domenica 31 gennaio 2021

THE BLACK CROWES Shake Your Money Maker 30th Anniversary

 

Non occorre essere uno specialista per affermare che tra gli album d’esordio che fecero più scalpore nel rock americano di inizio anni novanta ci fu Shake Your Money Maker dei Black Crowes. Arrivò nel pieno dell’ “emergenza” grunge ma si rivolgeva all’eredità  classica del rock n’roll con rimandi espliciti al British blues, in particolare Stones, Free, Faces, Humble Pie e Led Zeppelin e al Southern rock, in primis Lynyrd Skynyrd, poi negli album successivi Allman Brothers Band. Adesso che si riparla di un loro ritorno in scena con un tour che, pandemia permettendo, dovrebbe arrivare a novembre anche dalle nostre parti, fa piacere sapere che in occasione del 30esimo anniversario Shake Your Money Maker  viene ristampato in una edizione che rende merito alla sua grandezza. Oltre all’album originario ampliato con una decina di inediti, B-sides e due demo della prima incarnazione della band quando ancora si chiamava Mr. Crowe's Garden, è presente un esplosivo concerto ad Atlanta, loro città natale, del dicembre 1990, una chicca assoluta per qualità audio e potenza della performance. Supervisionata dai fratelli Robinson e dal produttore originale George Drakoulias, la riedizione, disponibile in diversi formati (Super DeLuxe, 4LP, 3CD, doppio CD, LP 180 gr.) prevede anche un libro di 20 pagine con note scritte dal critico David Fricke ed altre amenità per collezionisti quali volantini, pass, setlist e patch. Inoltre, Charming Mess, una delle canzoni in studio inedite, che originariamente doveva essere il primo singolo della band e venne invece esclusa dall'album, è già disponibile sulle piattaforme digitali. La 30th Anniversary Edition  è quindi un succulento attestato di rock n’roll ad alta temperatura a cui è impossibile rimanere refrattari.  


Due note sul disco originario sono doverose. I Black Crowes si formarono nel 1988 attorno ai fratelli Robinson, il cantante Chris ed il chitarrista Rich. Assieme a loro il bassista Johnny Colt ed il chitarrista Jeff Cease, usciti da una massacrante selezione di musicisti più o meno locali, ed il batterista Steve Gorman amico di gioventù dei Robinson. Da Atlanta arrivano a New York grazie al produttore George Drakoulias che li porta a suonare al CBGB davanti a diversi discografici, i quali al terzo pezzo se ne sono già andati dal locale. La cosa non disturba Drakoulias e nemmeno i cinque Corvi Neri, perché al momento di firmare un contratto discografico da cinquemila dollari per la Def American, pochi soldi anche per l'epoca, Shake Your Money Maker  è già in rampa di lancio. E' il 1990 e la pista è affollata, almeno per quanto riguarda gli aeroporti del rock americano. L’anno prima è decollato Bleach  dei Nirvana, l'anno seguente sarà la volta di Ten dei Pearl Jam ma i Black Crowes intercettano altri desideri e fanno breccia in un pubblico affamato di rock e blues. La rivista Rolling Stone scrive: questo disco dei Black Crowes è come suonerebbero oggi gli Stones se Keith Richards nei suoi salad days si fosse fatto di steroidi piuttosto che di eroina".  Ai Black Crowes  piace soprattutto l’erba e si fanno promotori di Hempitation, concerti a favore della depenalizzazione della marijuana, mentre Shake Your Money Maker  riaccende per via di una eccitata urgenza anni 70 la vecchia mitologia sesso, droga e rock n'roll. Non vestono camicie di flanella e la copertina del disco strizza l’occhio all’oscurità esistenziale delle foto di David Bailey sui primi dischi degli Stones, camminano su una strada diversa dal grunge (pur contando sull'ingegnere del suono Brendan O'Brian, uno di casa a Seattle) e chi li bolla come nostalgici deve presto ricredersi perché le vendite lievitano e la loro epopea sarà quanto di meglio espresso dal rock americano fin de siecle. Pescano il jolly con una muscolare versione di Hard To Handle di Otis Redding che vede all'opera dietro le quinte il pianista di Allman e Stones, Chuck Leavell, con a fianco chitarre assassine in grado di sostituire l'assalto dei sassofoni della Stax dell’originale. Con una simile cover presentano l’album, un concentrato di rock n’roll misto a-boogie e blues che annovera una sequenza di canzoni da capogiro. Già Twice As Hard  e Jealous Again  fanno capire che oltre al  contagioso groove, c’è  un songwriting di livello e qualche ballata come l’emozionante She Talks To Angels  sulla fragilità e debolezze di un tossicodipendente, che non lascia indifferenti. E poi la band anche in studio riesce a sposare l’euforia dei Faces con le veemenza degli Humble Pie, i febbricitanti Stones con le rasoiate dei Led Zep e l’eccitazione freak dei Lynyrd Skynyrd. Fedeli alla linea fino al dettaglio (registrano dal vivo in analogico e per  creare il botto che introduce Thick n' Thin mandano il batterista Steve Gorman a schiantarsi con la macchina contro il bidone delle immondizie nel parcheggio dello studio di Atlanta dove stanno incidendo), ma non avulsi dal loro tempo. Nello stesso modo in cui i loro idoli inglesi avevano infilato il blues nel motore e  truccato i watt facendo suonare il blues come mai si era sentito prima, loro resuscitano il classic rock con una energia e freschezza che non si respiravano da almeno dieci anni. Album splendido ancora oggi (ha venduto 5 milioni di copie), per nulla invecchiato, contenente pezzi da novanta come Sister Luck, Stare It Cold, Struttin’ Blues, Could I’ve Been So Blind, oltre ai titoli già citati sopra, divenuti fissi nei loro show. Se non ci fossero The Southern Harmony and Musical Companion (1992) e Amorica (1994) sarebbe il più grande rock n’roll album degli anni novanta.


Veniamo alle bonus tracks: Charming Mess è una dichiarazione d’amore ai Faces con chitarre sguaiate e piano honky tonk, e 30 Days in The Hole  recupera gli Humble Pie prima che lo facciano i Gov’t Mule, dandogli una pennellata glam.  Don’t Wake Me è furia punk-rock “fatta” di speed, come dire “te lo do io il grunge” mentre  Jealous Guy di John Lennon è stravolta e bluesy grazie al lavoro di Hammond e pianoforte. Waitin’ Guilty ha le sembianze di una ariosa ballata da strada, Chris canta senza urlare e il coro aggiunge coloriture gospel, Hard To Handle contrariamente a quella uscita sull’album è qui in veste Stax con tanto di sezione fiati. L’alternate version di Jealous Again  è per sola voce, clapping e chitarra acustica, ed in versione acustica è anche She Talks To Angels voce, tamburello, chitarra e pianoforte. Deliziosa. Un’ altra versione di She Talks To Angels tutta arpeggi e aria country-folk arriva dagli esordi quando la band si chiamava Mr.Crowe’s Garden, così come  Front-Porch Sermon decisamente country con quel banjo, contrabbasso e armonie vocali.

Se queste sono le bonus tracks, il concerto di Atlanta, December 1990 è roba per cuori forti. Show memorabile,  potente, eccitantissimo, specchio della prima stagione dei Black Crowes col chitarrista Jeff Cease che se ne sarebbe andato di lì a poco sostituito da Marc Ford. Sono i Corvi più assetati di rock n’roll, le fughe psichedeliche di Ford non ancora nel copione, qui il sound è secco, teso, febbricitante come la voce da predicatore soul di Chris Robinson e le taglienti chitarre di Rich e Cease, una coppia che non fa prigionieri. Non mancano peraltro gli arrangiamenti e dietro alla martellante sezione ritmica lavorano pianoforte e organo, come nella accorata ed intensa Seeing Things e nella favolosa She Talks To Angels  mentre il delirio rock n’roll si consuma in You’re Wrong, Hard To Handle  unito in jam con Shake Em’ On Down di Fred McDowell  ed una distorta e assatanata rivisitazione di Get Back dei Beatles. Sangue, sudore e polvere da sparo in Sister Luck e Struttin’Blues, quest’ultima in grado di dare punti aanche a Jimmy Page e combriccola, e nei sconvolgenti tredici minuti di Words You Throw Away originariamente apparsa come B-side del singolo Hotel Illness. L’incandescente trance finale di Stare It Cold  e Jealous Again è l’apoteosi di un set bruciante, sanguigno, travolgente, cantato da uno sciamano  con alle spalle una band in grado di convergere gli assoli dei grandi chitarristi inglesi nel denso fango del blues del Sud. Pura stregoneria sonora.

MAURO  ZAMBELLINI    gennaio 2021 

 






 

giovedì 7 gennaio 2021

MY PLAYLIST 2020

 


Ho comprato pochi dischi ma ascoltato tanta musica. Sembra una contraddizione ma non è così. La rete lo consente, d’accordo o meno ma questa è la realtà ed anche io mi sono adattato, pur continuando a non scaricare ma ascoltando, grazie alle piattaforme e ad un buon speaker come il Marshall, dischi a valanga, la maggior parte dei quali non comprerei ma che è bene conoscere per avere il polso di cosa scrivono i recensori e farsi una panoramica di musica più ampia dei soliti gusti e dei soliti beniamini. Soldi riguardo a dischi comunque li ho spesi anche in quest’anno di merda la cui unica virtù è stata quella di veder pubblicati molti buoni e interessanti lavori. Senza acquistarli ma sfruttando internet ho apprezzato il potente live dei War On Drugs, il disco omonimo tra folk e melodie circolari di Sam Amidon, il country-rock leggermente lisergico della Rose City Band, le interessanti armonie dei Cut Worms, il rauco blues del Reverendo John Wilkins, il lunatico (nonostante il titolo) Sundowner di Kevin Morby, la varietà roots del Dave Alvin di From An Old Guitar, il folk anomalo di James Elkington, il frizzante e arruffato garage rock dei Nude Party, l'amalgama di blues e southern dei Terminal Station di Brotherhood ed il cosmico roots rock di Jonathan Wilson di Dixie Blur, lontano comunque dalle sue cose migliori. Anche una buona dose del nuovo disco di Paul McCartney è stata per me un’autentica sorpresa. Deludenti a mio modo di sentire, a parte un paio di brani davvero accattivanti, ma molto osannati dalla critica Ryan Adams con Wednesdays  e Jeff Tweedy di Love Is King. Su quest’ultimo mi sono promesso però di tornarci sopra. Troppa routine senza nessun scatto in avanti anche per i Dirty Knobs, ovvero la band del chitarrista di Tom Petty, Mike Campbell, che rimane uno dei migliori con lo strumento ma non ancora in grado di essere leader.




Nel primo lockdown sono stati un supporto importante sia il Box, che ho acquistato solo quest’anno aspettando di trovarlo cheap, di The Band, A Musical History, uscito mi sembra nel lontano 2005, un fenomenale testamento di una delle band più importanti di tutta la storia del rock che nel tempo non ha perso una briciola della propria originalità, attualissima ancora oggi. Sia il box del Cinquantesimo della Allman Brothers Band, Trouble No More, altra band che andrebbe fatta studiare a scuola perché come loro nel suonare il rock-blues non c'è più stato nessuno. Delle cosidette edizioni deluxe sempre più care e spesso sempre meno necessarie, mi sono piaciute il quadruplo Wildflowers & All The Rest di Tom Petty, d’accordo sono un suo fan accanito ma ne vale la pena e non costa troppo, Check Shirt Wizard dell’amato Rory Gallagher infuocato Live del 1977, il doppio CD (basta e avanza) di Goat’s Head Soup necessario per ogni fan delle Pietre Rotolanti grazie ad un secondo dischetto di inediti ed out-takes davvero diverse, l’ottimo Steel Wheels Live cronaca di un bellissimo show dei Rolling Stones ad Atlantic City e Welcome To The Vault della Steve Miller Band zeppo di inediti e tracce dal vivo sorprendenti. Tra gli italiani le cose che ho apprezzato maggiormente sono state Crossing, splendido viaggio tra roots, folk, boschi e rock di Enrico Cipollini con i suoi Skyhorses, l’anomalo, sghembo, plastico e coraggioso Elastic Blues del maestro Paolo Bonfanti, sentire per credere, ed il rauco urlo di blues garagista sporcato di Stones dei Dirty Hands di Bull’s Eye.


Il tanto tempo a casa imposto dal lockdown mi ha permesso di ritornare su diversi dischi del passato, molti dei quali in vinile. Non tutto ha retto al tempo che passa, le batterie e i sintetizzatori degli anni ottanta ne escono a pezzi ma anche molta “roba” incensata negli anni novanta come alternativa scricchiola da morire, così come certe ingenuità degli anni sessanta e primi settanta. Una band che rimane inossidabile e durante il lockdown suonavo a manetta mentre fuori dalla finestra si sentiva l’Inno di Mameli, sono i Faces, grandi, sempre e comunque. Solo quattro album ma più di una enciclopedia.

Veniamo alla mia palylist di supporti comprati e vissuti a lungo, perché internet o lo streaming non concederanno mai il tempo e la tranquillità per un ascolto approfondito. Naturalmente orientata alla classicità del rock, perché se vuoi bere un novello o un vino che fa 12 gradi accomodati pure, un bicchiere lo bevo anche io, ma continuo a preferire i rossi da 13 gradi in su. L’ordine è casuale.

LUCINDA WILLIAMS  Good Souls Better Angels. Dopo un paio di album rivolti soprattutto a ballate perse e malinconiche, la Williams ha preso la frusta e ha sfornato un signor disco di rock, umido, urbano, crudo, pennellato da qualche flash psichedelico e da chitarre davvero cattive.

CHRIS STAPLETON   Starting Over.  Ovvero come si può suonare e cantare ancora dell’americana e del country-rock senza apparire vetusto e risaputo, con in più delle ballate soul, è il caso di Cold,  che ti mettonoe addosso i brividi anche se fa caldo.


THE PRETTY THINGS Bare as Bone, Bright As Blood. I Pretty Things sono stati una delle più longeve band uscite dal British blues diventate un culto tra gli appassionati di sporcizie beat- rock-blues garagiste. Questo è un disco completamente diverso da tutto il loro passato, inciso poco prima che uno dei due fondatori Phil May morisse per un banale incidente ciclistico. Con il socio Dick Taylor dà vita ad un disco di folk e blues spettrale come la copertina, ma intenso, umano, emozionante come gli ultimi dischi di Johnny Cash. Struggente.

THELONIOUS MONK  Palo Alto. E’ jazz ma è suonato come se fosse rock ed è stato registrato nel 1968 in una scuola da un ragazzo con la compiacenza del bidello. Basta e avanza in questi mesi di scuola a distanza.

DRIVE BY TRUCKERS   The Unraveling/ The New OK. La rock band più anti-Trump d’America, per di più dell’Alabama, uno stato notoriamente not politically correct  ha sfornato due ottimi dischi nello stesso anno, sfruttando l’impossibilità di un tour. Ganci elettrici e ballate, rabbia e misericordia, avessero preso i pezzi migliori dei due dischi e li avessero assemblati in uno solo avremmo avuto un capolavoro.


MARCUS KING   El Dorado. E’ tornato di moda un soul di taglio classico, grazie a tipi che lo cantano con rispetto del passato e aperti a quello che gira intorno. Grazie anche ad un produttore come Dan Auerbach che ne coglie l’armonia e l’intrinseca sensualità. El Dorado è come un disco di country-soul registrato negli anni settanta a Muscle Shoals, cantato da una voce sabbiosa ed espressiva, bianca ma nera, un lavoro che anticipa nello stesso stile l’imminente Introducing di Aaron Frazer, più morbido e carezzevole ma ancora prodotto da Auerbach.

BRUCE SPRINGSTEEN  Letter To You. Meglio di quanto mi aspettassi, la nostalgia e la paura della vecchiaia è stata stemperata dal classic rock sound della E Street Band che lo ha di nuovo accompagnato in pista. Per il sottoscritto non è il capolavoro che si sono affrettati a scrivere prima che uscisse ma un disco del tutto dignitoso. Tre grandi canzoni del passato e altre tre del presente, per il sottoscritto Burnin’Train, Letter To You e I’ll See You In My Dreams. Quando arrivano If I Was The Priest e Song For Orphans si piange, di commozione.

COUNTRY WESTERNS  Country Westerns. Pensavo che la foga rocknrollistica della provincia americana si fosse sopita in cantautori che dopo due ascolti li dimentichi o li metti in lista d’attesa nei giorni che sei depresso come loro. Ed invece questi Country Westerns sono un trio che tira come una locomotiva evocando i primi Replacements, senza un attimo di tregua nel rinfrescare un alternative rock che è sangue, sudore e polvere da sparo.




 THE WOOD BROTHERS   Kingdom in my Mind. Questo è il disco che se uno vi chiede, che genere fanno? Rispondete, non lo so. Ed è questo il bello perché i Wood Brothers mischiano tante cose senza farle assomigliare a niente. Stralunatezze da anni settanta, divagazioni pianistiche, accenni (ma solo accenni)prog, attitudine jam, strambe filastrocche psycho-folk, pop maleducato, cori soul, ritmi in levare e chitarrine acide come un limone. Boh, but i like it.




THE THIRD MIND  The Third Mind LSD non è più di moda ma se uno volesse tornare a voli pindarici questa è la giusta colonna sonora per il viaggio. Dave Alvin con altri tre inscena una psichedelia blues dilatata e onirica dove vengono ripresi dal passato The Dolphins di Tim Buckley, East West della Paul Butterfield Blues Band, Morning Dew dei Dead in una dimensione di nuova allucinata Super Session.

SUZANNE VEGA   New York Songs and Stories. Ogni tanto viene la malinconia della vecchia New York, quando i club erano pieni di fumo,  sui muri nel quartiere dei macelli lungo l’Hudson River troneggiavano scritte come “suck my cock, boy” e gli ultimi cantastorie del Village cercavano i loro cinque minuti di notorietà con una canzone che Dylan aveva perso per strada. Suzanne Vega con la sua eleganza, delicatezza, bravura canta la sua New York che un pò è anche nostra, anche se l’abbiamo vissuta a distanza e di cui Walk On The Wild Side rimane l'impareggiabile colonna sonora.

E’ tutto, Buon Anno. Speriamo, che la musica dal vivo torni tra noi.

MAURO ZAMBELLINI