giovedì 26 novembre 2009

Gov't Mule Alcatraz Milano, 12 novembre 2009


È la seconda volta che i Muli suonano a Milano, la prima fu nell’aprile del 2005 , quest’anno il concerto è stato migliore, meno duro ma più trascinante, sapientemente dosato con pezzi del passato ed estratti del nuovo disco By A Thread. Blues, ballate, granitici hard-rock in odore di free, intermezzi jazz, psichedelia ed improvvisazioni hanno riempito uno show potente e muscoloso, forte e a tratti impegnativo ma mai ostico, seguito e salutato da un pubblico attento, caldo e preparato che ha tributato ai Muli applausi e ovazioni nonostante la lunghezza, tre ore e la scomodità di essere stipati ed in piedi. I Muli, instancabili, inesauribili e generosi come è nel loro stile, si sono confermati una band straordinaria in quell’ambito di jam rock/blues che nel passato ha visto primeggiare gli Allman e grazie a soluzioni tecniche e strumentali spesso ardite ed inconsuete hanno dimostrato di essersi costruito una terza via tra Allman e Dead, gruppi dei quali fra l’altro Haynes fa parte.
E’ lui il capobanda, il titano della Gibson, un chitarrista colossale, un mostro di bravura e conoscenza che ha nelle dita tutto il corso del Mississippi dal Delta a Chicago (pur non disdegnando divagazioni degne di un Coltrane) un autentico mattatore con la sei e la dodici corde, cantante aspro, sofferente, disperato ma in grado di infondere un calore straordinario. Accanto a lui un batterista altrettanto colossale, Matt Abts, capelli lunghi, barba incolta e canotta nera, un neandertheliano dei nostri tempi che picchia (e come picchia) senza quasi neanche muoversi, ottenendo un drumming che chiamare possente è un eufemismo ma ugualmente dinamico e pulsante. Completano la band un bassista, Jorgen Carlsson, che col suo funky riesce in parte a far dimenticare il compianto Allen Woody ed un tastierista, Danny Louis che con l’Hammond ed il Rhodes piano riempie gli spazi che gli altri tre indiavolati gli lasciano a disposizione creando comunque un magma di suoni che ha il merito di aver traghettato i Muli dall’heavy blues tipico dei power trio ad un sound più totale.
Lo show inizia con una slidata di Gibson, poi entra Abts a martello ed è subito Brighter Days, l’inferno si accende, i diavoli cominciano a ballare. Atmosfera sulfurea, suoni tellurici, sono i Muli duri e rocciosi di High & Mighty che presagiscono un concerto siderurgico. Invece Like Flies smussa gli spigoli ed introduce le classiche Grameface e Mule dove si rivedono i Muli jammare ed improvvisare, divagando e dilatando i tempi per poi ritornare sul tema base, evocando le fughe pirotecniche dei Dead. Si sentirà anche un accenno allungato di The Other One dei Grateful Dead.
Una prima cover arriva con When The Leeve Breaks presa dal quarto album dei Led Zeppelin visto la stima che il nostro nutre per quella band. Il brano, di cui ricordo una micidiale versione del compianto John Campbell, offre ad Haynes la possibilità di scivolare di slide come un provetto campione di slalom speciale.
Uno degli highlights del primo set è Blind Man In The Dark, teso, vorticoso e denso di atmosfera misteriosa, poi è la volta dei brani di By A Thread, salutato dalla platea non appena riconosce le note iniziali di Steppin Lightly. Nonostante la recente pubblicazione è già nelle orecchie di molti, così quando parte Broke Down In The Brazos ci si aspetta che dalle quinte esca Billy Gibson.
Dopo il break il concerto riparte con una memorabile Railroad Boy, il bellissimo traditional contenuto in By A Thread cantato in modo eroico da Haynes. Rispetto alla versione in studio ha un afflato meno “celtico” ma la dodici corde del leader risuona imperiale. Dallo stesso disco arriva la cupa Monday Morning Meltdown mentre Have Mercy On The Criminal è di Elton John anche se non sembra. Wandering Child col suo groove sincopato e le sue unghiate slide riporta i Muli sulla strada di Life Before Insanity il disco del 2000 che ha fornito tanti brani ai loro live set. Da quell’album esce pure la intensa e accorata Fallen Down prima che un estenuante monologo di batteria di Abts allenti la tensione dello show. Quando l’intera band rientra in scena il concerto si impenna e va verso l’apoteosi finale con i nervosi scatti chitarristici di Painted Silver Light e la solare Soulshine, venata da un ritmo vagamente reggae. L’encore è a sorpresa, Out of The Rain è una emozionante ballata di Tony Joe White interpretata da Etta James e Talk To My Baby un torrido rock/blues di Elmore James infiammata dai brucianti assoli di Haynes.
Concerto tosto e Muli meglio dei cavalli.

Mauro Zambellini Novembre 2009

lunedì 2 novembre 2009

Big Star


La recente pubblicazione da parte della Rhino di un box di 4 CD intitolato Keep An Eye On The Sky ridà visibilità ad un dei gruppi più lungimiranti e misconosciuti degli anni 70, i Big Star.
Citati a più riprese dai gruppi del rock alternativo americano i Big Star di Alex Chilton ancora oggi godono di un culto e di un attenzione tra colleghi e addetti al lavoro che contrasta nettamente con le loro vendite . I Big Star costituiscono l’ennesimo esempio di incomprensione da parte del pubblico, impreparato all’inizio degli anni 70, quando le classifiche erano sbancate da pezzi chilometrici e dal progressive rock, a cogliere l’essenza intrinsecamente pop di brani della durata di tre minuti nei cui solchi si respirava la freschezza dei 45 giri dei Beatles, dei Beach Boys ,dei Kinks, degli Small Faces, dei Byrds e dei gruppi minori del brit-pop dei sixties.
Considerati dalla stampa specializzata e dalla critica ma ignorati dal grosso pubblico, i Big Star furono considerati dallo show biz la cosa più anacronistica di quegli anni, salvo poi accorgersi, con il punk ed il post-punk della loro genialità e della loro lungimiranza.

Bande come i REM, i Db’s, i Jayhawks, Steve Wynn, i Replacements, i Gin Blossoms, Wilco, i Golden Smog, i Black Crowes tanto per citarne alcuni, debbono proprio a loro parte della propria ispirazione ,tanto che non è azzardato considerare i Big Star come dei minori Velvet Underground non tanto per il tipo di musica quanto per il peso avuto in termini di immaginario rock, gruppi culto con scarsissimo peso commerciale ma che hanno indotto più di una generazione a prendere in mano gli strumenti e a formare rock n’roll bands.
La similitudine con il gruppo di Lou Reed non riguarda lo stile musicale (anche se nel terzo album dei Big Star c’è una ripresa di Femme Fatale e Chilton non ha mai nascosto la sua stima per il poeta newyorchese) perché più che allo sperimentalismo ed al feedback, i Big Star nei loro primi due album si rivolsero verso quel modo tutto british di miscelare armonia e tensione rinverdendo il pop secondo lo stile rock n’roll e R&B di Memphis.
I Big Star sono una creazione strettamente memphisiana dell’’enfant prodige locale, Alex Chilton che dopo aver abbandonato i Box Tops dei multiseller The Letter e Cry Like A Baby si inventa una carriera solista dalle parti del Greenwich Village a New York.
Non è però il folk-rock la sua vocazione ma il vecchio formato sixties del rock, canzoni stringate trainate da una melodia accattivante e spruzzate di arrangiamenti vagamente soul e rhythm and blues. Una sorta di Phil Spector dalle parti di Graceland.
Tracce di questa transizione stilistica sono reperibili in 1970 , l’album di Chilton pubblicato solo nel 1996 che raccoglie del materiale registrato agli studi Ardent di Memphis in quell’anno. Proprio da lì nascono i Big Star. Il passo decisivo è però l’incontro tra Chilton e l’altro cantante/chitarrista Chris Bell, memphisiano di famiglia agiata e madre inglese e una grossa passione per i gruppi della british-invasion. Il suo gruppo si chiama Jinx , stretta assonanza coi Kinks, e le sue idee corrono parallele a quelle di Chilton. Il sodalizio diventa realtà agli Ardent Studios dove lavorano John Fry e Terry Manning, entrambi amici di Chilton dai tempi dei Box Tops. All’inizio il nuovo ensemble si fa chiamare Rock City ma presto divengono Big Star con l’inserimento del bassista Andy Hummell e del batterista Jody Stephens (Golden Smog) a fianco di Chilton e Bell.

Gli Ardent sono la loro casa e da lì esce, nel 1972, il loro primo album, lapidariamente intitolato #1 Record . Armonie leggere e pop robusto, melodie alla Byrds ed una voce perfetta per la programmazione radiofonica AM. Purtroppo sono le radio FM le nuove padrone dell’etere americano ed il disco naviga in aperta contrapposizione con l’imperante progressive rock e con gli assoli chilometrici dei Led Zeppelin. I sixties sono ormai un ricordo di un’era innocente e quindi il disco non vende un cazzo nonostante la critica specializzata si spertichi in lodi. In più ci si mette anche la sfortuna. La Ardent Records è in contratto con la più famosa Stax la quale viene assorbita dalla Columbia che nel gran calderone della distribuzione perde letteralmente il master del disco.
Le conseguenze per il gruppo sono drammatiche perché i quattro, frustrati e delusi, cominciano a bere e ad impasticcarsi tanto che Bell sarà costretto a rivolgersi allo psicanalista. Quando lascia il gruppo soffre di depressione e paranoia (morirà per un incidente stradale nel 1978) ma i Big Star non mollano e pubblicano Radio City, un album segnato dal songwriting di Chilton in cui brillano le classiche September Gurls e Back Of A Car.
Chilton è al top della sua creatività e coniuga il suo passato coi Box Tops con l’energia della Plastic Ono Band e la purezza delle registrazioni della Sun Records . Radio City la cui bella foto di copertina è opera di William Eggleston si rivela un album seminale ma troppo out of time e non può competere contro Golden Earring, Mahavishnu Orchestra e Bachman Turner Overdrive, ovvero i bestseller “da tendenza” di quei giorni.
Indomito, Alex Chilton ritorna in studio di registrazione e con l’aiuto del produttore Jim Dickinson ( scomparso nell’agosto di quest’anno) realizza il terzo album intitolato a seconda delle edizioni 3rd o Sister Lovers. Il disco risulta un vero enigma e viene pubblicato solo nel 1978, quattro anni più tardi.

Album misterioso e di confine, 3rd/Sister Lovers è molto diverso dai precedenti lavori, soprattutto per le liriche esistenziali angoscianti e depresse e per gli arrangiamenti assolutamente arditi, frutto degli esperimenti dell’ingegnere John Fry. Album anti-commerciale per eccellenza (nessuno se la sentì di pubblicarlo) che comunica un senso di inquietudine e di conflitti interiori oltre che una palese dipendenza da alcol e droghe, il terzo Big Star è un lavoro impressionistico caratterizzato da contrasti, strumenti poco riconoscibili, parole oscure e, in virtù anche dell’inclusione di Femme Fatale , da un decor fosco e quasi velvettiano.
Pubblicato più volte (dalla Aura, dalla PVC, dalla Line e dalla Rykodisc) con sequenza di canzoni ogni volta differente, 3rd/Sister Lovers è un disco che come ha affermato Jim Dickinson dimostra come il music business non sia sempre pronto e disposto ad accettare la parte oscura dell’esistenza.
Tutta l’opera dei Big Star compresa una cospicua dose di inediti ed outakes (sessanta) ed un rara esibizione live del 1973 a Memphis è il ricco menù proposto dal recente box di 4CD Keep An Eye On The Sky ma contemporaneamente la Universal ha ristampato rimasterizzati i due seminali primi album del gruppo, #1 Record e Radio City.

MAURO ZAMBELLINI 2009