sabato 29 dicembre 2018

MY PLAYLIST OF 2018


 


Come ogni anno, la lista delle cose che mi sono piaciute di più senza nessuna pretesa di indicare gli album più importanti o significativi, solo il piacere di sintetizzare i dischi che mi hanno fatto più compagnia, i più ascoltati dalle mie orecchie. L'ordine è del tutto casuale.

Usciti quest'anno

The Marcus King Band     Carolina Confession  
 

Rock e soul, canzoni che non sono solo un pretesto per jammare, la Marcus King Band è la più brillante  formazione proveniente oggi dal Sud degli Stati Uniti (fans dei Blackberry Smoke permettendo) e i più credibili discepoli di quello storico sound che dagli Allman è traslato prima nei Gov't Mule e nella Warren Haynes Band e poi nella Tedeschi-Trucks Band. Voce alla carta vetrata, chitarra funambolica, band totale, chi li ha visti (e rivisti) dal vivo a ottobre a Milano ne è rimasto folgorato. E non poteva essere diversamente.

The Magpie Salute      High Water I  
 

Anche loro hanno raccolto l'eredità del rock del sud ma quello dei Black Crowes di cui troppo spesso paiono la cover band. A differenza della Marcus King Band, dal vivo, lo scorso novembre a Trezzo, non hanno per nulla esaltato dando il meglio di sé solo in alcune cover (su tutte Oh Sweet Nuthin' dei Velvet Underground) ma questo non toglie che in High Water ci sia lo sforzo per personalizzarsi ammiccando, specie nelle ballate, all' aria serena dell'Ovest e alla psichedelia della Bay Area.

The Record Company    All of This Life    
 

Freschi, spumeggianti, divertenti. Una giovane band losangelena che non segue le mode e affonda la propria musica nel passato rielaborandolo con un piglio moderno, dimostrando che esiste comunque un margine per praticare la classicità con disincanto ed una verve sinceramente rock n'roll. Frullano un rock che si tinge di blues e boogie, amano le sonorità anni settanta e le riversano in canzoni che al fascino antico aggiungono brio e spregiudicatezza, evitando copiature e revival.

Glen Hansard    Between Two Shores   
 

Scampoli di rock celtico, lirismo alla Van Morrison, attitudine da busker, Glen Hansard è un poeta della strada che arriva al cuore per la via principale, quella dell'emozione senza trucchi. Un bardo moderno che canta di homeless e amore con voce soul, orchestra con  gli strumenti del folk e del rock comprese trombe e sassofoni e scrive canzoni che ti regalano un briciolo di speranza, anche in tempi bui come questi. Dal vivo è trascinante e  Between The Shores un perfetto biglietto da visita per chi non lo conosce.

 

Little Steven and The Disciples of Soul   Soulfire Live!
 

Soulfire Live! è uno di quei dischi di cui se ne sentiva un gran bisogno, per rievocare la stagione dei grandi dischi live, in primis gli anni settanta, e per rinfrescare un sound, il Jersey Sound, ormai passato di moda ma ancora in grado di entusiasmare, divertire, eccitare, uno sfavillante party della musica americana tra rock bianco e black music, una festa per le orecchie e il cuore. Little Steven è il capitano di una ciurma di pirati, i Discepoli dell'Anima, che mettono a ferro e fuoco il soul di James Brown e quello di Marvin Gaye, il r&b di Etta James ed il rock-soul degli Electric Flag, gli album di Southside Johnny ed il rock sporco e suburbano degli uomini senza donne. Qui c'è una lezione di musica che solo il fautore del suono di The River poteva offrire, Peccato che in Italia se ne siano accorti in pochi.  

Lucero   Among The Ghosts

Un viaggio tra i fantasmi dell'America profonda, ballate agre, voci dolenti, un senso di mistero e di abbandono, il tutto vestito di un decor country-gotico dalle tinte autunnali. Non molto distanti dai Drive By Truckers ma pervasi da una atmosfera dark che le liriche di Ben Nichols dispiegano in  tutte le sfumature, con canzoni di perdite e di trasformazioni esistenziali. Per chi ama il rock periferico e l'elettricità arruffata, il sound schietto e l'oscurità ai margini della città.

Boz Scaggs      Out Of The Blues
 

Dopo due dischi dedicati al soul, il veterano Boz Scaggs si sposta verso il blues e lo fa con l'eleganza ed il gusto che gli appartengono. Mette in campo titoli poco noti, soulmen dimenticati, bluesmen ignorati, in un blues dalle forme morbide il cui modello è Bobby "Blue" Bland. Lo accompagnano califfi come Jim Keltner, batteria, Charlie Sexton e Doyle Bramhall II, chitarre, più tre sassofonisti. C'è tutto un mondo di blues variegato e rilassato in Out Of The Blues, anche un pizzico di malinconia nella dolente versione di On The Beach di Neil Young. Soprattutto c'è una idea delle dodici lontana dai clichè e dai gesti eccessivi.
 

 

Southside Johnny     Detour Ahead
 

 Se ne sono visti di tributi a Billie Holiday ma questo ha avuto veramente poco risalto, non ne ha parlato quasi nessuno. Forse perché Southside Johnny  come Little Steven vanno bene solo quando si parla del Boss. Eppure Detour Ahead è sublime, un tributo ad una delle grandi lady della musica americana dove il soul sposa il jazz ed il jump blues, e la voce roca e sofferta di Southside Johnny entra nell'anima  delle canzoni di Lady Day creando un pathos di irresistibile bellezza e romanticismo. Con lui è un team di musicisti di estrazione jazzistica che in punta di piedi regalano un mood notturno e fumoso che è il miglior vestito per le canzoni della Holiday.

 

Courtney Barrett     Tell Me How You Really Feel
 

La conoscevo per nome e per qualche sporadico ascolto, per curiosità ho comprato (a Bilbao)  questo disco e sono incappato in certe sonorità che ho molto amato negli anni ottanta e novanta. Parlo di quel rock spigoloso e un po' malato ma capace di impennate elettriche sferzanti che era  pane quotidiano di alcuni gruppi del Paisley Underground, i primi Dream Syndicate, i Rain Parade, gli Opal, qualcun altro. Ci ho trovato un po' di quell'umore in Tell Me How You Really Feel e nell'inquieta voce di Courtney Barrett, disco a mio modo di vedere ancora legato alle estetiche e al fascino dell'underground.

 

Bettye Lavette      Things Have Changed
 

Altra donna, altra ugola, altra musica. Voce graffiante e aspra, interpretazioni assolutamente personali, una decina di canzoni prese dal songbook di Dylan, musicisti di prim'ordine tra cui Steve Jordan, Pino Palladino, Larry Campbell, Keith Richards, Trombone Shorty, Ivan Neville. Ovvero un disco perfetto per qualità della musica e eccelsa versione di canzoni già di per se favolose. Un tributo, ma è un tributo?, che non lascia indifferenti, sentitevi Don't Fall Apart Me Tonight, oppure la reggata Political World o ancora Ain't Talkin' ed Emotionally Yours, qui c'è l'anima degli afroamericani applicata al più illuminante songbook del rock bianco.
 

 

Mark Knopfler  Down The Road Wherever

 
A volte è difficile cogliere i cambiamenti nei dischi di Mark Knopfler perché lo stile è assodato, riconoscibile, quasi cristallizzato in un format che prevede la voce bassa e malinconica, la chitarra fluida e melodica, le armonie avvolgenti nella loro semplicità. Ha scelto la strada e i cieli per le copertine dei suoi dischi e non c'è immagine migliore per simboleggiare la sua musica cinematica tra folk,rock, blues e ballad, visionaria come può esserlo un viaggio su una strada che si infila nell'orizzonte, sognante come le sue assonnate melodie, elegante come il suono delle sue corde. Dicono che questo nuovo disco sia meno americano dei precedenti, forse per la presenza di qualche accenno irlandese e qualche sapore latino, sarà, ma per chi scrive suona meno monocorde di Tracker e altrettanto bello come il bluesato Privateering, ovvero gli ultimi due.

 

Lebroba       Andrew Cyrille/Wadada Leo Smith/ Bill Frisell
 

Cinque titoli  per accedere ad un universo rarefatto dove il Miles Davis astratto e astrale, la tromba è di Wadada Leo Smith, si accompagna al gelido e romantico espressionismo della chitarra di Bill Frisell e alle punteggiature percussive di Andrew Cyrille, un Jackson Pollock della batteria. Un mondo onirico, sospeso tra luce e ombra, un perfetto esercizio di minimalismo jazz, moderno e senza tempo, da ascoltare di notte quando tutto tace.

 

The J.& F. Band           From The Roots to Sky
 

Coraggioso questo ensemble in parte italiano nel porsi al di fuori dei generi, tentando strade fantasiose ed inusuali del tutto disinteressate a qualsiasi appeal commerciale. From The Roots To Sky prende spunto dall'amore per il jazz e gli Allman Brothers del batterista Tiziano Tononi (già autore di un tributo alla band di Macon) qui accompagnato dal bassista Joe Fonda, dall' ex percussionista degli Allman Jaimoe, dal chitarrista Raoul Bjiorkenheim e da una sezione fiati. Il risultato è un intreccio strumentale che fluttua dal jazz all'astrattismo free, dal blues al rock, da New Orleans all'improvvisazione. Dice bene il titolo, dalle radici al cielo, un disco non facile ma curioso, libero da condizionamenti, complesso ma anche estatico, oltre che aperto alle jam ( ce ne è
una di 28 minuti). Due Cd con dediche a Gregg Allman, al trombonista Roswell Rudd e in un pezzo anche l'armonica di Fabio Treves.

 

CONCERTI

The Rolling Stones    Orange Velodrome, Marsiglia 26/06/18

Samantha Fish            BBQ Festival, New Orleans   12/10/18

David Crosby              Milano 11/09/18

 

ARCHIVI
 
Tom Petty    An American Treasure

Può non essere il miglior box su Tom Petty, Playback del 1995 rimane insuperabile e The Live Anthology del 2009 è una strepitosa panoramica dei suoi concerti (ma non fatevi sfuggire il triplo bootleg San Francisco Serenades, fino qualche tempo fa costava una miseria) ma An American Treasure è il toccante ricordo di uno dei più esaltanti ed umili rocker che la musica americana abbia mai avuto. Certo si poteva assemblarlo meglio con più rarità ma la moglie e la figlia di Tom Petty hanno voluto così, 63 canzoni divise tra out-takes, differenti versioni, estratti live, qualche inedito e qualcosa di già edito, Beatles, Byrds, Dylan e Rolling Stones insieme in un solo artista. American rock n'roll at his best.

 

Mott The Hoople   Mental Train The Island Years 1969-71
 

Ne pubblicano tanti di box antologici o edizioni deluxe ma molte sono una vera speculazione oppure fanno la la felicità di fan/archivisti che godono nell'ascoltare otto versioni della stessa canzone.  Questo no, questo è un signor Box di 6 CD con una valanga di inediti e out-takes che racconta l'avventura degli inglesi Mott The Hoople ancora prima che divenissero famosi (solo un pochino famosi) ovvero prima che David Bowie regalasse loro All The Young Dudes. Sono gli anni e gli album per la Island tra il 1969 ed il 1971, stagione di passaggio, dischi poco conosciuti ma fondamentali per l'affermarsi di un rock che da una parte strizzava l'occhio al nascente glam e all'hard-rock e dall'altra metteva in campo strepitose ballate di ispirazione ed umore dylaniano (ma c'è anche Neil Young), grazie allo sviscerato amore del cantante Ian Hunter per il Signor Zimmerman. Quattro Cd con gli album originari , un Cd con le ballate ed un Cd con concerti del 1970/71.

 

Joe  Strummer       001
 

Un doppio CD (ne esiste una versione deluxe con libro annesso) che raccoglie le diverse anime di Joe Strummer di fuori dei Clash, ovvero i primi passi coi The 101ers, gruppo che bazzicava il pub-rock, fino alle sue registrazioni anni novanta coi Radar, con gli Astro-Physicians, con gli Electric Dog House e coi Mescaleros. In mezzo gli anni ottanta come Joe Strummer, Latino Rockabilly War, Sootsayers, Pearl Harbour, Strummer/Simonon/Howard  e la mitica Redemption Song con Johnny Cash. Un bel modo per ricapitolare una carriera all'insegna dell'onestà artistica, del coraggio e della dignità professionale, mai compromesso col music business. Una musica che intreccia occidente e terzo mondo tra punk, rock, rockabilly, reggae, latino e folk, ancora attuale, divertente e caustica per i  testi al vetriolo ma anche commovente per quella voce che dà fiato ad una generazione in perenne precarietà. Joe Strummer è stato un rivoluzionario nella musica e nella strada, ancora oggi se ne sente la mancanza, 001 lenisce solo in parte il dispiacere ma ha il potere di trasmettere una gioia ed un'allegria che era tanto che non provavo con un disco.

 

MAURO   ZAMBELLINI       28 DICEMBRE  2018

 

 

 

 

za e romanticismo. Lo accompagnano dei musicisti di estrazione jazzistica che in modo professionale e quasi in punta di piedi regalano a Suthside Johnny quell'umore notturno da ora tardi che è il miglior vestito per le canzoni della Holiday. Da Don't Explain a Lover Man. da Billie's Blues a These Foolish Things, da Detour Ahead a In My Solitude qui c'è il torcimento dell'anima e quell'intima e dolorosa profondità emotiva che solo Billie Holiday sapeva esprimere e l'umile e sottovalutato Southside Johnny riesce ad interpretare con un calore ed un trasporto che altri ben più titolati

 


































sabato 8 dicembre 2018

SPRINGSTEEN ON BROADWAY

Questo non è un disco, è un mattone. Si è scritto e detto molto sullo spettacolo tenuto da Bruce Springsteen al Walter Kerr Theatre di Broadway ripetuto per 236 volte dal 12 ottobre 2017 e divenuto una sorta di confessione pubblica dell'artista sulla base della sua autobiografia Born To Run uscita nel 2016. Il New York Times ha scritto che "nella musica rock non c'è mai stato un ritratto di un artista così vero e bello come a Broadway",  la rivista Rolling Stone gli ha fatto eco scrivendo "un trionfo intimo, uno dei più avvincenti e profondi show da parte di un musicista rock nella memoria recente". Riporta chi ha assistito a quelle esibizioni , che lo spettacolo è davvero intimo ed emozionante e non sono pochi ad uscirne con le lacrime agli occhi, non si capisce se per la commozione o il costo del biglietto. Un progetto assolutamente encomiabile quello di Springsteen, raccontare la propria storia di figlio, uomo e artista attraverso alcune delle sue più note canzoni condendole con dei lunghi monologhi estratti dalla sua autobiografia, salvo sporadiche e rare improvvisazioni come nell'apertura di Tom Joad dove ha criticato aspramente il governo di Washington per l'inumana politica riguardo i migranti.  Una scelta, quelle delle sue esibizioni a Broadway, di tutto rispetto, coraggiosa anche,  pur protratta ( ma questa è una mia personale considerazione) per troppo tempo, oltre che esageratamente ripetitiva, coi monologhi sempre identici, con una immutabile scaletta di canzoni straconosciute e sentite migliaia di volte e  pure selettiva, visto che il costo del biglietto non era propriamente alla portata di tanti. Ma detto ciò non è mio diritto criticare un artista che superata da qualche tempo la sua fase più creativa, e musicalmente in avaria  da diversi anni (a livello discografico), diciamo dai tempi delle Seeger Sessions, si è inventato questo evento per ricapitolare la sua vicenda umana e in parte artistica, mettendosi a nudo, parlando delle proprie fragilità e dei propri rammarichi, dei propri sogni e della vecchiaia, aprendo il cuore e l'anima al pubblico e cercando attraverso uno spettacolo intimo di soli racconti, voce, chitarra e pianoforte di esorcizzare la paura ed il dubbio di essere diventato qualcosa di più grande dello stesso Bruce Springsteen. Tutto ciò ci sta, per l'amor di Dio, anche se le perplessità circa un far cassa senza nessun costo di produzione, comodo e vicino casa, esistono, oltre ad una gestione del proprio personaggio autoreferenziale dove la spontaneità è del tutto bandita visto che tutti i 236 e passa show sono esattamente identici, nella scelta delle canzoni, nel racconto, nella musica.
 

 

 Mi auguro che Bruce torni ad essere quello per cui lo abbiamo tanto amato, un musicista, un songwriter ed un performer in grado di mandarti in orbita col suo rock, ma oggi la realtà è questa. Per di più, in questa sede, dobbiamo giudicare un CD e non una performance teatrale. Realizzare un CD è altra cosa, chi compra un CD vuole ascoltare musica e non dei lunghi monologhi (per noi non anglosassoni peraltro piuttosto difficili da comprendere)  intervallati da qualche pausa musicale, ovvero le canzoni. Perché la sostanza è questa, introduzioni parlate di cinque, sette, dodici minuti, e canzoni di tre, quattro, qualcuna di sei minuti (gli unici brani a non "beneficiare" dell' intro sono The Rising e Land of Hope and Dreams), per la esasperante durata di due ore, divisa in due CD o quattro LP. Bruce Springsteen racconta, parla, racconta, della sua infanzia, della sua famiglia e del padre, della sua città natale e del New Jersey, delle strade e della band, della guerra e dei veterani, della terra promessa e della fiducia, dell'America della speranza e del sogno, di Clarence Clemons e Danny Federici, del suo pubblico e della magia del sentirsene parte, di Dio e dell'uomo comune, e quando arriva la canzone, sia essa Growin' Up arrochita dalla voce e col solo ausilio di quattro accordi di chitarra, oppure My Father's House  a cui l'armonica regala un po' di musicalità, o ancora The Wish accompagnata dal pianoforte, ebbene le canzoni non solo sembrano un appendice della narrazione ma qualcuna si confonde pure con essa. Pesante. Le canzoni sono  disossate, arrangiate con misura, intime fino al sussurro, e questo fa parte del tipo di spettacolo, ma non c'è la rabbia di Nebraska e nemmeno la dolenza di The Ghost of Tom Joad anche se posseggono una loro forza interiore. The Promised Land, la cui introduzione parlata dura  undici minuti e il cantato quattro, è riveduta in una saggia dimensione folkie, Thunder Road è superba nella sua pochezza di mezzi, Long Time Comin' è rallentata fino a trasformarsi in epica western e Tougher Than The Rest cantata a due con la moglie Patti Scialfa (succede anche in Brilliant Disguise) è di una malinconia che ti si appiccica alla pelle e ti fa quasi venire il magone. Pure Land of Hope and Dreams scelta come singolo (ma ha senso un singolo in un progetto del genere ?) pur senza intro non si discosta dall'umore generale e Born To Run è quasi irriconoscibile  talmente smagrita di enfasi e potenza. Non è questo il punto, il problema sta nel fatto che non sono le canzoni e la musica le protagonisti del CD,  ma il racconto, il monologo, le parole, e allora ha senso realizzare un prodotto simile quando sarebbe meglio (e lo sarà visto le abitudini marketing del nostro) delegare lo spettacolo a un DVD, con le immagini a rafforzarne il pathos. Più coerente e logico sarebbe stato allora unire un CD del genere al libro-autobiografico evitando quel discutibile e furbastro Chapter and Verse che è sembrato un altro modo di far cassa con materiale inflazionato. Ma business is business e Bruce Springsteen al di là della sua insindacabile statura morale ed artistica non è estraneo, anche nel passato, ad operazioni del genere dove il dollaro sembra più importante della passione del fan. Comunque, un dato positivo nel CD c'è ed è la separazione nella numerazione dei brani, tra le parti parlate e  i pezzi musicali, così chiunque potrà farsi una chiavetta con la sola musica e sentirselo in macchina o al pc. Fare jogging non se ne parla nemmeno in questo caso, sebbene la traccia finale sia Born To Run. Lo insegnano altri lavori del genere ( mi vengono in mente le opere recitate-musicali di Giorgio Gaber, per di più comprensibili visto l'italiano) ovvero Springsteen On Broadway  (a proposito, bellissime le foto in stile New York in the forties della copertina) è un doppio CD o quadruplo LP che si ascolta una volta e poi lo si mette sullo scaffale, a meno che non interessi un esercizio sulla dizione e comprensione dell'americano.

MAURO ZAMBELLINI   DICEMBRE 2018

 

lunedì 3 dicembre 2018

ROLLING STONES VOODOO LOUNGE UNCUT


I Rolling Stones hanno deciso di raccontare la loro storia con la pubblicazione di DVD con annessi CD estratti dagli archivi. La serie From The Vault (per cui è appena uscito No Security. San Josè '99) è il modo migliore per ricapitolare la loro avventura live, ed anche se Voodoo Lounge Uncut non  appartiene a quella "linea" è altrettanto eccellente sia per grafica, packaging, audio e naturalmente performance. Il tour è quello di Voodoo Lounge appendice americana, il concerto quello del 25 novembre 1994. giorno di thanksgiving, presso il Robbie Stadium di Miami, show già documentato da un DVD degli anni novanta scomparso presto dalla circolazione ed oggi riproposto in maniera completa con l'aggiunta di dieci tracce mancanti allora, più cinque bonus tracks provenienti dal concerto al Giants Stadium di New York dello stesso tour. DVD e due CD (le bonus tracks sono solo sul DVD) per un concerto visto  da 56 mila persone rapite dalla performance sontuosa di Jagger e soci che con l'arrivo del bassista Darryl Jones ridefiniscono la loro leadership nel campo dei concerti live. Se lo Steel Wheels/ Urban Jungle Tour di quattro anni prima era stato un trionfo, il Voodoo Lounge Tour è un vero record di incassi e di mezzi: il palco del costo di 3 milioni di dollari, progettato da Mark Fisher, è caratterizzato da una imponente struttura costituita da un gigantesco semiarco dalla cui testa a forma di cobra scaturiscono fiamme mentre centinaia di luci illuminano il tutto. Sono milleduecento le luci, un gigantesco schermo chiamato Jumbotron proietta immagini ingrandite della band, ed un impianto di amplificazione di novanta tonnellata diffonde il potente sound degli Stones. Il tutto viene spostato con non meno di cinquanta semiarticolati mentre il gruppo si muove su un Boeing 727 preso a noleggio. Ma è la performance a fare la differenza, ulteriore testimonianza di un biennio, il 1994/1995, fertile e brillante per la band sotto ogni punto di vista, non solo commerciale. Due ottimi album come Voodoo Lounge e Stripped, un tour mondiale esplosivo comprendente Nord e Sud America, Giappone, Australia e Nuova Zelanda, Europa, più la sortita al Paradiso di Amsterdam, all'Olympia di Parigi e alla Brixton Academy di Londra con set meravigliosi, in parte acustici. Li vidi il 30 luglio del 1995 a Basilea e posso confermare che quel tour rimarrà nella memoria per sempre, forse il migliore concerto degli Stones visto dal sottoscritto, impreziosito per di più dall'apertura dei Black Crowes.

Il 25 novembre a Miami è un altro appuntamento discografico da non perdere se si vuole ricapitolare con metodo la loro storia, ed è uno show avente delle caratteristiche ben diverse da quelli che arriveranno nel nuovo millennio. Innanzitutto il nuovo album è di fatto presente nella scaletta, come se il tour fosse di supporto al disco, cosa solo in parte vera perché già allora i diritti d'autore coprivano a malapena le spese  ed il tour era il solo modo di sopravvivere e andare avanti. Gli Stones costituivano peraltro una rarità perché lo spettacolo con cui si riempiva lo stadio era ancora basato sulla musica, non si vedevano balletti, playback e giochi d'artificio. "Un locale  perfetto per il rock n'roll dovrebbe essere un garage molto ampio fatto di mattoni, con un bar in fondo" ha affermato Keith Richards, il problema è trasformare uno stadio in un locale simile, buona fortuna al fonico. A Miami l'audio è eccellente e Voodoo Lounge  concede titoli come You Got Me Rocking, Sparks Will Fly, I Go Wild, The Worst cantato da Richards, magari non memorabili ma coerenti con l' aspetto fortemente rocknrollistico e poco plateale dello show. Show che si apre, dopo la presentazione di Whoopi Goldberg, con una tambureggiante versione di Not Fade Away, prossima ad entrare nella scaletta di Stripped, e poi si rivolge al passato pescando la solita Tumbling Dice, una rara Rocks Off,  una tirata Satisfaction messa lì quasi all'inizio, Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) ed una Live With Me che vede Jagger dividersi i compiti con una Sheryl Crow piuttosto in difficoltà nel tenere alta la tonalità. Non è l'unica invitata, meglio di lei fa un composto Robert Cray in Stop Breaking Down ed il pimpante Bo Diddley in Who Do You Love? dove Wood e Richards sembrano divertirsi da morire. L'idea della piattaforma che dal palco si allunga in mezzo al pubblico nasce in questo tour, gli Stones virano acustici e offrono polverose e sentite versioni di Dead Flowers e Sweet Virginia mentre Angie in realtà appare piuttosto moscia. Jagger non è squillante come in altre occasioni ma sembra perfino più spontaneo e "umano", d'altra parte è ancora uno di quei tour in cui fa circa 10 miglia a sera sul palco. Anche un brano non trascendentale come I Go Wild serve al loro arrembaggio rock, con tutti e quattro piazzati in linea, compreso Darryl Jones e Jagger con la chitarra, le Pietre sembrano una guitar army. Lisa Fisher è la sensualissima corista che non si risparmia in mise e mosse, sculetta in una potente Miss You, grande versione, si rivela una perfetta Honky Tonk Woman nell'omonimo brano, si agita in Before They Make You Run cantata da Richards, flirta con Jagger, si scatena con l'ugola in Monkey Man e riempie con le sue danze e la sua presenza la sinistra del palco assieme a Bernard Fowler mentre Chuck Leavell cuce con le tastiere da sarto d'altri tempi e Bobby Keys comanda la sezione fiati come fosse una band texana di rhythm and blues.

C'è qualche momento in cui cala la tensione, It's All Over Now non è propriamente memorabile ma Richards è in forma e Sympathy For The Devil la torbida pulsazione erotico-voodoo che immette nel finale, una sequenza dei classici degli Stones con infilato dentro l'intensa Monkey Man nella quale ancora Jagger e la Fisher fanno il loro spettacolino a luci rosse. Chiudono Brown Sugar e Jumpin' Jack Flash e Miami è in orbita, ancora una volta i Rolling Stones mandano a casa tutti eccitati, contenti e allegri. E' solo rock n'roll ma avercene.

Tra le cinque bonus tracks segnalo bella versione soul di I Can't Get Next You di Al Green portata al successo dai Temptations e la Happy di Keith Richards.

MAURO  ZAMBELLINI      NOVEMBRE 2018