martedì 30 agosto 2011

Red Wine Serenaders


THE RED WINE SERENADERS > D.O.C  (Totally Unnecessary Records)

Gli americani hanno gli Old Crow Medicine Show, noi abbiamo i Red Wine Serenaders. I primi hanno un tiro rock/punk più pronunciato ma i secondi rileggono la tradizione popolare rurale americana degli anni '20 e '30 con un amore ed una vivacità che li rende coinvolgenti e spiritosi anche quando recuperano una bacucca canzone di cowboy. Sono un caso più unico che raro alle nostre latitudini e anche l’ Europa si è accorta di loro perché suonano spesso in Francia ed in paesi limitrofi ed oggi sono la più bella realtà europea in fatto di country-blues, ragtime, hokum e jug-band music.
Il nuovo lavoro non esce come il precedente a firma Veronica and Red Wine Serenaders ma solo col nome della band , a suggello di una maturità in termini di affiatamento e sarabanda collettiva che ormai, dopo quattro anni di lavoro, fonde in modo armonico le personalità, le complicità e i contributi individuali dei quattro musicisti coinvolti.
Musicisti di prima scelta sia nel feeling che nella tecnica, a cominciare dalla spigliata e spiritosa front-woman, la cantante Veronica Sbergia specializzata in ukulele, kazoo e washborad e poi dalla effervescente contrabbassista jazzy Alessandra Cecala, anche lei cantante e dai due chitarristi oltre che cantanti, il formidabile Max De Bernardi un vero maestro delle corde in grado di giostrare con brillantezza mandolino, ukulele, chitarre acustiche e resofoniche e Mauro Ferrarese un montanaro appassionato di chitarre e banjo che ha l’ardore di traghettare nella old time music dei R.W.S un background di provata fede rock.  
D.O.C il nuovo disco dei R.W.S è un cocktail di sonorità e feeling che portano in superficie una America rurale e profonda attraverso un crogiolo di musiche calde, coinvolgenti, evocative, misteriose e arcaiche ma ancora in grado di trasmettere emozioni se rilette ,come fanno i Serenaders, con freschezza, imprevedibilità, rispetto e quello spirito guascone che li rende adatti ad interpretare i tempi moderni. Come per esempio It Calls That Religion un testo di denuncia degli anni ’30 calato in una tematica oggi più che mai attuale..
D.O.C è un piccolo disco di grande musica che diverte, accultura e racconta un pezzo di storia musicale americana con l’onestà, la bravura e la semplicità degli artigiani e l’allegria dei bevitori di vino. Tredici tracce, ognuna una storia, ognuna un contante diverso, dalla spumeggiante Veronica Sbergia alla maliziosa Alessandra Cecala, dal disincantato Mauro Ferrarese al rigoroso Max De Bernardi. Si comincia con la jug music di On The Road Again e si prosegue con il divertente swing di Just As Well Let Her Go e con un classico del blues quale I’d Rather Drink Muddy Water dove De Bernardi mostra tutto la sua sapienza in fatto di corde acustiche. Out on the Western Plains è una gustosa ed ironica rivisitazione da parte della Cecala di un brano eseguito da Leadbelly (ma lo faceva anche Rory Gallagher) e di Leadbelly c’è anche Linin’’Track qui in versione lunare e country-goth degna dei primi 16 Horsepower. Non mancano le ballate come la dolce When It’s Darkness on the Delta e la notturna Lotus Blossom mentre l’ukulele impazza nel vecchio traditional You Rascal You dove sembra di essere davanti ad una vecchia radio degli anni ’30 che trasmette canzoni da qualche WLAC di Nashville o da qualche sperduta stazione degli Appalchi .
In Did You Mean a firma Casey Bill Weldon c’è tanto sapore di Leon Redbone, In My Girlish Days c’è tutta Memphis Minnie con una superba interpretazione vocale di Veronica, 8, 9 & 10 è string-band music nella sue definizione più pura e Samson & Delilah è riletta in maniera corale come sarebbe piaciuto alla Seeger Session Band.
Old Time Music for Modern Times a denominazione di origine controllata, invecchiata in barile e pronta da bere. In alto i calici per i Red Wine Serenaders.
Una menzione speciale per il lavoro fotografico di Marcus Tondo che oltre agli scatti si è occupato anche dell’armonica.

MAURO ZAMBELLINI

sabato 13 agosto 2011

Mangiafuoco


Non voglio rubare il lavoro ad Armadillo Bar, università del vino e del savoir vivre ma questa volta parlo di un vino anzi di una piccola cittadina che si chiama Concordia Sagittaria, antico insediamento romano a pochi kilometri da Portogruaro. Qui ai margini della laguna a nord di Venezia ovvero nella Louisiana d’Italia pulsa una qualità della vita che per me che vengo dall’intasato nord-ovest è benessere allo stato puro. Innanzitutto le città, Portogruaro in primis ma anche Concordia sono proprio belle, pulite, ben tenute, amministrate bene e tranquille, un mix di storia passata e way of life moderna, retaggio nobile e spirito efficiente che si rispecchia nei suoi abitanti o almeno nella maggior parte di essi, affabili, socievoli, spesso colti ma non spocchiosi, curiosi, goduriosi e perfino laboriosi, cosa che va sottolineata perché certe volte goduria e labor suonano come un ossimoro. Siamo all’estremo est del Veneto ai confini del Friuli ma qui la Lega non è padrona ed il suo credo oscurantista non ha attecchito più di tanto perché qui, come si può vedere la mattina della domenica, la società è divisa in due: chi va in chiesa e chi va all’osteria. È questo il bipolarismo di Concordia, non sorprende quindi che fra quelli che frequentano l’osteria ci siano anche degli eretici che hanno coniugato l’ombra de vin  coi suoni del rock n’ roll, veterani inossidabili che ho incontrato nei lontani giorni del Mucchio Selvaggio ovvero metà anni ’80 e poi sono diventato amico tanto che l’amicizia oltre a durare nel tempio si è allargata a macchia d’olio ed ormai conosco più gente lì che nel luogo dove abito. In questa landa di concordia, di vino e di prelibatezze gastronomiche, in primis le eccelse ed inarrivabili sarde in saor,  ad una cinquantina di km da Udine ovvero dal luogo dove il bulletto dell’Indiana si è rifiutato di suonare perché non consono alle sue esigenze di star (ed erano in tanti ad aspettarlo ora delusi ed indignati)  c’è un locale (un pub?, una pizzeria? Un ristornate? Un bar?) dove grazie alla passione di uno che si chiama Walter Fiorin e ha l’unico difetto di essere juventino il rock ha trovato un posto di ristoro adeguato. Il locale si chiama Sacco&Vanzetti River Cafè e basterebbe il nome per capire di cosa si tratta se non ci fossero poi le tovagliette di carta zeppe di aneddoti cinematografici, letterari e musicali ma se ci andate a mangiare e bere capirete cose della vita che prima solo immaginavate e magari vi sentirete raccontare che tra quelle mura di pub un po’ irlandese e un po’ di osteria veneta oltre al soul food da laguna del cuoco Gigi, presidente della confraternita dell’aringa, hanno suonato tra gli altri i Cheap Wine, gli Wind in versione acustica, Graziano Romani, Luigi Majeron, Angelo “Leadbelly” Rossi e nel futuro approderanno i Red Wine Serenaders e magari anche Bruce che nella parete vicino al bancone è immortalato in una foto col paròn Walter.
A Concordia Sagittaria ogni prima settimana di agosto va in onda la festa di S.Stefano, una di quelle feste che si vedono solo al sud tanta gente c’è e tante luci ci sono ma per fortuna lì il tasso laico ed eno-gastronomico è di gran lunga superiore al delirio religioso delle processioni meridionali. C’è la fiera come si conviene ad una festa di origine contadina coi trattori in esposizione, tante stufe a legna in vendita, le pulitrici per casa e i tagliaerba, il miele e i prodotti naturali, le creme per dimagrire/snellire/ringiovanire/tonificare, proprio come in un medicine show del vecchio west e poi una lunga fila di posti ristoro dove si può mangiare di tutto, dal fritto misto alla trippa, dai bratwurstel della Turingia alla soppressa, dalle costine alla polenta, dalle seppioline al baccalà. Insomma una babele della gola che termina con la consueta sparata di fuochi d’artificio nell’ultima serata di festa, a cui fa seguito una sbronza di massa per quanto riguarda i giovani ed un piccolo privè  al lato della piazza dove un tale Loris Mussin presenta il suo vino biodinamico e medicinale per il corpo( a detta dello stesso quando l’influenza invernale assale basta bersene una bottiglia e coricarsi ed il mattino dopo sarà  un’altra storia, di assoluto benessere) chiamato Mangiafuoco. E’ un vino Merlot che Mussin definisce garage wine perché  fatto rigorosamente e spartanamente in casa, prodotto in quantità limitata con tutti i crismi della sostenibilità eco-ambientale, non  in vendita e bevuto ad agosto alla festa di S.Stefano dopo essere stato in barrique per un anno e aver assorbito i sapori  della cantina o meglio del garage. E’ un rosso superbo, rotondo, di profumi ancestrali, profondo e avvolgente, ricorda il Tignanello ma ha un carattere tipicamente nord-est, sa di bora e di quella terra che lambisce il mare ma si mischia con le acque dolci, gli acquitrini, le paludi salmastre, la campagna e la Brussa. E’ il primo grande rosso blues d’Italia, un vino che si accompagna a carni e pesci grassi come le sarde, l’anguilla, lo sgombro ed esige il sottofondo di un Bob Seger d’annata, preferibilmente Night Moves, di un John Lee Hooker,  del John Hiatt di Bring The Family, del Warren Haynes di Man In Motion, del DeVille di Miracle e di Shine di Joni Mitchell.
Gran posto l’Italia, nonostante tutto.

MAURO ZAMBELLINI

domenica 7 agosto 2011

Narcao Blues Festival 2011

È il secondo anno consecutivo che vado a Narcao un luogo perso in mezzo al nulla del Sulcis-Iglesiente ovvero estremo sud della Sardegna che da 21 anni organizza il blues festival più a ovest d’Italia. Il luogo sa molto di west americano, montagne, arbusti, eucalipti, fichi d’india, macchie verdi che si mischiano al marrone della terra arsa dal sole, pecore, silenzi e strade vuote che vanno dritte al mare, lontano una trentina di kilometri, passando da villaggi che più che l’Italia ricordano il Messico. E’ un posto suggestivo e ci torno sempre volentieri anche perché gli appassionati volonterosi di Narcao con la loro ciurma di giovani volontari ogni anno mettono in piedi una rassegna che oltre ad essere l’evento dell’anno di quelle terre dimenticate e colpite dalla crisi è anche una festa del blues, della musica, delle sorprese e delle buone vibrazioni. Centra eccome un’organizzazione che pur professionale mantiene i crismi della passione e dell’amatoriale e stabilisce quel rapporto molto understatement che fa sì che una rassegna non sia solo una esibizione di nomi quanto mai importanti ma una occasione di festa. Venite a sentire il calore del blues strillava il manifesto della XXI edizione di Narcao Blues e così è stato.


Il festival è iniziato il 20 luglio con una serata tutta dedicata al british-blues. Sono saliti sul palco Danny Bryant’s Redeyeband e i redivivi Dr.Feelgood. Il primo, un chitarrista dal fisico imponente e dallo sguardo dolce, coadiuvato dal padre bassista e dallo zio batterista ha dato vita ad un set rauco, sanguigno e aspro dove è risuonato un blue-collar blues bilanciato tra assoli torcibudella e sofferte ballate che sembrano uscite da una città di minatori inglesi colpita dalla crisi. Blues proletario, intenso e sudato con titoli del suo repertorio, Everytime the devil smiles, Love of Angels, Heartbreaker, Last Goodbye e applaudite cover come l’immancabile Voodoo Chile di Hendrix e una bluesata resa di Girl from The North Country di Dylan. Un set, quello di Danny Bryant che ha convinto per onestà e cuore.





Di tutt’altro tenore l’esibizione di Dr. Feelgood. Li credevo dei cadaveri ed invece ho avuto una bella sorpresa. Trainati dal cantante e armonicista Robert Kane, un passato con gli Animals e soprattutto dall’irresistibile chitarrista Steve Walwyn, la vera anima del gruppo, i Dr. Feelgood hanno divertito e catturato il pubblico con un set brillante, veloce, spumeggiante dove si è respirato lo spirito degli esordi, quello spirito che ha reso Stupidity  un piccolo capolavoro del pub-rock. Ritmi serrati e tiro nervoso, fulminei e lancinanti assoli di chitarra, l’armonica che soffia il fuligginoso R&B dei pub inglesi, velocità e sintesi, quello di Dr.Feelgood è stato uno show adrenalinico dove rock n’roll, blues e punk sono stati con la maestria dei pub-rockers di classe. Brani come Hoochie Coochie Man, Milk and Alcohol, Back in The Night, Down by Teh Jetty, Who Do You Love, I Can Tell hanno mischiato passato e presente con frizzante disincanto e hanno messo in evidenza l’attitudine di chi, cinquantenne, suona come un ventenne. Magnifici.



Ma non è stato il loro l’ highlights di Narcao 2011 perchè l’esibizione di Robert Randolph and The Family Band ha scioccato come nessuno osava credere e i clichè del blues sono andati a farsi benedire con una musica che è pura energia jam. Prendete il blues e sparatelo su Marte, mettete Sly Stone a suonare nei Widespread Panic, resuscitate Hendrix e aggiungetelo ai North Mississippi AllStar, centrifugate Led Zeppelin e John Lee Hooker, gospel, funk e rock e lasciate liberi di suonare e improvvisare una band costituita  da tre neri, un bassista che è la quintessenza del groove, un batterista che sembra Buddy Miles e Robert Randolph, mago della sacred steel guitar e voce strappata ad una chiesa battista  e due bianchi, un chitarrista che ritma come fosse nei Talking Heads ed una corista e tastierista, Alaina Terry, che mette gusto, stacchi e sex appeal e avrete uno show sconvolgente, devastante ed unico. Tutti cantano, i tre neri ad un certo punto si scambiano ruoli e strumenti, Randolph incita il pubblico a salire sul palco e ballare, la musica viene giù come un fiume in piena, travolge, è un trance che porta il pubblico a partecipare al sabba e vivere l’estasi.
Robert Randolph ha cominciato come cantante e musicista nelle funzioni religiose ma nella sua chiesa è entrato il diavolo. Orgiastici e pentecostali, innovativi e ancestrali, torrenziali ed ipnotici, Robert Randolph e famiglia hanno metabolizzato 70 anni di black music secondo una visione nuova e apocalittica, lasciando il pubblico senza fiato dopo una lunghissima Blues Jam dove si è sentito di tutto, compreso Voodoo Chile, You Gotta Move  e Whola Lotta Love. Il loro ultimo CD We Walk This Road è prodotto da T-Bone Burnett ma non centra nulla con il loro live-set perchè alcuni titoli del disco come Traveling Shoes, Walk Don’t Walk, Back To The Wall, Dry Bones sono presi, dilatatati, centrifugati, stravolti, riempiti di riff, assoli, ritmi in una micidiale jam music che è una delle cose più eccitanti che mi sia capitato di sentire quest’estate.




Agli antipodi il set di John Hammond Jr. la sera seguente. Qui è andato in scena un blues classico, spartano e rigoroso, con Hammond seduto sullo sgabello a deliziarci con le sue chitarre acustiche e National mentre la band, tra cui il fenomenale organista Bruce Katz, uno specialista dell’Hammond  sottolineava un sound elegante e asciutto che abbracciava Muddy Waters e Bo Diddley, Junior Wells e Walter Jacobs.  Blues, country e urban-blues e quando Hammond soffiava stridulo nell’armonica come il Dylan degli esordi un inconfondibile sentore di antico folk-blues newyorchese.


Al combo italiano dei Red Wine Serenaders è stato affidato il compito di chiudere la 21esima edizione del Narcao Blues prima del ballo collettivo finale al ritmo del funky di Sir Waldo Weathers un sopravvissuto dell’orchestra di James Brown. Con la loro fresca, pimpante e spiritosa rilettura della musica rurale americana degli anni ’20 e 30’, RWS hanno dimostrato di avere talento, gusto e feeling e di sapere aggiornare country-blues, old time e ragtime con una eleganza degna di Leon Redbone. Due donne, la spigliata e surreale cantante Veronica Sbergia, abile con l’ukulele e l’washboard e la maliziosa contrabassista Alessandra Cecala, magnifica quando intona lo yodel lunare di Out on the western planes e due men, il maestro delle corde Max De Bernardi, eccelso con tutto quanto abbia delle corde, dalle chitarre al mandolino, dall’ ukulele al dobro e il barbuto Mauro Ferrarese (chitarre, banjo, National) uno che sembra preso di sana pianta da un ensemble bluegrass di Jerry Garcia compongono un quartetto che rilegge la tradizione americana di blues, old time music, jug band e hokum con l’atteggiamento giovane e disincantato di chi il passato non lo vuole relegare agli archivi ma farlo vivere e pulsare di nuova energia, spirito e modernità. Anche a Narcao i Red Wine Serenaders hanno colpito pubblico, organizzatori e giornalisti per il loro progetto colto e divertente al tempo stesso. Sono bravi a tenere la scena e con gli strumenti, si scambiano le voci e si amalgamano perfettamente, non sono ripetitivi ma fanno della varietà un punto di forza, sono simpatici e hanno feeling quando presentano le canzoni, regalano una lezione di musica tradizionale americana lontana dalle accademie e dalle spocchie. Non predicano ma suonano e divertono. E questo è quello che vuole il pubblico e la musica.