martedì 9 aprile 2013

GIOVANI TURCHI


 

Mi si  accusa di essere passatista nei gusti musicali, sono solo indipendente, non dipendo ne da quelli che commerciano e pubblicano musica, ne da quelli che devono trovare la novità a tutti i costi, ne dal tempo e dall'età. Dipendo solo dal mio ascolto, che con l'età si sarà un po' appannato ma è ancora in grado di emozionarsi.  Capisco che il rock non sia come venti, trenta , quaranta anni fa ma nemmeno che ci si debba accontentare di questi smorti primi  mesi del 2013, dove oltre a non trovare nulla del nuovo che avanza non trovo nemmeno l'usato sicuro. Ad eccezione della nuova frontiera del rock italiano non cantato in italiano.  La  questione, poi, è molto più seria di quanto mettano in luce i miei simpatici detrattori ( è una discussione sui "piaceri" quindi lungi dal trasformarla in crociata, ce ne sono già troppe in giro) perché anche con i grandi personaggi del passato che amo si fa fatica a "volare" o almeno a librarsi sopra le nefandezze del presente. Non mancano le eccezioni, nel mio Best del 2012 c'erano nomi e cognomi, ma un disco che ti rapisca e ti faccia ascoltare la musica senza fare altro, concentrandosi solo sulle canzoni, sulla voce e sugli strumenti, in questi primi mesi del 2013 faccio fatica a trovarlo. Qualche brivido l'ho provato ma sono brividi di seconda mano, ad esempio la ristampa deluxe di Rumours dei Fleetwood Mac, triplo CD che mi ha fatto riscoprire un capolavoro che al tempo avevo solo apprezzato senza entrarci dentro con la giusta sensibilità, per via di quel sound elegante, sofisticato e too much californiano che all'epoca non vestiva le mie più sanguigne tensioni. Era una questioni di ambienti, di sentire, di frequentazioni, di droghe diverse. Rumours è un grande album e purtroppo finisce poco nelle classifiche sui classici del rock stilate dalle riviste specializzate solo perché è troppo pop e non ha nessuna vergogna di esserlo. Meglio Rumours di tanti dischi alternativi che si fa fatica a sentirli due volte.

L'innamoratissimo Bottazzi mi ha fatto invece ritornare a Graham Parker & The Rumour ( non l'avevo mai lasciato in verità ma lo consideravo un partigiano della old-wave) il cui Three Chords Good suona realmente convincente e positivo, più ancora dell'apprezzabile Don'Tell Columbus. E' un disco di una semplicità e di un calore esemplare,  oltre che sincero e affatto nostalgico, nonostante la pietosa copertina da bocciofila di paese. E' un disco di cui non ci si pente dei soldi spesi per portarselo a casa, così come sono assolutamente gradevoli e di buona compagnia (almeno si sentono e si risentono) Memphis di Boz Scaggs (lo evitino chi detesta i toni soft e soul),  Songs From The Barn di Southside Johnny ( a metà strada tra il DeVille messico-louisiano e il country-soul) e Minute By Minute della James Hunter Six ( ottimo northerrn soul con un pizzico di Them, guardate la copertina)  di cui trovate ampie recensione in questo blog. Dischi come si facevano una volta, certo non l'illuminazione che ci si aspetta dal rock, difatti sono tutti e tre molto mood & mellow ma realizzati con quella cura dei suoni e delle parole  lontana dalla tecnologia, finalizzata  a regalare alle canzoni il loro significato originario ovvero cambiare l'umore della giornata, offrire  un pizzico di gioia di vivere ed innestare quel cambio di marcia che è necessario per andare avanti.
 

Non è comunque vero che non ci sia nulla di nuovo in scena che vale la pena di acquistare ( il download lo detesto anche se è economico), ad esempio nel mondo di quei singer/songwriter tanto amati dai romantici e dai solitari ci sono dei nomi molto interessanti, alcuni dei quali provenienti dalla grigia Inghilterra. Amano la poesia ma spesso frequentano l'inferno, maneggiano le parole come fossero novelle a metà tra Mark Twain e Salinger ma  sotto, dietro l'immancabile chitarra acustica, roteano le elettriche e la sezione ritmica si sente, eccome. Del primo ne parlai tempo fa su questo blog, si chiama Ben Howard, londinese ma cresciuto nel Devon,  il suo Every Kingdom è un piccolo gioiello elettroacustico, un'oasi di tranquillità in un mondo rumoroso, volgare e di corsa. Vale la pena ascoltarselo in santa pace in un momento di relax, staccando la spina da tutto il resto. E' una boccata di aria fresca in una giornata con alti livelli di polveri sottili, è ameno, poetico, estatico, anche se l'umore delle canzoni ha spesso a vedere con le brume autunnali, i colori invernali, le solitudini dei mari del nord.  E' una perfetta sintesi di bucolica malinconia folk e intrigante melodia pop, unisce vocalizzi, strumenti a corda, percussioni, sognanti ballate sospese in una dimensione senza tempo e tensioni bluesy con tormentate divagazioni elettriche. E' acustico nello spirito ma ha pulsazioni elettriche che  cambiano il senso della canzone,  insomma un vero gioiellino. Dopo Every Kingdom del 2011, Ben Howard ha pubblicato due Ep,  Ben Howard Live e The Burgh Island, siamo in attesa del nuovo album.

Gli altri inglesi sono Jake Bugg e Jamie N Commons. Il primo viene da Nottingham, ha la faccia del moccioso e il piglio del ribelle di periferia. E' giovanissimo, del 1994, ha iniziato a suonare la chitarra a dodici anni e dice di essere stato influenzato dai Beatles (che fantasia!), Everly Brothers, Donovan, Don Mc Lean ma la sua voce ricorda quello di un acerbo Dylan e la sua pettinatura quella di Noel Gallagher. La stampa e le radio inglesi si sono mosse tempestivamente attorno a lui tanto che è apparso nel 2011 al festival dei festival ovvero Glastonbury, sul palco degli emergenti. Il suo nome è stato affiancato a quello di Ben Howard ma i due sono molti diversi. Jake Bugg è irruente, scavezzacollo, musicalmente parlando, il suo folk-rock è agro e spartano, ricorda perfino Billy Bragg nel suo gesto ma si sente che tra il punk e Bugg è passata più di una decade di brit-pop. Il suo omonimo disco d'esordio è uscito lo scorso ottobre, la stampa ha gridato al nuovo Dylan, forse perché chiunque si presenti con una chitarra ed un armonica deve essere per forza un discendente degli Zimmerman. A dire il vero un po' di Dylan c'è nel suo disco, ad esempio nella bella Simple As This seguita da una Country Song che invece odora di Donovan. L'inizio dell'album è folgorante, Jake Bugg sembra uno che lo stessimo  aspettando da tempo, ha personalità, attitudine e voce, lo stesso  scrivere mostra già una buona maturità, le canzoni non lasciano indifferenti, un po' di pop, un po' di combat folk, un po' di rock,  peccato che con l'andare del disco la sua ugola assuma una piega un po' mielosa che alla fine stanca. Ma è solo un esordio, promettente, spero che Jake Bugg non si perda nelle strade dei talenti mancati.

Ben più potente l'esordio di Jamie N Commons, altro figlio di Albione, che con il suo Ep di esordio mi ha letteralmente steso. Una forza incredibile e strabiliante, una voce che ti arriva dentro senza preavviso e ti scombussola le emozioni, sembra quella di un vecchio bluesman ma scende da un universo scuro ed inquietante che evoca Johnny Cash, Nick Cave e altri uomini in nero. I suoni sono aguzzi, metallici, post-industriali ma gli strumenti sono quelli classici del rock n'roll, a parte un accenno di synth in Worth Your While  e poi c'è una straordinaria versione di Have A Little Faith di John Hiatt eseguita con una personalità da far paura, stravolta rispetto all'originale. Comincia con Rumble and Sway  l'Ep di Jamie N Commons ed è folk-rock del XXII secolo, scuro, sincopato, tatuato da una batteria assassina.  La seguente Wash Me In The Water è biblica nelle liriche e nei cori, un bagno di gospel per una melodia che si allarga radiosa e grandiosa, portando in paradiso un mondo di anime affamate. Con un arrangiamento folkie  non avrebbe sfigurato nelle Seeger Session anche se Commons ha modi e tensioni  più contemporanee.  Con Worth Your While si torna all'inferno, batteria lorda in levare, la voce scura e cavernosa , il devil in me di Jamie N Commons è feroce come le chitarre ferrose ed il ritmo incalzante da noir post-atomico. Per Have A Little Faith di Hiatt  c'è solo una parola, ascoltatela! C'è il carisma dello Springsteen di Wrecking Ball con tutto quel sound che ha lasciato perplessi i "fondamentalisti" del Boss.  Caroline è invece una ballad lenta che mi ricorda il Ray LaMontagne intimista di Till The Sun Turns Black, tra folk e soul, voce roca, arrangiamenti orchestrali ed un'armonica rubata al solito Dylan. E' il preambolo dell'ultima traccia, The Preacher. La potete vedere e sentire su youtube. Inizia lenta e solenne, ma si aspetta che il predicatore lanci i suoi strali e difatti dopo l'overture si carica di voci, cori, strumenti, violini tristi come un funerale, frizioni elettriche, così da deragliare in una vera apocalissi. Era diverso tempo che non mi imbattevo in un disco così intenso, peccato sia solo un Ep. Per la cronaca, Jamie N Commons è entrato nella soundtrack della terza stagione di Walking Dead.
 

L'ultimo dei giovani turchi, Willy Mason, è invece americano, è nato a New York nel 1984 ma vive nell'isola Martha's Vineyard nel Massachusetts, un luogo di ricconi della East Coast. E' stato scoperto da Conor Oberst in un club di Martha's Vineyard e ha debuttato  nel 2004 con l'album  When The Humans Eat che ha scalato le classifiche inglesi. Mason è difatti più popolare al di qua dell'Atlantico a causa di un songwriting poco americano, più confacente ai modi e allo stile inglese, per qualche verso paragonabile a Ben Howard. Lo affermano anche le sue frequentazioni poco usuali per un classico autore made in Usa, una sua canzone è stata ripresa dai Chemical Brothers, ha cantato nell'album di Isobell Campbell e Mark Lanegan. ha supportato Radiohead e Beth Orton, una sua canzone è finita in una sitcom inglese, ha registrato un live a Manchester ed il suo secondo album, If The Ocean Gets Rough si è fatto strada nelle classifiche inglesi ed irlandesi. Insomma uno fuori dai ranghi, ed  questa è una virtù, perché la sua musica è sganciata da qualsiasi modello del passato e si presenta come l'espressione di un songwriter dalla voce profonda e particolare che sa trasmettere stati di abbandono estatico e momenti introspettivi plumbei e nordici. Almeno questo è quello che si evince dal suo recente disco, Carry On, un lavoro molto interessante  che spazia da brani come Restless Fugitive in cui gli strumenti frizionano fino a diventare feedback a lente ninne nanne acustiche come Show Me The Way To Go Home dove si avverte il riverbero del Nick Drake più intimista. Un disco vario e composito Carry On, che seduce  con la forza della dolcezza e con visioni che prefigurano, è il caso di Into Tomorrow,   un mondo a misura d'uomo. Arrangiamenti raffinati, le chitarre che si fondono con un esile drum programming, con l'organo, con una fisarmonica,  c'è tutta l'arte del songwriting in Carry On, mai una sbavatura, mai una ripetizione, solo la minuziosa ricerca della massima espressività emotiva con il minimo del supporto tecnologico. Alla fine quello che risalta è il cantato tranquillo e profondo di Willy Mason e le sue canzoni, una, Painted Glass, vicino perfino a Fabrizio DeAndrè. Per cuori gentili e gente che ama il mare d'inverno.

 

MAURO ZAMBELLINI      APRILE 2013