sabato 25 giugno 2022

DRIVE BY TRUCKERS Welcome 2 Club XIII

 

Non hanno perso tempo i Drive By Truckers durante il lockdown visto che in poco più di un anno hanno pubblicato due album, The Unraveling  e The New Ok  e appena smorzata l’onda d’urto della pandemia sono ritornati in tour promuovendo il nuovo disco Welcome 2 Club XIII. Lavoro diverso dai due precedenti perché meno concentrato sul volto oscuro dell’America di oggi tra predicatori religiosi, eroina di ritorno, sovranisti di varia forma e natura, povertà e disgregazioni umane e sociali. Welcome 2 Club XIII  nasce dai ricordi di Patterson Hood quando giovane, negli anni settanta, era costretto a farsi oltre due ore di macchina per trovare un locale che facesse musica e servisse alcolici. La zona del Nord Alabama nei pressi di Muscle Shoals dove Hood abitava era davvero desolata e proibizionista e l’unica possibilità era raggiungere The Line, subito oltre il confine statale, dove sorgevano alcuni honky tonk bar in grado di offrire birra fredda, musica e risse. Uno di questi club si chiamava Club XIII e fu per lui una specie di salvezza. Negli anni ottanta la situazione anche in Alabama divenne più “liberale” ed in quel periodo Hood conobbe Mike Cooley  col quale formò gli Adam’s House Cat. Ma il Sud continuava ad essere il luogo più contradditorio d’America e ogni due anni un referendum costringeva i club e gli honky tonk bar a finanziare coi propri introiti le chiese locali affinché queste potessero indottrinare i fedeli  a tenere lontano dai propri paesi il diavolo nascosto nella bottiglia. “ Il proprietario del Club XIII di tanto in tanto ci organizzava un mercoledì sera o ci lasciava aprire per una band hair-metal per la quale eravamo terribilmente adatti, e tutti stavano fuori finché non finivamo di suonare. All'epoca non era molto divertente, ma ora lo è per noi. La canzone che traina il nuovo album si intitola The Drive ed è una cupa narrazione adatta ad un road movie dalle tinte noir segnata da un pesante riff di chitarra, nella quale Patterson Hood evoca i suoi viaggi nel profondo della notte, quando, dopo essere uscito dal club, con l’auto girovagava per campagne, sobborghi urbani, strade secondarie ascoltando musica a palla, bevendosi qualche birra e perdendosi nel nulla. Molti dei momenti più significativi della sua vita, dice Hood, arrivano da quei vagabondaggi notturni e quando i DBT entrarono in scena, quei late night drives to nowhere  furono sostituiti dai lunghi spostamenti per raggiungere le città in cui si sarebbero esibiti. Quei ricordi antichi costituiscono l’ input di un album dove il guardarsi indietro lascia spazio all’amarezza che traspare dalle ballate, anche se non mancano episodi ascrivibili al ruvido rock dei DBT. Il disco è nato quasi per caso nel corso di tre frenetici giorni dell’estate del 2021 quando la band si unì per riannodare le fila dopo i mesi di inattività imposti dalla pandemia. 



Registrato sostanzialmente dal vivo con la produzione del solito David Barbe, Welcome 2 Club XIII  mostra comunque nei testi elementi di feeling positivo riconquistato a seguito dei lutti che hanno funestato l’entourage della band e della rabbia “politica” espressa dai precedenti tre album, a cominciare da American Land. Permangono amarezza e malinconia ma è come se i Drive By Truckers respirassero ora una sensazione di libertà dopo il lungo periodo di clausura del lockdown. Anche i concerti attuali lo testimoniano, ormai loro sono una macchina da guerra che non fa prigionieri, una grande rock n’roll band oliata in tutte le sue componenti con un carismatico leader, Patterson Hood, un alter ego, Mike Cooley, che ha sempre più spazio nel cantare e scrivere canzoni ed un tastierista/chitarrista, Jay Gonzalez, che è un vero jolly.


Se The Drive  si cala in una misteriosa e plumbea atmosfera notturna, la seguente Maria’s Awful Disclosure, una delle composizioni firmate e cantate da Cooley,  fa riferimento ai risvolti nazionalistici di tanto clericalismo sudista con un sound di echi e riverberi fluttuanti in uno spazio dai colori psichedelici dove si fa sentire il lavoro alle tastiere di Jay Gonzalez.  Shake and Pine è uno di quei brani in cui si avverte l’eredità Muscle Shoals di Patterson Hood, quell’intreccio di country e soul mai troppo definito qui svolto su un ritmo da marcetta, e la seguente We Will Never Wake Up In The Morning , ancora opera di Hood, è dolente ed introversa, come se i DBT avessero il freno a  mano tirato, ma è il mood necessario per raccontare un’altra balorda storia del Sud. Una vera short story. Non mi fa per nulla impazzire la canzone che dà il  titolo all’album, piuttosto routinaria, diversamente da Forged In Hell and Heaven Sent brano dall’infarinatura country con un bel lavoro di chitarre e l’apporto vocale di Margo Price.  Strepitosa è Every Single Storied Flameout, un fiammeggiante rock di Mike Cooley reso ancor più bruciante dagli interventi di sax e tromba e altrettanto bella è Billy Ringo In The Dark, una dondolante ballata pennellata di nostalgia dove l’inciso di lap steel ne sottolinea l’umore crepuscolare. Chiude Wilder Days scheletrica ballad che rimanda alla traccia iniziale per via dei ricordi di giorni selvaggi in cui ci si credeva invincibili, oggi irrimediabilmente segnati dalla nostalgia, sottolineata dai toni acustici e dall’acuto vocale di Schaefer Llana.



Lungi dall’essere il miglior disco dei Drive By Truckers, Welcome 2 Club XIII  è lavoro dignitoso e di nobile scrittura rivolto soprattutto alla storia dei protagonisti, dove più che i ganci tipici del loro rabbioso e polveroso rock n’ roll  conta un maturo e sardonico senso della riflessione in ballate e canzoni che ne colgono il lato più personale.



 

MAURO  ZAMBELLINI   GIUGNO 2022

foto di M.Z del concerto dei Drive By Truckers al Paradiso di Amsterdam del 6/06/22. Recensione concerto su Buscadero luglio/agosto

 

mercoledì 8 giugno 2022

THE DREAM SYNDICATE Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions

Coerenti con la loro natura ma nello stesso tempo rivolti ad una continua evoluzione, I Dream Syndicate arrivano al quarto album dopo che nel settembre del 2017, trenta anni dopo la loro nascita, sono ritornati in scena con How Did I Find Myself Here ?. Un album quello che mostrava una continuità con il passato quando venivano reputati  tra i più geniali propositori del rock californiano anni 80 altrimenti conosciuto come Paisley Underground, una esuberante e feroce esplosione chitarristica e psichedelica nel cui dna scorrevano inesorabilmente i germi malati dei Velvet Underground. Due anni dopo These Times  evidenziava cambiamenti più radicali con un approccio meno diretto e classico, piuttosto finalizzato ad atmosfere lunari e malinconiche dove spuntavano schizzi elettronici sia per la passione di Steve Wynn verso il kraut-rock che per la coproduzione di John Agnello, già al servizio di Phosphorescent, Dinosaur Jr., Hold Steady e Waxahatchee. L’equilibrio veniva definitivamente rotto nel 2020 con The Universe Inside, album sperimentale costituito da lunghi brani evocanti una possibile colonna sonora di un film psichedelico ambientato nelle strade di New York, sporcato da flash di jazz elettrico, musica d’avanguardia europea, prog e visioni oniriche. Un netto cambio di direzione, accattivante dal punto di vista sonoro e visuale ma mancante di canzoni vere e proprie, cosa che invece ha contraddistinto il songwriting di Wynn, aperto alle innovazioni ma sempre in sintonia con un concetto di canzone rock. Immancabilmente il fertile e illuminato Steve Wynn, uno dei più geniali autori ancora in circolazione in quel rock che deriva dai classici, cambia le carte in tavole e pur non disconoscendo le recenti mutazioni ripristina con Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions la vera essenza dei Dream Syndicate ovvero spazio alle aperture sonore in virtù di una visione moderna e progressiva della musica ma senza privare l’ascoltatore di brani riconducibili all’idea popolare e storica di canzone rock, pur in una fisionomia alterata e underground.

Il risultato è da sentire, UBHATC è un ottimo disco specchio non di una mediazione ma di una ricerca senza compromessi per un suono che progredisce e gli stessi autori amano sentire. Eliminate qualsiasi preconcetto dovuto al criptico titolo dell’album, i Dream Syndicate non snaturano la loro indole ma la alimentano di innesti che arrivano dai loro ascolti, dal glam britannico, dagli sperimentalismi kraut, dal groove ritmico di ispirazione Neu, da Eno e David Bowie, dall’amore mai negato verso i Velvet e Lou Reed, senza rinunciare alla tonalità psichedelica, melodica e chitarristica del loro sound, sebbene le chitarre qui siano meno evidenti che negli album della prima era della band.



Wynn in compagnia della storica sezione ritmica di Dennis Duck e Mark Walton, del chitarrista Jason Victor e del tastierista ex Green On Red Chris Cacavas, musicista da sempre vicino alla band, allestiscono un lavoro di energia ed intelligenza che può piacere a giovani e veterani. Dall’iniziale Where I’ll Stand che si apre coi sintetizzatori elettronici di matrice krautrock, per poi trasformarsi in una ballata melodica di oscillazioni psichedeliche, fino alla devastante conclusione di Straight Lines, un marasma chitarristico degno dei Velvet Undergound di White Light White Heat, tutto funziona bene in questo disco compresa la presenza di Stephen McCarty dei Long Ryders che del sassofonista e trombettista Marcus Tenney. Al dondolio malizioso di Damian , forse il momento più melodico d UBHATC, in stile con le composizioni dello Steve Wynn solista, risponde il malato andamento di Hard To Say Goodbye, una sorta di folk urbano con la voce di un Lou Reed narcolettico, suonato con chitarra acustica, un filo di ritmo ed impreziosito da una malinconica lap steel, alla distorta e acida Every Time You Come Around che al sottoscritto rammenta i migliori Psychedelic Furs, fa da sponda il dinamismo di Trying To Get Over, beat nervoso, chitarre crude, il giusto tasso di nasalità e la voglia di non rimanere ingabbiati in un modello. L’ up-tempo My Lazy Mind dove un mondo notturno screziato di jazz, col sassofondo, il controcanto e gli arrangiamenti traspone un fascino da amanti perduti, si intreccia con le tabular bells di Beyond Control prima che diventi  una cavalcata cosmica. La deflagrazione di Straight Lines dopo dieci tracce riporta i Dream Syndicate al rumore di The Days of Wine and Roses ed è un ritorno a casa che non sa di sconfitta ma di consapevolezza della propria inossidabile natura. Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions è un ottimo disco, il Sindacato del Sogno non ha chiuso i battenti, le iscrizioni sono aperte.

 MAURO ZAMBELLINI