lunedì 26 ottobre 2009

Gov't Mule > By A Thread


Difficili e arditi come è loro solito nei dischi in studio, i Gov’t Mule mettono a segno uno dei loro migliori lavori, fatta eccezione per le esaltanti prove live di With a Little Help From Our Friends, The Deepest End e del DVD A Tail of 2 Cities. In studio i Muli non concedono nulla alla scorrevolezza e al “facile sentire”, sono impegnativi, complessi, ostici. Non fa eccezione By A Thread un disco solido come una roccia che richiede parecchi ascolti prima di essere apprezzato, prima di considerarlo uno dei loro lavori di studio più completi. Meno immediato e fruibile del precedente High and Mighty (2005), By A Thread riflette una visione cupa del mondo avvalorata da testi che traspongono una accettazione sconsolata della realtà, quasi un arrendersi davanti a tante ingiustizie e disuguaglianze. Così non sorprende che l’inizio del CD sia affidato a Broke Down On The Brazos, un brano che affronta lo smarrimento psicologico con una durezza e delle piroette sonore che ricordano i King Crimson del Robert Fripp più sperimentale se non che, in scena, c’è la chitarra ferrosa e tetra di Billy Gibson ad aiutare Warren Haynes mentre il basso di Jorgen Carlsson spara un granitico funky post-atomico.
Un inizio muscoloso che si ripete nel seguente Steppin Lightly dove è ancora Jorgen Carlsson, un mattatore per tutto il disco, a dare il drive con il suo mostruoso basso mentre Haynes canta da disperato e schitarra come un ossesso. Roba pesante, dura da digerire, hard-rock, free e funky invecchiati nell’acciaio.
Più fruibile è l’unica cover del disco, il traditional Railroad Boy qui trattato con una sapiente vena celtica che permette al batterista Matt Abts di ergersi in tutta la sua potenza e ai Muli di inscenare finalmente una di quelle ballate rock per cui sono famosi, contorta quanto si vuole, aspra e massiccia ma alla fine epica e grandiosa. Una delle tracce migliori del disco.
Poi si ritorna al muro di suono di cui i Muli sono capaci con architetture sonore complesse, trovate strumentali, tecnica e una forza esecutiva impressionante. Prendete ad esempio Monday Morning Meltdown una cantilena funerea che sembra fare da sfondo ad un film catastrofico sulla fine del mondo, una specie di preghiera riguardo ai peccati dell’America del dopo 11 settembre caratterizzata da un contorsionismo strumentale che nella parte fanale si stempera in una accattivante linea di chitarra jazz. Otto minuti, una lunghezza abituale per i Muli, che si ripetono in Inside Outside Woman Blues#3, un blues lordo che dispiega tutto l’armamentario tecnico-strumentale del gruppo con Haynes che fa l’Hendrix, la sezione ritmica che mette a soqquadro una fabbrica siderurgica e le tastiere di Danny Louis che sibilano come un serpente dietro le note della chitarra. E’ un torch-blues contorto e sofferto che all’inizio incede lento e pesante come un pachiderma per poi liberarsi nel finale in un assolo di Gibson di altissima qualità in cui si respira tutta la classicità del Chicago blues.
Altri otto minuti con Scenes From A Troubled Mind, titolo azzeccato per un brano che parte lento e poi schizza nervoso dietro un furente rock zeppeliniano per poi ritornare all’insana tranquillità originaria. Una parvenza di normalità la offre World Wake Up, canto di speranza sulle sorti del pianeta contrassegnata dall’andamento pacato, dal tono riflessivo e dalla voce compassionevole di Haynes. Una auspicata richiesta di armonia e tolleranza dopo tante cupezze, chiusura di un disco che mostra una non banale divagazione reggae-soul (Frozen Fear) sulla falsariga della loro geniale versione dub di Play With Fire degli Stones ed una di quelle ballate (Forevermore) che trasudano l’eroismo del rock.

By A Thread non è un disco perfetto e nemmeno consolatorio ma è un atto di lucida coerenza da parte di uno dei gruppi più coraggiosi, originali ed innovativi del recente rock/blues.

Mauro Zambellini Ottobre 2009

GOV’T MULE
By A Thread
Provogue
***1/2


giovedì 22 ottobre 2009

Ian Hunter > All American Alien Boy


Non è un disco nuovo e nemmeno una ristampa dell’ultima ora ma quando le cose sono belle il tempo conta relativamente. Questo di Ian Hunter è un signor album, il secondo dopo aver abbandonato i Mott The Hoople, un gruppo troppo spesso assimilato al glam ma ricco di intuizioni e di lungimiranti esplosioni rock. Pubblicato nel 1976 All American Boy mette in risalto la voce di Hunter ed il suo senso della ballata, cosa che gli deriva dall’aver cominciato come folkie e soprattutto con l’essere da sempre un grande estimatore di Bob Dylan. Il suo senso della ballata, il suo erratico stile poetico, la sua lunatica ispirazione hanno fatto di lui un rocker atipico capace di ammaliare con brani dondolanti e romantici spesso accompagnati dal pianoforte e nello stesso tempo di eccitare con un rock sguaiato, anfetaminico, chitarristico, a cavallo tra Bowie e Rolling Stones e già prefiguranti un certo atteggiamento punk.
Il suo status di rocker ha conosciuto momenti felici specialmente tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ottanta con dischi quali You’re Never Alone With a Schizophrenic dove tra i musicisti spiccavano i nomi di Mick Ronson, John Cale e i due E-Streeters Roy Bittan e Max Weinberg e con l’energico live Welcome To The Club ma tra le sue opere migliori c’è sicuramente All American Alien Boy recentemente ristampato con sei bonus tracks prese tra out-takes e single version. Lo si può trovare anche in una versione giapponese di medio costo con una bella confezione ed un booklet ben informato.
Fatelo vostro perché Ian Hunter sciorina ballate di gran classe, è il caso di Letter To Britannia From The Union Jack, la pianistica Irene Wilde, la sublime You Nearly Did Me In, il midtempo di Apathy 83, la dylanesca God e rockacci sporchi di rossetto e birra (Restless Youth e All American Alien Boy) con tanto di sax rabbiosi (David Sanborn), trombe (Lewis Soloff) e tromboni che fanno molto R&B da locale malfamato. Il disco è un perfetto incrocio tra melodie british e sound americano (fu registrato agli Electric Lady Studios di New York) e ha una inconfondibile matrice urbana che richiama album come Transformer di Lou Reed e in qualche ballata anche Blood On The Tracks di Dylan...
Ma Hunter sfugge alle catalogazioni perché, come succede in un brano come Rape, nello stesso pezzo è possibile incontrare simultaneamente il folk-rocker, il cantante alla Randy Newman, lo storyteller rapito dalla luna ed il David Johansen delle notti newyorchesi, ripulito dopo la sbornia con le New York Dolls. Come Johansen e Lou Reed Ian Hunter rappresenta un pezzo degli anni settanta, quel rock metropolitano a metà tra redenzione e vizio, tra cielo e bassifondi, tra chitarre tagliabudella e un pianoforte immalinconito che ha fomentato la fantasia di tanti rock fans fulminati dal suono elettrico delle ballate e dalla cruda poesia della west side.
Di grande levatura i musicisti che accompagnano Hunter in questo lavoro: si va dal compianto Jaco Pastorius al basso a Chris Stainton al piano, da Ansley Dunbar alla batteria a Gerry Weems alla chitarra e poi i fiati di Soloff (Blood,Sweat and Tears) e David Sanborn.
Non lasciatevi fuorviare dai riccioli, il giubbino sciancrato ed il glamour di copertina, qui di zeppe, suoni di plastica e velvet goldmine non c’è ombra, solo rock e del tipo migliore.

Mauro Zambellini

mercoledì 14 ottobre 2009

Crossroads #1


Strade che si incrociano. L’esperienza artistica dimostra che la creatività non è quasi mai frutto del caso e dell’individualismo fine a sé stesso ma il risultato di sinergie. Contano si il genio e il talento personale, si pensi ad esempio a Hendrix e Dylan, ma a volte i grandi risultati scaturiscono da un incrocio di idee, uomini e azioni che si verificano nel posto giusto e al momento giusto.
Quello che successe agli albori degli anni settanta attorno ad una comunità artistica per molti versi “minore” ovvero quella della coppia Delaney and Bonnie Bramlett ne è un esempio. Una comunità di musicisti e cantanti che diede vita ad un sound in grado di influenzare diverse esperienze artistiche e relative produzioni musicali tanto da lasciare un segno in dischi divenuti specchio di un’epoca come Mad Dogs & Englishmen e Layla.
Un contagioso virus musicale che a macchia d’olio interessò artisti diversi, sia americani che inglesi, affascinati dall’idea di una musica che nasceva sullo sfondo di un Sud incontaminato e ancora da scoprire dove il rock si mischiava col blues ma erano i cori gospel e le voci country-soul a produrre un sound che sembrava nato per essere la colonna sonora di una comune di hippies itinerante e festaiola dove non esistevano ruoli e gerarchie ma solo un gran voglia di stare assieme. Forse è da lì che Dylan prese l’idea per la sua Rolling Thunder Revue, certo è che Delaney and Bonnie furono involontari catalizzatori di eventi a loro modo rivoluzionari.
Inventarono una sorta di southern music che precedette lo stesso southern rock e coagularono attorno a sé musicisti di grande richiamo come Eric Clapton, Joe Cocker, Dave Mason, Leon Russell, Duane Allman in una fase cruciale della loro avventura artistica.
Molti hanno riconosciuto in questo incrociarsi di idee, persone e suoni l’influenza di un disco come Music From Big Pink di The Band per via di quella nostalgica visione di un America pastorale e bucolica che si portava appresso, in un momento in cui le grandi utopie degli anni sessanta erano in crisi e il guardarsi indietro sembrava offrire qualcosa di più rassicurante.
Dylan tra le isolate montagne di Woodstock, nei luoghi in cui fu concepito il primo album di The Band era poi la metafora dell’artista in fuga dal successo e dal clamore, uno stato d’animo condiviso da tanti musicisti divenuti star negli anni del rock psichedelico e del british boom. Eric Clapton era uno di questi.

Nel 1969 Eric Clapton si trova ad un bivio della propria carriera: stabilite le proprie credenziali di bluesman con i Bluesbreakers di John Mayall e assurto a Dio della chitarra con i Cream, egli vive invischiato in uno stardom di cui fatica a capire meccanismi e logiche (cosa che capirà benissimo anni più tardi). La breve esperienza col supergruppo dei Blind Faith, idolatrati più per il nome dei componenti che altro, non ha fatto che aumentare il suo disagio e l’insofferenza verso una musica che non sente sua. Vive prigioniero di uno status che gli impedisce qualsiasi evoluzione e proprio l’ascolto di Music From Big Pink gli apre un mondo musicale per lo più sconosciuto, l’esistenza di una musica non più basata su lunghi assoli plateali e pezzi chilometrici ma “povera” e spartana, quasi sottodimensionata, con la canzone non sottomessa alla tecnica strumentale. Un rock di basso profilo contaminato dal folk, che sembra il mezzo ideale per ripensare la propria musica e contemporaneamente defilarsi prendendo le distanze dal grande carrozzone del pop.
La molla per il cambiamento gli viene offerta da Delaney and Bonnie Bramlett, che con la loro band sono il supporting act del tour dei Blind Faith e sul cui bus Clapton si trova immancabilmente a viaggiare perché stanco dello spirito da competizione che invece si è instaurato all’interno del supergruppo inglese. E’ a suo agio con la camaraderie che lega i singoli musicisti della band dei Bramlett e affascinato dalla informale e disinvolta miscela di gospel, country-blues e southern soul che essi suonano, ne apprezza l’onestà e il gusto da cucina casalinga. Diventa amico di musicisti stagionati ed esperti come il tastierista Bobby Withlock, il bassista Carl Radle, il batterista Jim Gordon, il percussionista Tex Johnson, il sassofonista Bobby Keys, il trombettista Jim Price ( entrambi seguiranno poi i Rolling Stones ) e la cantante Rita Coolidge.
Il tour dei Blind Faith finisce nell’agosto del 1969 e Clapton passa il resto dell’’anno a lavorare a una serie di progetti mirati a potenziare più il suo lavoro di musicista che la sua fama. Si unisce come sideman agli stessi Delaney and Bonnie per il tour europeo e ne assorbe la loro musica, straordinariamente collettiva e specchio di una famiglia che vive e lavora on the road. E’ un sound molto diverso dal british-blues dei Bluesbreakers e dal power rock-blues di Cream e Blind Faith, si suona a briglia sciolta come in una jam ma le voci evocano il soul e il gospel delle funzioni religiose battiste e c’è una libertà e un anticonformismo che è tipica della musica sudista. Tre chitarristi, tra cui il Traffic Dave Mason, doppie percussioni, trombe e sax, l’organo di Bobby Whitlock e una cascata di voci, il sound di Delaney & Bonnie & Friends On Tour with Eric Clapton (Atco, 1970) è un’orgia di suoni e di voci che gode del lavoro alla consolle di Andy & Glyn Johns (non a caso li ritroveremo in Exile On Main Street, disco che deve molto a questo sound “impiastricciato”) e viaggia sulle strade dell’ultima illusione comunitaria degli anni sessanta. Un coacervo di umori che costituisce il modello del grande carrozzone circense di Mad dogs and The Englishmen di cui fanno parte i musicisti della Bramlett band ovvero i soliti Leon Russell, Jim Gordon, Carl Radle, Rita Coolidge , Jim Price e Bobby Keys più il tastierista Chris Stainton, il chitarrista ritmico Don Preston, i percussionisti Chris Blackwell, Sandy Konikoff e Bobby Torres e il batterista Jim Keltner. Oltre naturalmente al leader Joe Cocker e ad un copioso coro di voci . L’idea è quella di ricreare l’atmosfera goliardica da itinerante festa hippie con una band che lasci spazio ai solisti e alle performance individuali e poi si tramuti in un caravanserraglio di potente rock-soul con cover che hanno fatto la storia del pop come Honky Tonk Woman, the Letter, The Weight, Let it Be, Something, Give Peace a Chance, I’ve Been Loving You Too Long,soprattutto Feelin’Alright che funge un po’ da manifesto filosofico-spirituale dell’operazione.
Il tentativo è quello portare in giro per qualche mese ( 65 concerti in 57 giorni) una idea del rock utopica e libertaria, con coreografie da spettacolo circense e modalità da revue di black music. Un progetto ideato da Denny Cordell e Leon Russell che riesce e anticipa quella che sarà la più “colta” e sbandata Rolling Thunder Revue ma che finisce presto tra i litigi, dopo aver regalato un memorabile Joe Cocker Mad Dogs&Englishmen, film e disco live registrati nella primavera del 1970 al Fillmore East di New York e al Civic Auditorium di Santa Monica.
La recente pubblicazione nella serie Deluxe Edition curata da Bill Levenson ha ampliato la scaletta del disco originario aggiungendo fondamentali innesti quali The Weight ( ennesima connessione col disco di The Band), Something, Darling Be Home Soon dei Lovin’Spoonful, Further On Up The Road, Hummingbird e Dixie Lullaby di Leon Russell e il cavallo di battaglia di Cocker With A Little Help From My Friends.

Ma è Eric Clapton a servirsi maggiormente della collaborazione di Delaney e Bonnie Bramlett allorché inizia a lavorare al suo primo disco come solista agli Olympic e Trident Studios di Londra verso la fine del 1969. Nel gennaio del 1970 si sposta poi a L.A al Village Recorders e con Delaney nelle vesti di produttore, Leon Russell al piano e il resto della ciurma come band realizza l’ omonimo Eric Clapton (Atco 1970, anch’esso ristampato in Deluxe Edition), una delle performance vocali più rilassate del musicista inglese, un disco che per atmosfere e sonorità è lecito accostare a 461 Ocean Boulevard. Un irresistibile groove fluido e bluesato è il tappeto su cui scorre il disco, frasi chitarristiche morbide e un tono quasi conversazionale, quel laid back diventato sinonimo dello stile di manolenta. Artefice di un tale sound è la Fender Stratocaster che sostituisce la più dura Gibson ma fondamentale è anche la presenza della band di Delaney e Bonnie, l’uso delle voci gospel, l’Hammond invadente, lo spirito da jam band con cui vengono effettuate le registrazioni e la coralità dell’insieme. Oltre ad un songwriting in grado di regalare grandi canzoni ( Let It Rain ad esempio), passo decisivo nella trasformazione di Clapton in rocker a tutto tondo.
L’album Eric Clapton uscì nell’agosto del 1970 ma non risolse del tutto l’ambivalenza di Clapton nei riguardi dello star system visto che il chitarrista scartò l’ipotesi di promuovere il nuovo disco col proprio nome ma si camuffò da sideman col nome di Derek. Assieme ai fuoriclasse della Bramlett band ovvero il tastierista Bobby Whitlock, il bassista Carl Radle e il batterista Jim Gordon, diede vita a Derek and the Dominos, un potente quartetto che per qualche tempo dominò il campo del rock-blues anticipando l’arrivo della Allman Bros Band.
Clapton rivestì una posizione in Derek and The Dominos che assomigliava a quella nel tour con Delaney and Bonnie ovvero evitava di essere il leader e lentamente prendeva confidenza con il ruolo di cantante (nei Cream la voce era Jack Bruce e nei Blind Faith Steve Winwood), dividendo parecchie armonie vocali con Whitlock e sperimentando assolo dopo assolo la sua doppia veste di cantante e chitarrista.
Il risultato è documentato da In Concert un disco live uscito solo nel 1973 e ristampato ventanni dopo dalla Polydor nella seria Chronicles col titolo di Live At The Fillmore, un doppio cd con versioni da pelle d’oca di Presence Of The Lord dei Blind Faith, di Let It Rain (diciotto minuti compreso un estenuante assolo di batteria), di Little Wing di Hendrix, di Blues Power e con una Crossroads rallentata in modo divino.
La maggior parte del materiale di quel live si basava sul capolavoro in studio di Derek and The Dominos ovvero Layla and Other Assorted Love Songs (Atco,1970) un album epocale che nell’occasione del suo ventesimo anniversario ha beneficiato di una riedizione in box di tre cd, The Layla Session (Polydor, 1990), con una valanga di jam e materiale inedito.
“All’inizio sembravano più che altro tentativi, Bobby Withlock aveva due o tre canzoni, Clapton un paio di blues mentre Carl Radle si portò dei vecchi dischi di Chuck Willis. L’arrivo di Duane Allman catalizzò i Dominos in una esplorazione libera e disinibita nei suoni del blues e del soul. Non era una confezione da studio ma una vera rock n’roll band e l’atmosfera che si respirava era di quelle che chiudono un’era con un capolavoro. Certo, circolava un sacco di droga ma tutti erano giovani e l’effetto era quello eccitante della creazione e del coinvolgimento comune”. Così il produttore Tom Dowd presentò le sessions che diedero vita all’album, fondato sulla sognante e romantica Layla, il cui celebre assolo di chitarra fu il frutto dell’intervento di Duane Allman. Un album epico nella sua bellezza e uno dei punti più alti raggiunti allora nella contaminazione tra blues e rock psichedelico.

La storia di quell’ album comincia qualche tempo addietro quando Delaney e Bonnie Bramlett sono alle prese ai Criteria Studios di Miami per la registrazione del loro From Delaney to Bonnie With Love (Atco,1970). Il produttore Jerry Wexler, che abitava nelle vicinanze di Miami, fu chiamato da Delaney per contattare Ry Cooder, il quale avrebbe dovuto suonare la slide in un paio di brani. Cooder era indisponibile perchè occupato in altri progetti e allora Wexler disse a Delaney che il problema non sussisteva perché conosceva chi servire al caso. Ai Criteria Studios arrivò così Duane Allman che con la sua slide abbellì Soul Shake aumentando il tasso southern di un disco che già poteva contare sul piano di Jim Dickinson e sui fiati dei Memphis Horns.
Durante quel periodo arrivò ai Criteria Studios anche Eric Clapton per registrare con Derek and The Dominos. Clapton, amico di Delaney and Bonnie, fece così conoscenza di Duane Allman.
Tom Dowd che aveva il compito di produrre il nuovo lavoro di Clapton capì subito che i due chitarristi erano in sintonia e organizzò un meeting non appena gli Alman arrivarono a Miami per uno loro gig. Nell’agosto del 1970 due tra i più grandi chitarristi del rock entrarono in contatto diretto coi loro strumenti, Clapton e Duane Allman, talvolta accompagnati dagli altri musicisti a volte soli, trascorsero due giorni e due notti a provare e jammare sui brani di blues e R&B che più amavano. Dowd registrò la prima jam dei due insieme e Gregg Allman, ammise poi che quella fu una delle migliori performance nella vita di suo fratello Duane.
Clapton si trovava a Miami per registrare un album e fu quindi naturale chiedere la collaborazione di Duane nella registrazione di Tell The Truth. Lo si sente nel secondo assolo di slide e lo si sente in Key To The Highway. La presenza di Duane fu decisiva, sebbene pensasse che il suo contributo fosse limitato a due o tre tracce, Clapton lo coinvolse in tutto il disco. Interruppe le sessions per qualche giorno per suonare assieme alla Allman Bros.Band ma subito dopo ritornò in studio a finire l’album di Derek and The Dominoes.
L’epicentro di Layla & Other Assorted Love Songs è costituito dalla lunga suite-canzone Layla scritta da Clapton per esorcizzare i suoi turbamenti d’amore per la moglie dell’amico George Harrison. La canzone venne scritta come una soffice e lenta ballata ma quando Duane sentì Clapton suonarla capì immediatamente che mancava di energia e di un impatto rock maggiore. Duane suonò il riff conduttore della canzone mentre la tormentata voce di Clapton si avvolgeva attorno al driving chitarristico dell’Allman. Qui, in Layla la contro-melodia di Duane evoca il pianto di un uccello ragione per cui i Lynyrd Skynyrd dedicarono Freebird al loro guitar-hero per eccellenza.


Se si analizzano i dischi citati fino ad ora si vede come i musicisti coinvolti e l’incrocio di suoni ed esperienze derivino tutte dal giro di Delaney and Bonnie Bramlett. La coppia si incontrò per la prima volta a Los Angeles nel 1967, Bonnie Lynn era nata nel 1944 nell’Illinois e aveva lavorato nelle Ikettes di Ike and Tina Turner mentre Delaney Bramlett (Mississippi,1939) aveva bazzicato il giro di Leon Russell e J.J Cale per poi militare prima nei Champs e poi nei Shindogs. I due si sposano subito dopo essersi conosciuti e firmano per la Stax con cui incidono i dischi migliori. Lavori non trascendentali ma depositari di un suono che traeva origine dal sud degli Stati Uniti e miscelava in modo originale soul e gospel, blues e rock, country e R&B rispettando la cultura e gli umori di quella regione ma apportando un verve propria dell’ambiente hippie urbano. Home (Stax,1969) recentemente ristampato dalla Universal con sei inediti è il disco che più attesta della loro vena southern soul con invitati del calibro di Isaac Hayes, Eddie Floyd, Steve Cropper, Donald “Duck” Dunn, Al Jackson, Booker T.Jones e i Memphis Horns ovvero la crema dello Stax sound per un disco di viscerale R&B dove la voce “jopliana” di Bonnie risalta in tutta la sua espressività.
To Bonnie from Delaney With Love ( Atco.1970) insiste sullo stesso schema e mette in luce la produzione southern style dell’abbinata Jerry Wexler-Tom Dowd e inoltre la slide di Duane Allman e il piano di Jim Dickinson, nomi che hanno dato legittimità musicale al sud creando un sound ancora oggi imitato..
Oltre al già citato On Tour with Eric Clapton non si può ignorare Motel Shot (Atco, 1971) uno splendido disco acustico che non è azzardato considerare come l’antesignano di tutti gli unplugged. Purtroppo non è ancora stato ristampato ma chi lo trovasse in vinile non se lo lasci scappare visto che si tratta di un autentico gioiellino. E’ basato su un concept ovvero le stanze di motel a basso costo, spersonalizzate e anonime che la band (e le band) si trovava a frequentare durante i tour. In questi spazi freddi e squallidi, comuni a tanti alberghi i musicisti si trovavano spesso ad occupare il tempo improvvisando musica con strumenti acustici raffazzonati, tamburelli, lattine e bottiglie, chitarre acustiche, a volte un piano scordato abbandonato nella hall del motel. Motel Shot è il tentativo di ricreare l’atmosfera rilassata e informale di quei momenti umanizzando i tempi vuoti di una band on the road. Musica calda e amichevole quindi, da suonare tra il letto, il lavandino e l’ anticamera, un gospel-soul da stanza d’albergo intriso di melodie country, con versioni di “basso profilo” e alta qualità di classici quali Will The Circle Be Unbroken , Rock Of Ages, Come In My Kitchen, Faded Love e una superlativa rivisitazione di Going Down The Road Feeling Bad con piano e slide da favola.
Vi partecipano tutti i membri della band di Delaney and Bonnie che sono poi i protagonisti di questi crossroads compresi Duane Allman, Leon Russell, Dave Mason e l’enfant prodige Gram Parsons.
Era il 1971 e quel disco così defilato e poco rinomato in cui si ritrovavano i musicisti “nascosti” che avevano dato vita a capolavori come Layla, Mad Dogs and Englishmen e Clapton, col suo carico di malinconia e di suoni caserecci sembrava chiudere un epoca. Nelle stanze di un motel di una qualsiasi highway americana si consumava definitivamente il sogno di una musica comunitaria e fraterna, utopica anche, che non riconosceva leader e ruoli, gerarchie e barriere di ogni genere, razziali o stilistiche e che aveva come prerogativa principale lo star bene insieme, il dividere la vita sulla strada. Nella stanza di un motel venivano definitivamente archiviati gli anni sessanta con tutte le loro utopie, da quel momento in poi il rock non sarebbe stato più così innocente.

Mauro Zambellini

domenica 4 ottobre 2009

i più selvaggi del 1978


i preferiti di Mauro Zambellini, anno 1978

Little Feat > Waiting For Columbus
Bruce Springsteen > Darkness On The Edge Of Town
Dire Straits
Lou Reed > Take No Prisoners
Mink DeVille > Return To Magenta
Tom Waits > Blue Valentine
Joan Armatrading > To The Limit
David Bromberg > My Own House
Patti Smith > Easter
John Lee Hooker > The Cream
Dusty Chaps > Domino
Grape > Live
Albion Band > Rise Up Like
Ry Cooder > Jazz

da il Mucchio Selvaggio n 16, febbraio 1979