosa di rock ma si trovò in difficolta nel far combaciare le liriche con la musica pensata, per cui si mise a cincischiare  con il sintetizzatore suonando sopra un beat di derivazione hip-hop. Programmò i loop con una drum machine nella sua casa di Los Angeles intuendo come fossero necessari accordi in tonalità minore per quelle canzoni; poi l’ingegnere Toby Scott rimise a posto la base ritmica su cui innestare tastiere di vario genere. Nelle stesse session fu registrata Secret Garden, un brano dalle sfumature erotiche incentrato sui misteri che permangono tra i partner all’intero di una relazione anche quando questa è consolidata nel tempo, e come Blind Spot rappresenta il cuore di quel disco del 1994 mai pubblicato. Con Springsteen lavorarono la moglie Patti Scialfa, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, le session completate e mixate furono pronte per la primavera del 1995 prima che Bruce rimettesse insieme, dopo sette anni, la band. “Quelle sedute mi sono rimaste nel cuore e mi sono sempre promesso di farle uscire prima o poi”. Se ne capisce la ragione perché pur accettando il generale mood sinfonico orchestrato con le tastiere, di ottime canzoni ce n’è più di una a cominciare dalla bella e intensa Something In The Well, da One Beautiful Morning, rockata e carica di pathos, dall’intimistica Between Heaven and Heart  sussurrata come una ninna nanna, dalla stessa Secret Garden pubblicata a suo tempo come singolo e da Farewell Party, una di quelle ballate dal senso  epico che nobilitano il lirismo del suo songbook. Dieci tracce con una malinconia di fondo dettata  dallo stato d’animo di Bruce in quel periodo, discograficamente parlando un coraggioso cambio di stile  in anni contrassegnati da repentini cambi di direzione, prima lo scioglimento della band, poi l’approccio verso il discutibile pop-soul losengelino di Human Touch e successivamente l’affondo sociopolitico minimalista di Tom Joad. Quel mood sinfonico presentò uno Springsteen diverso che a molti non piacque ma fu una necessaria tappa di passaggio verso il ripristino dell’ E Street Band sound, cosa che fece di lì a poco col Tour della riunione.

Faithless è il titolo di una soundtrack composta da undici tracce per un film mai uscito, un western spirituale come lo ha definito lo stesso autore sulle intenzioni, il credo e l’accettazione. Registrato tra la fine del Devils & Dust Tour nel novembre del 2005 e la pubblicazione di We Shall Overcome, è la visione di Springsteen della spiritualità nella mitologia del West americano, una collezione di canzoni e frammenti sonori composti nel giro di due settimane finalizzati a tradurre l’atmosfera del film. Per quel lavoro fu aiutato dal produttore Ron Aniello, Soozie Tyrell e Lisa Lowell, Curtis Knight Jr., Michelle Moore e Ada Dyer ma ci furono anche contributi da parte della moglie e di Evan e Sam Springsteen. Alcune tracce sono puramente strumentali, spadroneggiano armoniche e violini e un’aria tipicamente western in un contesto di folk desertico. Si respira la desolazione di Tom Joad pur con qualche gagliardo colpo in avanti nello spirito delle Seeger Sessions, lo testimoniano tracce come All Gods Children, uno spiritual cantato con voce rabbiosa alimentato da un coro da Chiesa Battista e il gospel Let Me Ride, mentre nell’accorata e pianistica God Sent You e nel tema di My Master’s Hand divisa tra preghiera ed echi messicani, emerge un afflato religioso. Going To California preserva il fascino dei viaggi on the road e Where You Going Where You From si perde nel grande mistero della vita con una preghiera benedetta dal delicato coro femminile. Visionario e spirituale Faithless rimane la soundtrack di un film mai visto come si conviene a una ghost story del deserto.

L’amore mai nascosto per la musica country a cominciare da Hank Williams e Johnny Cash ha costituito una parte dell’educazione musicale di Springsteen manifestandosi dapprima in episodi isolati e poi emersa significativa in età adulta. Avvisaglie erano alcune B side del periodo The River, l’ambientazione nella profonda provincia di Nebraska, l’eredità tradizionale su cui fu impiantato diverso materiale di Seeger Session, i paesaggi persi nel nulla di Devils & Dust  fino alla consacrazione estetica di un West  cinematografico in Western Stars, più una cartolina che un sentito approccio ai codici stilistici del genere. Con le canzoni di Somewhere North of Nashville si entra in un universo profondamente americano ma non dalla porta principale, piuttosto, come suggerisce il titolo della strepitosa Poor Side of Town, dalla porta di servizio. Tutto il fascino del country quando si impolvera di perdenti e outsiders, l’eccitante ritmo del rockablly, le calde pulsazioni dell’ honky-tonk e l’eco dello western swing texano ma senza la coreografia hollywoodiana delle stelle dell’Ovest, solo belle canzoni, a volte commoventi, il suono asciutto delle radici, qualche colpo d’armonica, una produzione mirata all’essenziale, le storie e i motel delle Blue Highway e delle Silver Mountain, una malinconia che è più una carezza che un abbandono. Fosse uscito al tempo un tale disco avrebbe accontentato pubblico e critica per il tiro rock n’roll, i personaggi e la credibilità delle storie, la grinta di Bruce e la sua sensualità come si evince nella dolce You’re Gomma Miss You When I’m Gone, la sincera condivisione con quel mondo. Fu realizzato non a caso simultaneamente a The Ghost of Tom Joad nell’estate del 1995 con Danny Federici, Garry Tallent e Gary Mallaber, Soozy Tyrell e il tocco sopraffino della lap steel di Marty Rifkin e dimostra quanto fosse creativo Bruce in quei metà anni novanta con progetti diversi l’uno dall’altro: sinfonici, folkie e rock n’roll. Questo materiale fu registrato dal vivo in studio da una full band, dodici canzoni compresi due prelibati scarti di Born in The Usa ovvero la scatenata Stand On It e la magnifica e melodica Janey Don’t You Lose Heart  impreziosita dal sublime lavoro di Rifkin con la lap steel e Soozy Tyrell col violino. In tutti i brani prevale il suono di un combo che mira al sodo bilanciando energia ed elegia da grandi spazi, da una parte gli stivali che battono i tacchi in Detail Man, Repo Man e Delivery Man, dall’altra gli orizzonti di Silver Mountain e Under a Big Sky e in mezzo le melodie che  fanno innamorare. Anche il lussureggiante country di Tiger Rose interpretato da Sonny Burgess nel 1996 e baciato dal tocco di Marty Rifkin, più tardi anche lui nella Seeger Sesssion Band, e Somewhere North of Nashville, che con un taglio alla Charley Crockett ed il titolo colloca questo country al di fuori del riconosciuto mainstream del genere. Affermò Springsteen: “ scritte nello stesso periodo di Tom Joad cantai Repo Man nel pomeriggio mentre di notte mi concentrai su The Line. Fu però Streets of Philadelphia a ricollegarmi alla coscienza sociale ritornando ad approfondire il songwriting grazie alla minuziosa cura dei personaggi e all’uso diverso della voce, è così che venne fuori Tom Joad; ma nello stesso tempo dentro mi ruminava quel feeling country che trovò sbocco in queste session, e così finii per fare un disco country”. La carriera del Boss, troppo consenziente a obblighi contrattuali, ha lasciato ai margini lavori che meritavano di vedere la luce, se volete trovare lo Springsteen dei giorni migliori andate da qualche parte a Nord di Nashville.

Se Faithless è la colonna sonora di un film mai uscito, le dieci canzoni che compongono Inyo sono il frutto di scritture che Springsteen fece negli anni novanta durante viaggi in moto nel Sud-Ovest degli Stati Uniti immergendosi nella cultura e nel paesaggio locale. Inyo'è un disco che ho scritto durante i lunghi viaggi lungo l'acquedotto della California, attraverso la contea di Inyo, diretto a Yosemite o alla Death Valley", ha ricordato Springsteen. "Mi piaceva moltissimo quel tipo di scrittura. Durante il tour di The Ghost Of Tom Joad] tornavo in albergo la sera e continuavo a scrivere in quello stile perché pensavo di dare  un seguito a quel disco  con un lavoro simile, ma non l'ho fatto. È da lì che è nato Inyo, è uno dei miei preferiti."

Sono canzoni del border con suoni “localistici” immaginati per un ipotetico concept sul tema della diaspora messicana e le perdite culturali che ne sono derivate, ragione per cui l’atmosfera è dolente e dolorosa. Ma ci sono momenti in cui il quadro si tinge di colori romantici come in Adelita, un’ode alle donne soldaderas messicane che hanno avuto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza, oppure quando viene narrato di The Last Charro nella festosità di una piazza messicana con le trombe mariachi che si fondono coi violini e la gente canta, o ancora nella delicata coralità di When I Build My Beautiful House. Al contrario, in Ciudad Juarez le stesse trombe sanno di morte e fuggiaschi, una tristezza che pervade Indian Town, The Aztec Dance, One False Move, catapultando l’ascoltatore in quell’universo di confine argomento di tanta cronaca giornalistica e politica. Canzoni come Our Lady of Monroe e El Jardinero (Upon The Death of Ramon) sono storie bruciate dai ricordi e nostalgia tenute insieme da suoni in punta di piedi, violini,  un’armonica, il costante lavoro delle tastiere sullo sfondo. Sebbene registrato principalmente come disco solista , Springsteen si ritrova a lavorare con diversi musicisti mariachi responsabili dell’inconfondibile mexican flavour che si respira nell’intero lavoro.

 

Non so se il titolo Twilight Hours, le ore dell’imbrunire, faccia riferimento al disco del 1955 di Frank Sinatra, In the Wee Small Hours, nelle prime ore del mattino, tanto Springsteen pare coinvolto nel vestire i panni del crooner languido e confidenziale, ma il risultato suona piuttosto come il delirio di un vecchio playboy immalinconito dal trascorrere del tempo. La sequenza inziale di Sunday Love /Late in the Evening/Two of Us è piuttosto imbarazzante per il modo in cui la voce sgocciola melassa dolciastra e gli archi sono lì a creare una messainscena di solitudine e amori sfuggiti che in Lonely Town e September Kisses assume toni  più patetici che drammatici. Lo stile Bacharach di alcune tracce non basta a salvare atmosfere che l’autore ha definito noir-industriali ma che infarcite di tutti quegli archi e arrangiamenti diventano un tedioso feuilleton musicale sui dolori dell’amore. Probabilmente registrato nelle vicinanze di Western Stars, possiede la stessa ridondante coreografia sonora non collocata negli spazi aperti dell’Ovest ma in una scenografia d’interni che, dopo l’ascolto di High Sierra, richiede una salutare ossigenazione per non soffocare in tale tortuoso (e torturante) tunnel of love. Qualche spunto vitale lo si trova nella canzone-titolo, nel falsetto di Sunliner la cui lap steel la spedisce dalle parti di Lyle Lovett, nella ridente Follow The Sun che al sottoscritto ricorda qualcosa di Raindrops Keep Fallin’ On My Head, tanto per stare in clima Bacharach. Ma in generale più che l’imbrunire, qui è notte fonda.

 

Il rock torna di scena nelle dieci canzoni di Perfect World a cominciare dai titoli con cui viene introdotto: le chitarre urlanti e l’E Street sound di  I’m not sleeping, il roots-rock rauco di armonica dylaniata e distorsioni alla Dream Syndicate di Idiot’s Delight, scritta negli anni novanta con Joe Grushecky e poi incisa con la E-Street Band nei duemila, e l’altrettanto elettrica  Another Thin Line con quella bella linea di tastiere sopra il feedback chitarristico. Il suono del disco è in parte parente a quello del recente Letter To You, specie in pezzi saturi di suoni come Rain in the River  ma c’è spazio per ariose ballate (The Great Depression) e qualche dichiarazione d’amore (If I Could Only Be Your Lover) oltre e quella Perfect World ceduta a John Mellencamp per lo struggente Orpheus Descending. In questo CD ci sono ottimi spunti e idee da approfondire ma non l’omogeneità di un album finito, in Cutting Knife la voce pare sospesa in un magma sonoro che rinuncia veramente a tagliare di netto e You Lifted Me Up sfoggia un ritornello sopra un mare di arrangiamenti e tastiere dove si smarrisce il filo conduttore della canzone. Curato in qualche particolare e smagrito nella sovra-produzione, Perfect World avrebbe potuto essere un album oscillante tra il suono espresso in Magic e quello di Letter To You. C’è Ron Aniello dietro tutto ciò, un ruolo importante nella recente produzione del Boss, che sia stata la miglior scelta possibile, questo è un altro discorso.

MAURO  ZAMBELLINI     31 MAGGIO 2025 (data da dimenticare)

p.s articolo completo con il contributo di Marco Denti e foto su BUSCADERO in uscita a luglio

 


venerdì 21 marzo 2025

NON LO DIREI SE NON FOSSE VERO Steve Wynn


 

Una volta Bruce Springsteen disse che aveva imparato più da una canzone di tre minuti che da cinque anni di scuola, più modestamente potrei rispondere che ho appreso di rock n’roll più da questo libro di Steve Wynn che da decine di dischi ascoltati del genere. Non lo direi se non fosse vero, edito dai tipi di Jimenez, è un libro piacevolissimo da leggere in cui si apprendono molte cose riguardo la nostra musica, scritto con una prosa fluida e semplice ma non banale, che acchiappa il lettore come fosse un romanzo da cui non si riesce a starne lontani. Racchiude memorie di musica, vita, aneddoti, storie e soprattutto l’avventura dei Dream Syndicate, uno dei gruppi americani più importanti degli ultimi quaranta anni, fino al loro temporaneo scioglimento nel 1989 (si sarebbero poi riuniti nel 2012 per una seconda vita che dura tutt’ora). Mai come in questa occasione Steve Wynn, che sarà ad aprile in tour dalle nostre parti, si mette a nudo e con una onestà incredibile racconta un periodo importante della sua esistenza umana e artistica, dai giorni dell’infanzia, figlio unico e felice di una madre single (si era comunque sposata quattro volte, come il padre) nel distretto Pico/La Ciniega di Los Angeles negli anni sessanta, al suo approccio alla musica, prima come bambino invaghito dei filmati di Beatles, Who, Monkees, Cream, Creedence che sfrecciava con la sua bicicletta per i saliscendi di Hollywood bramoso di raggiungere il negozio di dischi più vicino e comprarsi con la paghetta l’ultimo Lp o 45 giri dei suoi beniamini. Ragazzino solitario, attorniato da nuovi fratelli avuti dai nuovi coniugi in matrimoni precedenti e dai vicini di casa, ciò che importava veramente a Steve erano i dischi, la radio e la chitarra. Da lì le prime lezioni con lo strumento, la prima canzone, la prima band. Se si considera che  aveva solo dieci anni si capisce come realmente fosse un predestinato. Si fa assumere come impiegato in un negozio di dischi, il Rhino di Los Angeles, dove promuove i dischi autoprodotti dei gruppi underground locali che glieli portavano a mano, diventa musicista dilettante, vive una parentesi come giornalista di cronache sportive, specie di baseball la sua seconda grande passione, nel campus universitario dove presto abbandona gli studi, e poi il grande salto nel rock dopo essere stato fulminato da un concerto di Springsteen. Ma sono i Roxy Music, i Clash gli Stooges, i Ramones e i Talking Heads a portarlo sulla strada della musica registrata, nonché l’incontro a Memphis con uno dei suoi miti, Alex Chilton leader dei Big Star, altra sua grande passione.



 Nel 1978 è all’università di Davis, località vicino San Francisco dove con Russ Tolman, Gavin Blair e Kendra Smith forma i Suspects, torna a Los Angeles e dà vita ai 15 Minutes, ma è l’incontro col batterista Dennis Duck, un veterano della scena della città, il chitarrista Karl Precoda (con cui più tardi avrà forti divergenze) e la bassista e cantante Kendra Smith a far emergere dall’underground della Città degli Angeli i Dream Syndicate. Crea l’etichetta Down There per pubblicare l’Ep d’esordio, registrato nella cantina della casa del padre, ma è la Slash, l’intraprendente label della nuova scena californiana dell’epoca, a permettere l’uscita di quel The Days of Wine and Roses che a parere del sottoscritto è il più vicino parente di White Light, White Heat dei Velvet Undergound per lungimiranza stilistica e sonora. I Dream Syndicate si imposero immediatamente in quella California desiderosa di archiviare Eagles e Fleetwood Mac e non ci volle molto affinché aggregassero ai loro concerti la fauna inquieta dei club del Sunset Boulevard .Seguono i tour, gli spostamenti da una città all’altra, da uno stato all’altro, l’euforia e i pochi soldi, le bottiglia di Bourbon scolate come fossero acqua minerale, lo speed, il plauso dei critici musicali e la nascita del Paisley Underground, il movimento che andava controcorrente rispetto al dilagare della musica sintetica ed iperprodotta degli anni 80. Ne fanno parte anche gli amici Green On Red, gli X, Thin White Rope, Long Raiders, Rain Parade e a margine, pubblicati dalla stessa Slash, anche Los Lobos e Blasters. Un paradiso per le orecchie di chi non voleva saperne di Culture Club, Duran Duran, Spandau Ballett e robaccia del genere. Wynn racconta nel libro senza nascondere nulla, compreso vizi e peccati, neppure la delusione per le vendite non sempre pari all’impegno e alla tenacia dei musicisti, oltre ai problemi interni al gruppo creatisi nello studio di San Francisco col produttore Sandy Pearlman (uno che aveva lavorato con Clash e Blue Oyster Cult) e col chitarrista ed ex-amico Karl Precoda nella realizzazione di Medicine Show, pubblicato nel 1984 e caposaldo del rock americano di quel decennio, e non solo. E’ Wynn a liquidare Precoda, nonostante quello che si è sempre narrato mentre Kendra Smith se ne va di sua volontà per formare gli Opal, sostituita da Dave Prevost. Entra in scena il nuovo chitarrista Paul Cutler che già era nel giro dei Dream Syndicate al momento del loro esordio come ingegnere del suono, il nuovo lavoro Out of The Grey non è all’altezza dei due precedenti e anche Wynn ammette con schiettezza il calo d’ispirazione e soprattutto un suono troppo mainstream per la loro natura outsider. Ma per chi scrive contiene almeno tre brani, Boston, Now I Ride Alone e 50 in a 25 Zone che sarebbero in tanti a fare carte false per averle scritte loro. Wynn racconta il momento di sbando ma anche la crescente popolarità in Europa, in Scandinavia, in Spagna e in Italia dove passano più volte, anche le dinamiche cambiate dei promoter  nell’organizzare concerti ed in generale il circo della musica. Il gruppo vive un calo di consensi anche tra il pubblico, Wynn si sente appartenente ad un’altra era del rock, più eroica e spontanea, intuisce che il paesaggio è cambiato e comincia a pensare a una carriera solista, esibendosi talvolta da solo o con qualche sparuto accompagnatore. Ma nel 1988 c’è ancora tempo per un grande disco dei Dream Syndicate prodotto da Elliott Mazer (uno che con Young, Dylan e The Band ha esplorato tutto l’universo della ballata elettrica) ed è Ghost Stories .  Dice l’autore del libro “ quando ci siamo formati nel 1982, è stato soprattutto perché volevamo fare quel tipo di musica che all’epoca non si sentiva da nessun’altra parte. Stavamo riempiendo un vuoto per noi stessi, e abbiamo scoperto rapidamente che stavamo riempiendo un vuoto anche per un gruppo selezionato di altri appassionati di musica, siamo diventati la band che forse avevamo sognato di essere. Eravamo una band che probabilmente sarebbe stata la nostra band preferita nel 1982”. Ma con lo scenario cambiato i Dream Syndicate non volevano diventare un fenomeno patetico dopo essere stati i pionieri di un certo tipo di rock underground. Wynn si è ormai accasato e ripulito e con consapevolezza, nello stesso modo in cui faranno qualche anno più tardi gli amici REM, per decisione comune i Dream Syndicate staccano la spina dopo aver dato alle stampe il glorioso Live at Raji’s.


Wynn se ne andrà per una fortunata avventura solista e tante invenzioni musicali, con Danny&Dusty (di cui è raccontata la simpatica vicenda, specchio dei glory days di un tempo che fu) con i Gutterball, i Miracle 3 e il Baseball Project, per poi riunire nel 2012 la vecchia band e far uscire cinque anni dopo How Did I Find Myself Here, primo album dell'avvenuta rinascita. Ma questa è un’altra storia che l’autore racconterà nel volume 2 di Non lo direi se non fosse vero. Libro che si chiude con questa confessione: Alla fine dei conti posso guardare indietro alle migliaia di concerti che ho fatto, alle diverse decine di dischi che ho inciso, agli amici che ho incontrato lungo la strada, ai pasti che ho consumato, alle storie che ho imparato, vissuto e ripetuto, e non cambierei nulla, nemmeno un singolo momento. Tutto ciò che so è che quando sto compilando un modulo e vedo uno spazio vuoto per ‘occupazione’, posso scrivere onestamente e con orgoglio ‘musicista’. E questo mi basta” .

MAURO ZAMBELLINI   MARZO 2025

 

giovedì 23 gennaio 2025

THE ALLMAN BROTHERS BAND Final Concert 10-28-14




Concerto storico della Allman Brothers Band non fosse altro perché è il finale della loro lunga, controversa, altalenante, esaltante avventura musicale. La sede è quella a loro più congeniale, ovvero il Beacon Theatre di New York, la loro seconda patria, la data quella del 28 ottobre 2014 per il 45esimo di carriera. C’erano stati seri problemi di salute negli anni appena precedenti, Gregg Allman si era sottoposto a un trapianto di fegato e poi aveva sofferto gravi problemi respiratori che lo avevano invalidato, Dickey Betts era già fuori dal giro da diverso tempo e nel 2012 l’ annuale residency primaverile degli Allman al Beacon era saltata. Mai come in quel periodo la band sembrava appesa ad un filo ma il 7 marzo del 2014 i sette (oltre agli storici Gregg, Jaimoe, Butch Trucks c’erano i due condottieri Warren Haynes e Derek Trucks, il bassista Oteil Burbridge ed il percussionista Marc Quinones) si presentarono sul palco dello storico locale al numero 2124 di Broadway per  dare inizio ai concerti in cartello, come ogni anno.  Durante la seconda data Butch Trucks se ne andò prima dell’encore di Southbound, una improvvisa perdita di memoria non gli permise di continuare, non aveva idea di cosa stesse facendo, era completamente smarrito. Fu sostituito da suo nipote Duane, fratello di Derek, e dal percussionista Bobby Allende. Trucks rimase tre giorni in ospedale  e gli diagnosticarono una TIA ma prima della serata del 21 marzo i  Brothers dovettero fare a meno anche di Gregg, ospedalizzato per una nuova crisi respiratoria. La band corse ai ripari ingaggiando i tastieristi Kofi Burbridge e Rob Barraco, il sassofonista Bill Evans e Susan Tedeschi nelle vesti di cantante e chitarrista. Si aggiunse alle voci il figlio di Gregg, Devon e per il concerto seguente fu convocato da Nashville il cantante di Wet Willie, Jimmy Hall, ma per le serate successive Warren Haynes fu lapidario: non si potevano tradire i fans che avevano acquistato biglietti, prenotato alberghi e pagato voli, presentando una band senza il proprio cantante. Gli ultimi quattro show newyorchesi furono quindi posticipati a data da stabilirsi e dopo alcune apparizioni estive la band si ripresentò al Beacon nell’ottobre dello stesso anno. Il rush finale iniziò il 21 ottobre, il concerto finale avvenne il 28 (ma si concluse che già era il 29, nello stesso giorno in cui 43 anni prima moriva Duane) e, dato che era l’ultimo atto, invitarono anche Dickey Betts ma il tentativo andò a vuoto. La storia è raccontata compiutamente nel libro della Shake The Allman Brothers Band-I Ribelli del Southern Rock (2021),  per la festa conclusiva del 28 arrivarono da tutti gli Stati Uniti parenti ed amici a dimostrazione del grande affetto che legava una comunità che né i lutti, i dissidi, i processi, le droghe e l’alcol, le malattie aveva scardinato. Seppure acciaccati, già dalle prime note di Little Martha si capisce che la serata avrebbe lasciato in eredità qualcosa di speciale. Non poteva essere diversamente . La fine della strada era cominciata da un poetico e nostalgico riavvolgimento del nastro dei flashback che ogni secondo di quella straordinaria storia riportava alla memoria Duane Allman. I sospiri languidi e acuti dell’emozionante brano di Duane, suonato dall’acustica di Derek in armonia elettrica con Haynes, confluiscono in un’esplosiva Mountain Jam per poi aprirsi alle due canzoni di apertura del loro primo album: Don’t Want You No More e It’s Not My Cross To Bear.  Finalmente, seppure di non facile reperibilità e a un costo non propriamente economico, almeno per quanto riguarda il supporto fisico  quella straordinaria serata è ora disponibile in un triplo CD che testimonia come la band fosse ancora in grado di ricreare la grandeur di un tempo e avere numeri da novanta nel proprio carnet, tanto che sulla rivista Rolling Stone David Fricke scrisse che quella serata non sembrava proprio un addio. Basta ascoltarsi i dieci minuti di Blue Sky per capire che la  nuova generazione ovvero i chitarristi Trucks e Haynes  non soffriva rispetto ai titolari Duane e Betts e nei tanti blues della set list il drumming di Butch Trucks stantuffava come un pistone di un bicilindrico, il percussionista Marc Quinones metteva carbone alla caldaia e Gregg, commovente nel recuperare le ultime forze a sua disposizione (nella tenera Melissa  affiora la stanchezza di una vita on the border) cantava come nelle grandi occasioni, ricavando dal suo Hammond un suono stagionato, rotondo, pastoso. Ventinove titoli sparsi su tre CD, tutta la loro carriera riassunta in una serata grazie ad uno show stratosferico, tra i migliori della loro sterminata produzione live. Assoli e jam, gioco di squadra e individualismi da fa far accapponare la pelle, blues, rock, psichedelia e soul, Final Concert 10-28-14 è la degna conclusione di una delle avventure musicali americane che hanno fatto storia.  Superfluo fare l’elenco di ogni traccia di questa grazia divina, mi limito nel segnalare i brani più lunghi, i tredici minuti e mezzo del medley You Don’t Love Me/Soul Serenade/You Don’t Love Me,  gli undici minuti di una personalissima Good Morning Little Shoolgirl di Sonny Boy Williamson, i tredici minuti di una vigorosa Black Hearted Woman,  i nove della The Sky Is Crying di Elmore James,  gli undici e passi della cosmica Dreams, i diciooto di una Elizabeth Reed mai cosi rilassata, jazzata, intervallata dal tribale numero di percussioni e batteria di JaMaBuBu,  i sedici e oltre  di una delirante Whpping  Post messa nell’encore ed una Mountain  Jam  divisa in tre momenti, quattro minuti all’inizio di concerto poi altri nove minuti nel finale e, dopo l’intermezzo della corale e celebrativa Will The Circle Be Unbroken, ulteriori undici minuti e passa. Una volta concluso l’encore di Whipping Post,  i sette membri del gruppo si schierarono di fronte al pubblico con un inchino, poi Gregg, spinto avanti dagli altri, tenne un breve discorso in quello che qui viene riportato come Farewell Speeches, ricordando il giorno in cui, per la prima volta, cantò con la formazione originale della Allman Brothers Band, in una jam session nella loro Jacksonville. Gregg citando la data precisa, il 26 marzo 1969, afferma, con voce bassa e logora: “Non avevo idea che si potesse arrivare a questo”. Fra gli applausi aggiunge: “Ora... faremo la prima canzone che abbiamo mai suonato”, ed il tributo a Muddy Waters di Trouble No More , il brano che aveva dato inizio a tutto  esce dalle voci dell’intero Beacon Theatre.

Un rammarico non aver potuto assistere a un evento del genere, una festa della musica  pur contrassegnata dalla malinconia di un addio, ci sono occasioni nella vita che non andrebbero perse anche a costo di sacrifici e altre rinunce. Relegati nella periferia dell’Impero non possiamo che accontentarci di ciò che la storia lascia dietro di sé ovvero questo irrinunciabile e fantastico documento, una miseria al confronto di poter essere stati realmente sotto quel palco. Baratterei una ventina di concerti del Boss (dei trentatrè visti) per uno dei loro ma il tempo non aspetta nessuno. 

Prodotto dalla ABB con Bert Holman, pubblicato dalla Peach Records, qualità audio di prim’ordine, se c’è un live degli Allman che porterei sull’isola deserta assieme al Fillmore East è questo.

MAURO ZAMBELLINI    GENNAIO 2025

 

venerdì 27 dicembre 2024

MY BEST of 2024

 


Nell’anno orribile che ha portato via diversi e noti giornalisti musicali tra cui Ernesto Assante, Massimo Cotto, Fausto Pirito ed in particolare Paolo Carù a cui ero legato da un consolidato rapporto professionale e di amicizia, la musica e i dischi sono stati un elemento importante di consolazione in un mondo che pare tutto il contrario di quello sperato e sognato quando, almeno per il sottoscritto, per la prima volta mi avvicinai al pop e al rock. Qualsiasi winds of change ha soffiato in senso inverso dove le canzoni di un tempo, e non parlo solo degli anni sessanta, sembravano spingere. La speranza è l’ultima a morire ma rispetto ai tempi quando si cantava contro la guerra in Vietnam, le discriminazioni razziali, il neo liberismo della Thatcher e Reagan, la nostra musica pare oggi incapace di elevarsi in un collettivo e universale urlo di protesta contro guerre e massacri, tirannie e fascismi vari, contro una tecnologia che inversamente ad essere un fattore di progresso umano nel segno della tolleranza, è invece veicolo di tecnocrazie, autoritarismi, bugie, imperi mediatici, verità capovolte. Rinchiusi nella nostra sopravvivenza, noi amanti di un mondo ormai utopico, con la sensibilità che ci siamo costruiti usando il nostro buon senso ed un “consumismo” artistico di film, libri, mostre e musica, resistiamo e come suggerisce la parola cardine del giubileo, nutriamo ancora SPERANZA.

La mia playlist annuale,che non sono i dischi migliori o più importanti o di moda ma solo quelli che mi sono piaciuti di più,  è fondamentalmente classic ma leggendo le tante classifiche social, di siti e riviste specializzate, anche un po’ fuori dal coro, dettata più da acquisti discografici fisici che da ascolti liquidi. Quella che segue è la selezione dei dischi che più ho ascoltato nel 2024, ho diviso i titoli in settori, scelta che generalmente fa imbufalire i musicisti, avversi alle categorie. L’ordine è del tutto casuale. Buon Anno a tutti.

ROCK and songwriters

Ray LaMontagne    Long Way Home      un ritorno alla semplicità dei primi album, voce sabbiosa da crooner per canzoni che distillano emozioni e storie di vita intima e sulla strada, Ray LaMontagne riannoda le fila della sua esperienza artistica e lo fa nei migliore dei modi, recuperando schiettezza, lirismo, atmosfera.

Mike Campbell & The Dirty Knobs Vagabonds, Virgins & Misfits

Dischi come non se ne fanno più, rock diretto, chitarristico, autostradale, suonato con precisione, diviso tra ganci elettrici e ballate che ti ricordano un orizzonte infuocato di sogni perduti. Onesto fino al midollo, senza coloranti né conservanti, con il fantasma di Tom Petty che aleggia sopra.

JJ Grey & Mofro   Olustee


Meno paludoso dei dischi precedenti e più soul, JJ Grey e i suoi amici ci offrono una dimostrazione di quanto il rock o presunto tale sia ancora credibile quando parla di preoccupazioni e sensibilità, un’ anima inquieta in canzoni ricche di sentimento per la vita e l’ambiente con un sound che appartiene di diritto alla tradizione southern.

Charlie Crockett     $10 Cowboy

$10 Cowboy racconta dell’America dei reietti e dei losers, di chi non vince mai e vive di stenti, di quella mitologia che ha reso grande il country americano e di cui Charley Crockett sembra l’ultimo credibile iscritto alla lista. Con un piglio tutto moderno, grazie al suo disinvolto e sciolto stile vocale, caldo e confidenziale, splendidamente comunicativo che si dispiega in sfumature jazzy, come un seducente crooner dei vicoli.

Johnny Cash      Songwriter

Canzoni registrate nel 1993 portate alla luce dal figlio John Carter Cash che  col produttore David “Fergie”Ferguson ha isolato la voce e la chitarra acustica dell’autore per poi darne nuova vita, aggiungendovi parti strumentali con musicisti che avevano già suonato col padre. Undici gemme di saggezza, tormento, amore e passione tra folk, blues e country.

X    Smoke and Fiction

Sembra non sia passato del tempo da Under The Big Black Sun l’album che nel 1982 li consacrò come i più autorevoli e accessibili paladini del punk californiano, Secco, teso, adrenalinico Smoke and Fiction ribadisce il loro status, le voci in sincrono di Exene Cervenka e John Doe, i fulminei interventi chitarristici, la sezione ritmica che ha imparato a memoria le regole del rockabilly, l’attitudine beatnick nel cantare i bassifondi della città degli angeli, se non avessi l’età che ho mi metterei a pogare.

Richard Thompson   Ship to Shore

Musicista eccelso, uno dei fondatori del folk-rock inglese, Richard Thompson mette insieme dodici tracce nelle quali vibra un suono ritmato che raramente si concede ai lunghi assoli chitarristici, comunque presenti ed efficaci nella loro stringatezza, potente nel disegnare un universo di considerazioni, riflessioni e amarezze attraverso ballate, moderni reel di derivazione celtica, sghembi rockabilly, canzoni di mare, ibridi folk e contaminazioni rock, marcette che non hanno nulla di militaresco. Canzoni con un’intelaiatura sonora ricca di sfumature e una voce, che qualcuno ha definito da cane bastonato, simpatizzante verso i vulnerabili e coloro che sono in caduta libera.

 

 

OUTSIDERS

Jake Xerxes Fussell    When I’m Called

Un disco di una bellezza pura, adamantina, incontaminata, When I’m Called è il miracoloso incontro di lamenti antichi con la sorprendente alchimia degli arrangiamenti di Elkington (un chitarrista raffinatissimo), le sfumature sonore date dai musicisti coinvolti, la chitarra e la calda e confortevole voce di Jake Xerxes Fussell. Magia e mistero ed un respiro nobile che contrasta coi detriti culturali che la società di oggi ci propina, When I’m Called è solo una zuppa cucinata in casa con ingredienti naturali ma vale di più di uno stellato piatto gourmet.

 

Jontavious Willis    West Georgia Blues 


 

Una voce profonda, espressiva, calda, che sa essere carezza e sofferenza. Dedicato alla sua terra, alla sua famiglia, ai suoi avi, West Georgia Blues è la fresca dichiarazione di un intrattenitore che non suona solo il blues ma abita quello spazio in cui questa musica si diffonde tra le corde della sensibilità regalando una visione del genere che è dolore e conforto, antico e moderno, un aiuto per affrontare la vita e alleviare la mente. 

 

Red Clay Strays     Made By These Moments


 

Stile old school per una band di fiammeggiante rock sudista  con riflessi country e colpi honky-tonk, una voce macerata nel bourbon e quel modo di concepire i dischi “in analogico” come si faceva a Muscle Shoals. Belle canzoni, un mood da America profonda’, in these magic moments ci sono gli ingredienti più saporiti della cucina dixie, dal blues al gospel, da Chris Stapleton a John Hiatt, dai Black Crowes ai Blackberry Smoke. Ma senza copiare nessuno.

 

Jeremie Albino      Our Time In The Sun

 

Ennesima scoperta di Dan Auerbach (Black Keys) e della sua Easy Eye Sound, Jeremie Albino ha i modi del cantautore elettrico ma con una voce zeppa di soul e di coloriture audaci che lo portando ad essere in confidenza sia con le ballate romantiche, sia col gusto retrò di un certo rhythm and blues, sia con uno scalpitante roots-rock di chitarre affilate e ritmi anarchici. C’è la tensione che negli anni sessanta si respirava negli studi dell’Alabama quando i cantanti “neri” trovavano alleanza nei musicisti bianchi ed insieme sfornavano dischi che sono diventati dei piccoli classici della tradizione southern.


 

Soul-Blues-Jazz

The J&F Band     Star Motel


Collettivo di musicisti americani ed italiani di cui fanno parte David Grissom, Joe Fonda, David Grissom, Tiziano Tononi, Emanuele Parrini, Jaimoe e altri, al loro quarto disco, fondono blues, rock, soul con una disinvoltura ed improvvisazione di stampo jazzistico che porta Charles Mingus a fianco di Robert Johnson, la Allman Brothers Band. sulla Route 66 e Jimmy Reed vicino a John Coltrane. Eclettici è dire poco, una esperienza di musica americana (dedicata a Dickey Betts) che travalica gli steccati dei generi per un’opera di frontiera divisa in due parti, un CD di canzoni ed uno di strumentali, con il doppio risultato di sorprendere ed estasiare.

Marcus King       Mood Swings

Non ha raccolto molti consensi l’ultima fatica di Marcus King, chitarrista eccelso originariamente uscito da quella tradizione di blues-rock sudista che ha negli Allman i padri fondatori. Da un po’ di tempo a questa parte, passando sotto le “cure” di Dan Auerbach (che gli produsse El Dorado), il ragazzotto della Sud Carolina si è innamorato del soul, quello classico che veniva sfornato a Muscle Shoals e a Memphis, e si è messo a cantarlo con una voce roca rubata al giovane Rod Stewart che gli consente di essere appassionato, sensuale e caldo. Il nuovo disco è prodotto da Rick Rubin, un nome che è una certezza, il quale gli ha abbassato il volume della chitarra per esaltare canzoni che se non sei iron man ti riducono il cuore in uno zuccherino.

Scott LaFaro     The Alchemy of Scott LaFaro


Sebbene avesse iniziato suonando il sassofono, Scott LaFaro nato a Newark nel 1936 da una famiglia di origine calabrese, divenne uno degli innovatori del contrabbasso nel mondo del jazz suonando praticamente con tutti, da Chet Baker a Victor Feldman, da Stan Getz a Stan Kenton, da Percy Heath a Tony Scott, da Bill Evans a Ornette Coleman. Vita breve, morì in un incidente automobilistico nel 1961, anche se non suonò mai come leader fu uno dei bassisti più influente del secolo scorso estendendo il ruolo del contrabbasso a non mero accompagnamento. Questa bella antologia di tre CD della Cherry Red Records riassume la sua breve ma esaltante carriera.

 

Live, Ristampe,Tributi

Jason Isbell and The 400 Unit    Live from the Ryman Vol.2

Secondo capitolo di registrazioni avvenute al Ryman di Nashville, un teatro in cui tutti vorrebbero suonare per la qualità dell’acustica. Se in studio Jason Isbell (un tempo nei Drive By Truckers) è composto e melodico, dal vivo con la sua band è una forza della natura che dal classico formato cantautorale si spinge verso gli Allman, la psichedelia, il rock stradaiolo di Tom Petty, una devastante bellezza elettrica che conferma quanto ancora il rock americano è capace di offrire in termini di pride and joy. Era parecchio tempo che non ascoltavo un live così esaltante tanto da spingermi a raggiungere, lo scorso novembre, Anversa per assistere al suo concerto. Italia dove sei?

Cracker   Alternative History: A Cracker Retrospective

I Cracker sono la perfetta alternative rock band degli anni novanta arrivata fino ai giorni nostri dopo un insperato successo nelle radio e nei campus americani ed una gestione del loro culto minore con dischi che non hanno mai abbassato il livello di qualità, tra power-pop, rock di strada, country stralunato e dondolanti ballate alla Lou Reed. Questo doppio CD ha il compito di riassumere il loro cammino discografico con una retrospettiva che come saggiamente suggerisce il titolo è una alternative history  e non un greatest hits  o antologia ufficiale, quindi le tracce più conosciute ma anche estratti di concerto, titoli minori, gemme nascoste.

Rory Gallagher   The BBC Collection

Opera colossale di 18 CD e 2 Blu-Ray in cui si racconta il rapporto tra il più grande bluesman irlandese e l’emittente più popolare al mondo nella diffusione della musica. Tutto quanto vorreste sapere dal rosso di Ballyshannon con la camicia a quadri e i basettoni, l’esaltazione della sua scrostata e amata Stratocaster, il suo proletario e sanguigno rock-blues, le sue commoventi ballate, il suo amore per il folk, la musica cajun, il country. Rory Gallagher at his best.

Faces at the  BBC

Di nuovo santa BBC con la completa selezione dei concerti e delle session avvenute negli studi e nei teatri dell’emittente tra il 1970 ed il 1973 quando il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood era la più alcolica e devastante rock n’roll band del pianeta, assieme agli amici Stones. Versioni da capogiro, canzoni che ti tolgono il fiato, un soul mischiato col rock e col blues che ha dato i natali a più di una generazione di musicisti, in primis i Black Crowes che al confronto sembrano degli scolaretti. 8 CD ed un blu-ray di sangue, sudore e lacrime.

The Rolling Stones   Live at The Wiltern/Welcome To Shepherd’s Bush

Due favolosi estratti dagli archivi degli Stones in concerto, entrambi registrazioni in locali di dimensioni ridotte quindi più appetibili per feeling, scaletta, atmosfera. Il primo testimonia uno show al Wiltern Theatre di Los Angeles nel 2002 durante il Four Licks Tour, il secondo arriva da un concerto al Shpherd’s Bush di Londra nel giugno del 1999 nel mentre del Bridges To Babylon Tour che toccò tutto il mondo tranne l’Italia. Performance di grande intensità, Pietre che rotolano con spavalderia e senso del rock-blues come se fossero al Crawdaddy all’inizio di carriera, chicche in scaletta raramente esibite, oltre ai loro immortali classici. In qualunque momento li si prenda gli Stones non deludono mai. Ottima la qualità audio.

Low Cut Connie     Connie Live


Un disco eccessivo, sporco, sguaiato, irriverente, rock n’roll spettinato e maleducato di una band dell’underground di Philadelphia che conta già un nutrito numero di album alle spalle, venerata da Elton John, Bruce Springsteen, Nick Hornby e Barack Obama. Il leader Adam Weider, pianista, cantante, compositore si è fatto le ossa nei locali gay di New York e negli squatter anarchici delle città europee, mischia teatro, glam, power-pop e quel rock della giungla d’asfalto caro a Dictators, New York Dolls, Replacements, Alex Chilton, Kinks. Spettacolo assicurato da sentire e vedere con le due coriste che fanno anche le ballerine, scudisciate elettriche ma anche ballate arrendevoli che cantano la boheme della città. Si definiscono spacciatori d’arte e c’è da credergli.

Artisti Vari      Silver Patron Saints:The Songs of Jesse Malin


Colpito nel 2023 da una rara forma di ictus alla colonna vertebrale, il cantautore newyorchese Jesse Malin ha dovuto sostenere cure pesanti con costi altissimi, e non possedendo una adeguata assicurazione medica l’associazione Sweet Relief, non nuova a tali iniziative, ha patrocinato questo bellissimo doppio CD dove musicisti amici o semplici debitori della piccola arte metropolitana di Malin, hanno interpretato le sue canzoni offrendo una sfaccettata dimostrazione di cosa sia il rock del mutuo soccorso. Ci sono nomi altisonanti come Bruce Springsteen la cui She Don’t Love Me Now da sola vale l’intero Only The Strong Survive, come i Counting Crows che paiono rinati, Ian Hunter, Elvis Costello e Lucinda Williams, Graham Parker, Susanna Hoffs, Wallflowers, Hold Steady, Willie Nile, Steve Van Zandt e altri meno conosciuti, tutti impegnati a fare opera di bene e soprattutto ad esaltare un repertorio di rock n’roll, punk, pop, garage, ballate, soul firmato da Jesse Malin.

 

Absolutely Live


Dave Matthews Band    Milano 19 aprile

Buscadero Day       Ternate 21 luglio

Robert Plant featuring Suzi Dian          Como  17 ottobre

Marcus King Band    Milano 20 ottobre

Jason Isbell and The 400 Unit     Anversa  16 novembre

Alex Gariazzo Quartet     Como 24 novembre

 

 

MAURO ZAMBELLINI  27/12/24