lunedì 16 novembre 2020

THE PRETTY THINGS Bare As Bone, Bright As Blood


 

Bare As Bone, Bright As Blood  è il toccante epitaffio di Phil May, il cantante solista dei Pretty Things morto lo scorso maggio 2020. Un disco anomalo nella intera discografia della band inglese creata dal chitarrista/bassista Dick Taylor nel 1963, una volta abbandonati i nascenti Rolling Stones, per unirsi a Phil May, nato come Philip Wadey nel 1944 a Dartfort nella regione del Kent. I Pretty Things furono tra i pionieri in Inghilterra ad unire rock e rhythm and blues ma il loro stile grezzo e viscerale incontrò anche il beat, il garage e la psichedelia tanto da divenire modello per molti gruppi, anche di ispirazione mod. Il loro S.F Sorrow  è considerata la prima opera rock in assoluto, ben prima di Tommy  degli Who e Arthur  dei Kinks e la loro discografia ufficiale, non estesa, vanta piccoli oggetti culto. Scioltisi diverse volte ma sempre riformatisi, i Pretty Things non hanno mai abbandonato il sottobosco del rock ed i loro concerti ( diverse volte sono stati alle nostre latitudini bazzicando piccoli club e locali undergound) hanno attratto un pubblico affezionato che amava pogare e cantare sui loro ritmi nervosi e adrenalinici e sul fiotto di contagiosa energia che sapevano riversare dal palco. Alla fine del 2018 il gruppo decise di sciogliersi per i problemi di salute di May ma poi l’anno seguente si misero a lavorare ad un nuovo disco. 



Phil May era malato da tempo ma la sua morte è stata causata dalle complicazioni per uno stupido incidente in bicicletta e non dalle sue condizioni di salute, disgrazia che ha turbato l’intero mondo del rock. Proprio a causa delle sue precarie condizioni di salute, lui ed il chitarrista Dick Taylor avevano optato con l’aiuto del produttore e manager Mark St.John  per un disco acustico, un lavoro diverso da quanto avevano fatto nel passato. Il risultato di tale sforzo si chiama Bare As Bone, Bright As Blood  un disco bellissimo e completamente acustico dove blues e folk si mischiano in modo spartano emanando una purezza ed una profondità degna degli ultimi lavori di Johnny Cash con Rick Rubin della serie American.  E’ il lavoro di due musicisti che fanno i conti con la propria età e i propri acciacchi ma non si sono arresi, la precarietà oggettiva si trasforma in una performance a due dove l’esperienza si sposa con il cuore, l’abilità tecnica con il sentimento ed il risultato è a dir poco sorprendente. Undici titoli pescati nel repertorio del genere, alcuni conosciuti come Can’t Be Satisfied, Come On In My Kitchen, Ain’t No Grave, Redemption Day, Love In Vain, altri più oscuri, interpretati con un trasporto ed una sensibilità fuori dall’ordinario, palpabile e sentita, da far accapponare la pelle in più di un momento. La voce di Phil May è sofferta, vulnerabile, segnata dagli anni e dalla malattia, ma è in grado ugualmente di comunicare una emozione che lascia senza fiato in più di una occasione, nella interpretazione da brivido di Redemption Day dove sembra di stare a sentire proprio Johnny Cash  e in Ain’t Grave, altro brano del repertorio di Cash. Ma anche come rilegge alla sua maniera Love In Vain  accompagnato dalla armonica e dalla slide di Taylor, e sempre l’armonica e la chitarra sottolineano l’intensità Delta blues delle versioni di Can’t Be Satisfied  di Muddy Waters e Come On In My Kitchen di Robert Johnson. Ma non è solo il Mississippi a scorrere in Bare As Bone, Bright As Blood , perché il violino rootsy di John Wiggs,, il banjo di Sam Brother e l’ipnotica chitarra di George Woosey in Bright As Blood  dipingono un paesaggio di country misterioso ed ancestrale tipico dei Monti Appalachi, che si ripete nella stupenda versione che May dà di Devils Had On Hold on Me  pescata nel repertorio di Gillian Welch. l’album. Ci sono momenti di una tenerezza ed una umanità incredibile, è il caso di To Build A Wall  del cantautore inglese Will Varley, il cui titolo allude ai  muri del disumano quotidiano odierno, e nel quale May con una voce sofferente riversa tutta la pietà possibile per testimoniare il sentimento di chi, pur sapendo di non avere un grande domani, guarda con orrore ad un tale futuro, e la conclusiva Another World che risuona come una preparazione al mistero che sarà. Momenti di estrema tenerezza che si contrappongono al tono drammatico e spettrale di Faultline e alle scure cadenze di Black Girl di Leadbelly per un disco di grande sincerità e bellezza.

MAURO ZAMBELLINI  

 

martedì 27 ottobre 2020

BRUCE SPRINGSTEEN LETTER TO YOU

3 ottobre. Ho rispettato i tempi comuni, mi sono svegliato alle 8, giornata grigia, piovosa, triste, ho acceso il Marshall e con Amazon Unlimited ho ascoltato finalmente tutto Letter To You. Un disco di grande malinconia rock, con alcuni momenti davvero commoventi, non entro nella disamina dei brani, scrivo dopo un solo ascolto. Più che l'inverno come suggerisce la copertina, è un disco autunnale, l'autunno della vita, malinconico e triste ma con ancora quel filo di resistenza e di saggezza che permette alle cose, in questo caso alla musica di emanare bellezza. Traspare la consapevolezza di non aver vissuto invano, di aver vissuto con l'intensità che ti porta a fare anche degli errori e degli sbagli, ma con sincerità e onestà. Certo c'è una differenza tra i tre brani di un tempo che fu e quelli di oggi, un po come i giubbotti che una volta Bruce portava, un po sgualciti e sciupati, presi magari da un mercatino dell'usato ma vissuti fino alle pieghe della pelle, e quelli di oggi che sembrano appena usciti da una boutique. Ma i giubbotti sono rimasti, come è rimasto il suo rock n'roll che con Letter To You Springsteen ci regala in questo anno infausto. Un Bruce così non lo ascoltavo da tempo. Bel disco.

Questo è il post che ho scritto su fbook la mattina del 23 ottobre dopo il primo ascolto a caldo di Letter To You, oggi martedi 27 torno sul luogo del delitto con alcune considerazioni, più per stimolare la discussione tra i lettori del blog, che me lo hanno chiesto, che altro. Certo, tra il 23 ed oggi ci sono stati altri ascolti, per cui  ho una idea più chiara del disco, ma sottoscrivo la prima impressione a caldo. Letter To You non è un capolavoro, è solo un buon disco, onesto e sincero come già scritto, e frutto di una volontà, quella dell’autore, di andare avanti guardandosi indietro, raccogliendo i ricordi, i suoni e gli uomini, quelli ancora rimasti, che sono stati con lui nella sua avventura artistica. E’ un disco molto diverso da Western Stars e non solo per il suono, ma per lo spirito collettivista che lo ha creato,  un lavoro d’insieme tra Bruce e la sua band, che qui dà tutta sé stessa non inventando nulla rispetto al passato ma ribadendo con professionalità e vigore il mainstream rock che da Born In The Usa contraddistingue la loro musica, non sottostando in maniera passiva, come è capitato nel recente passato ai dettami di Ron Aniello, un produttore che se non ci fosse sarebbe meglio. Sarà per la carica di nostalgia che il nuovo disco trasmette, e per quel po’ di retorica che affiora in testi rivolti al tempo che passa, agli amici che non ci sono più, all’ombra della morte (plausibili per l’amor di Dio ma in qualche momento aggiuntivi di una enfasi che si riflette anche nella voce di Bruce, il caso più eclatante è House of 1000 Guitars  con quel finale supplichevole) ma Letter To You risulta un disco crepuscolare e malinconico pur col suo sound potente e rockato, nelle sue chitarre urlanti, nel dispiegamento al meglio di una E Street Band che in qualche frangente sembra correre  avanti a Bruce, come quelle passeggiate in montagna in cui ci si ferma ad aspettare quello che è rimasto un po’ indietro perché affaticato. Ma l’essere uscito definitivamente dalla bolla autoreferenziale della biografia+On Broadway, è la misura che Bruce, pur con qualche stanchezza addosso, non ha abdicato al suo essere rocker popolare e non populista, un rocker per tutti, con i pregi e i difetti che questo comporta, ancora in grado di scaldare gli animi ed in qualche momento di emozionare come un tempo. Nonostante le colossali vendite lo abbiano reso un fenomeno da classifica, Western Stars è forse un lavoro più raffinato nel songwriting e nelle melodie, in molti casi superiori a quelle attuali (Last Man Standing  è talmente trita e ritrita che non si capisce di quale album faccia parte e Ghosts per il sottoscritto è troppo calcolata (avevo scritto paracula ma sembrava troppo pesante) per acchiappare la folla osannante dello stadio con quel carico completo di botta e risposta cantato/chitarre, refrain, rullata, coro, sax, piano e organo) ma quelle canzoni si perdevano (a mio modo di veder) in una cascata di arrangiamenti tutti uguali tale  da renderlo monocorde e privarlo di brillantezza, a parte l’ultima canzone,  ( non sono a priori contro archi e violini, ma usati con dettaglio, sfumature, parsimonia, eleganza, ascoltatevi Moonlight Mile e Winter  degli Stones per vedere come si possono efficacemente adattare ad un contesto di ballata rock), mentre Letter To You con tutti i limiti di scontatezza è un disco pulsante, che non ti accomoda in poltrona ma ti trasmette ancora dell’energia, in qualche caso anche della commozione. E’ un disco di rock mainstream ed è anche la costatazione di come la gioventù sia irripetibile anche nell’arte, nonostante l’età avanzata porti saggezza ed esperienza. Il Bruce di oggi non è quello di ieri, ma è encomiabile lo sforzo, non escluso il salutare aiuto della ESB, di non tirarsi indietro, di non arrendersi e di non svendere quello che è sempre stato il suo rock. C’è un divario evidente tra i 3 pezzi del passato ed il materiale di oggi, comunque fusi in un armonico equilibrio, senza che ci sia contrasto, grazie alla compattezza del sound della ESB. E’ forse nella costruzione della canzone e della melodia la differenza, una chance che Bruce sfrutta dando il meglio di sé sfogando la sua intensità emotiva e facendo venire i brividi a chi ascolta. Song To Orphans era una scheletrica canzone in chiave folkie molto verbosa, quella di Letter To You è il miglior Springsteen con band che si possa desiderare, corale, romantico, trascinante. Hanno scriito che sembra Dylan in questa canzone, è vero solo in parte, nonostante la struttura sia quella della ballata dylaniana, qui è BRUCE SPRINGSTEEN al 100% e al suo top, come  abbiamo imparato ad amarlo. Gigantesca.  E If I Was A Priest non è da meno, anzi. Fa parte di quella dinastia di canzoni nata con Lost In The Flood, un flusso di parole e versi che cresce inarrestabile fino a diventare una preghiera epica, che l’armonica, quella armonica e quel pianoforte e quel talking prima del finale la stringono, la avvinghiano a The River , per significato, per pathos, per narrazione rock, prima che l’assolo di chitarra la accompagni in quella dannazione elettrica che tanto desideriamo dalla ESB. Due canzoni che ti tolgono il fiato, pur con l’amara consapevolezza che sono state scritte in un’ altra era, quando Bruce aveva un'altra tensione. Poi c’è Jeanny Needs A Shooter  che io avrei (ma chi sono io?) desiderato più magra e sottotono, forse perché innamorato della cruda versione che ne diede il grandissimo Warren Zevon, ed invece con quell’inizio alla Independence Day  e quel finale drammatico diventa un’opera lirica. Nello stile dello Springsteen più teatrale ed enfatico, e va bene così. E poi ci sono i pezzi nuovi,  pur col sospetto che qualcosa sia stato recuperato e riadattato. The Power of Prayer  pare per la melodia rimasta fuori da Western Stars ma rivestita rock col mood di Letter To You, Rainmaker  dopo l’intro, assume le cadenze e l’arrangiamento che erano di casa in The Rising, Burnin’ Train recupera l’urgenza dei vecchi pezzi rock, dal ritmo di Roulette alle corde tese di Jackson Cage, chitarre a palla con molto riverbero e vento nei capelli, questo si un pezzo da stadio senza karaoke ma con muscoli da vendere, Letter To You è invece il classico brano radiofonico molto Bryan Adams di cui personalmente non ne sento il bisogno. Rimane da dire dell’inizio e della fine, in punta di piedi One Minute You’re Here , mi fa venire in mente l’atmosfera di Tom Joad ma il testo non è altrettanto nobile, lo xylofono di Charlie Giordano fa molto Natale e ci sta bene con la copertina, intimo e struggente,  chiude I’ll See My Dreams una splendida e corale ballata del genere The Land of Hope and Dreams dedicata ad un amico che se ne è andato troppo presto. Sontuoso l’arrangiamento piano/organo, Bruce non piange anche se ne avrebbe il motivo ma ha la forza di darci appuntamento ad un dove e quando che è solo nei nostri sogni.

MAURO ZAMBELLINI

 

 


 

giovedì 22 ottobre 2020

THE ROLLING STONES Steel Wheels Live Atlantic City, NJ

          Basterebbero le esecuzioni di Little Red Rooster con l’invitato Eric Clapton, e Boogie Chillen con Clapton e John Lee Hooker per giustificare l’acquisto di questo ennesimo reperto d’archivio della storia live degli Stones, un doppio CD con annesso DVD riguardante il concerto che tennero al Convention Center di Atlantic City nel dicembre del 1989 al termine della prima frazione dello Steel Wheels Tour. Ma c’è dell’altro, soprattutto un concerto sontuoso che vide i Rolling Stones tornare in pista dopo sette anni di blackout e diverse avvisaglie di scioglimento. In realtà il tour iniziò nell’agosto dello stesso anno a Philadelphia e finì l’anno seguente in Giappone, poi ci fu l’appendice europea intitolata Urban Jungle, con relativo passaggio italiano. Li vidi allo Stadio delle Alpi di Torino il 28 luglio del 1990, uno splendido show, migliore di quello che vidi nella stessa città nel 1982. Ma a parte le considerazioni personali, Steel Wheels Atlantic City New Jersey è un documento che attesta uno dei momenti più importanti nella storia degli Stones, il ritorno in tour ed il superamento delle incomprensioni tra Jagger e Richards, oltre alla messa in campo di un disco, appunto Steel Wheels, che riallacciò i legami con i vecchi fans e portò sotto il palco una nuova schiera di pubblico giovanile che non si accontentava di vedere gli Stones come miti  ormai sbiaditi di un glorioso passato ma esigeva da loro concerti vibranti, tosti, emozionanti. Il fatto di saldare i vecchi hits come Satisfaction, Jumpin’Jack Flash, Start Me Up, Honky Tonk Women, Sympathy For The Devil, Midnight Rambler, Miss You, You Can’t Always Get What You Want  col nuovo materiale fu la mossa azzeccata per togliere la polvere dallo storico mausoleo e ripresentare una band di pluri quarantenni (ma Wyman aveva già 52 anni) ancora punto di riferimento per chi aveva a cuore il classico ed intramontabile rock n’roll. 

E gli Stones con quel tour ci riuscirono alla grande, al di là delle opinioni che si possono avere sul disco Steel Wheels, il concerto di Atlantic City è magnifico, eccitante e ricco di sfaccettature. Accattivante dal punto di vista visuale con l’inaugurazione dei faraonici palchi che sarebbero poi continuati nei tour seguenti, in questo caso una imponente struttura metallica ideata dall’architetto Mark Fisher e dal designer Patrick Woodroffe che simulava una sorta di raffineria abbandonata in un paesaggio alla Mad Max. La stessa struttura venne portata anche nello Urban Jungle Tour ma in una dimensione ridotta, il DVD in questione rende l’idea di come uno stadio venne trasformato in una fantasia post-industriale che si adattava al set duro e moderno degli Stones, un set che non era mai stato così lungo, più di due ore e mezzo di musica. E’ l’ultimo tour con Wyman in formazione, ma il bassista per tutto il concerto non fa una piega, statuario come la scultura di un presidente sul Monte Rushmore, sorridente solo quando viene preso in mezzo dalle avvenenti coriste Lisa Fisher, alla corte degli Stones a cominciare da quel tour, e Cindy Mizelle che gli fanno fare il doo-doo-doo-doo in una delirante versione di Sympathy For The Devil. 

Le stesse coriste accompagnano con le loro voci, ma c’è anche Bernard Fowler, in gran parte dello show  Mick Jagger, il quale concede alla Fisher l’impennata di Gimme Shelter, una performance che diverrà una sorta di classico nel curriculum della cantante. Jagger è scattante, adrenalinico, debutta vestendo un chiodo di pelle nera anni 80, piuttosto largo ma in linea con lo styling dell’epoca, e camicia blu, al termine rimarrà in succinta t-shirt bianca a cantare l’esplosivo finale di It’s Only Rock n’Roll, Brown Sugar, Satisfaction (grandiosa versione) e Jumpin’Jack Flash. Keith Richards è in forma da morire, suona da mago sia ritmica che solista, niente a che vedere con quelle strampalate entrate heavy che fa di recente, Ron Wood non è da meno e tra una sigaretta e l’altra tira fuori la sua anima blues. Charlie Watts non si commenta, è, e basta, Chuck Leavell e Matt Clifford si preoccupano di riempire lo sfondo con piano e tastiere. Dal punto di vista del menù le novità riguardano Sad Sad Sad dove si vede Bobby Keys in giacca e cravatta soffiare il suo sporco R&B, Terryfing, una sfavillante e sferzante Rock and Hard Place, mentre dal passato prossimo arrivano la danzante Harlem Shuffle con gli Uptown Horns  più festaioli che mai, la cupa Undercover of The Night, Mixed Emotions ed una bella e trascinante versione di Can’t Be Seen che Richards canta e trascina assieme alle coriste, prima della consueta Happy. Ma le novità arrivano anche dal passato remoto perché Bitch è quello che si desidera dagli Stones quando fanno i teppisti, Salt Of The Earth ripescata da Beggar’s Banquet  fa la sua premiere dal vivo con Axl Rose e Izzy Stradlin dei Guns and Roses a dare manforte ad un gospel che cresce immenso, e 2000 Light Years From Home dopo il teatrale intro di Jagger permette ad una band di rock-blues di entrare nello space rock dei Tangerine Dream, per poi saldarsi senza soluzione di continuità con il tribale inizio voodoo di Sympathy For The Devil, qui in versione da capogiro, tra le più belle del loro lungo curriculum live. E poi ancora il barocco pop di Ruby Tuesday, romantico ricordo della Swingin’ London, una vita che non la si ascoltava, ed il rientro in scena ( considerato che è ancora in cartello negli ultimi tour) della frustata punk-dark di Paint It Black.

Il blues è omaggiato come ci si auspica da una band che ha iniziato proprio con le dodici battute, Little Red Rooster beneficia di un Clapton che ricama da Dio, John Lee Hooker in elegante completo nero con fazzoletto rosso e Gibson d’annata vocifera rauco e spiritato in Boogie Chillen accompagnato da Clapton, Richards e Wood ovvero l’Università della Fender. In Honky Tonk Women, ennesimo highlights, due bambole da bettola del Sud si gonfiano enormi sopra lo stage, scollate e minigonnate come richiede il tema della canzone, facendo il verso a Cindy Mizelle e Lisa Fischer, uno spettacolo nello spettacolo con le loro movenze, i tacchi a spillo e gli abitini maliziosi. L’armonica di Jagger fa faville in Midnight Rambler, Miss You grazie all’assolo di Ron Wood non sembra neanche più un pezzo da discoteca, e Keef gli risponde nell’assolo di Sympathy portando tutti all’inferno.


Uno show maestoso e lungo, che si gusta con gli occhi, il DVD, e si salta in aria con i due CD, di eccellente qualità audio. La band è vogliosa di ritornare in scena, Atlantic City li applaude dopo 57 date americane, siamo nel 1989 ma gli Stones hanno già sotterrato l’infausta bombastic music di quella decade. E’ solo rock n’ roll.

MAURO ZAMBELLINI   OTTOBRE 2020


 

lunedì 28 settembre 2020

LOU REED NEW YORK



Una volta Lou Reed disse “ Faulkner aveva il Sud, Joyce aveva Dublino. Io ho New York e i suoi dintorni”. New York,  oggi ristampato dalla Rhino in confezione deluxe, costituisce l’apice  della sua discografia solista ma è tutt’altro che una serenata alla sua città.

 

Superato il suoi problemi di alcol e droga, riacquistato concentrazione e motivazioni, Lou Reed nel 1988 (ma il disco uscirà nel gennaio dell’anno seguente), concepisce un album in termini letterari, come se fosse un romanzo o una raccolta di racconti brevi. Il suo stile nello scrivere si portava appresso l’influenza della letteratura fin dagli esordi, uno dei suoi primi maestri di gioventù fu quel Delmore Schwartz il cui Nei Sogni Cominciano le Responsabilità l’aveva fortemente suggestionato, per poi continuare con i libri di William Burroughs e con Hubert Selby Jr. di Ultima Fermata a Brooklyn, con Raymond Chandler e le visioni gotiche di Edgar Allan Poe. Ma in New York  la sua scrittura raggiunge un livello superiore, in qualche modo paragonabile alla letteratura di Walt Withman, Nelson Alger, Edgar Lee Masters. Prende le distanze da quello che l’artista riteneva l’infantilismo del rock n’roll, l’uomo che per diverso tempo aveva dichiarato di fare rock n’roll adulto, in New York  oltrepassa qualsiasi barriera espressiva mettendo in scena un’ opera che racconta con inflessibile sguardo critico una città sotto assedio, in un’ epoca in cui nei cinque distretti urbani si contavano di norma oltre duemila omicidi all’anno, dove stava infuriando un’epidemia di AIDS che decimò molte delle comunità con cui Reed aveva legami di lunga data, quella dei gay, dei tossici, degli artisti. Pur amandola visceralmente, Lou Reed non fu per nulla accondiscendente con la propria città e lanciò un attacco verbale contro una New York vittima di AIDS ed ipocrisia, nella quale gli amici “scomparivano” giorno dopo giorno, una città di bambini violentati e donne picchiate, di bigotti e predicatori razzisti, di poliziotti uccisi da gang criminali, di migliaia di senza tetto che frugavano nei cestini dell’immondizia alla ricerca di cibo, dormendo per strada, nei vicoli, nei portoni. Ha scritto l’americano Viktor Bokris nella sua biografia (Lou Reed, il lato selvaggio del rock, Arcana Editrice,1999) : New York  fotografa un mondo di ipocrisia, egoismo e degrado che in confronto Desolation Row di Bob Dylan è come un picnic in campagna”.




Nel libretto che accompagnò l’album, Lou Reed scrisse che il disco andava ascoltato di seguito, come fosse un libro, e lo spettacolo di sei serate che Reed mise insieme al St.James Theatre, nel cuore di Broadway, per presentare l’opera (cosa poi ripetuta nelle altre date del tour), era strutturato come una sorta di rappresentazione teatrale dove nella prima parte veniva suonato l’intero album integralmente e senza interruzioni, con la sequenza originaria delle canzoni, mentre nella seconda parte lasciava spazio agli altri pezzi del suo repertorio, tra cui le immancabili Sweet Jane e Walk On The Wild Side.



Nell’intera discografia dell’artista, New York stabilisce un cambiamento nel  modo di porsi di Reed, ovvero si distacca dalla freddezza chirurgica con cui l’autore aveva raccontato storie di ordinaria follia e straordinaria depravazione, di ascesa e caduta, di tossici e femmine fatali,  senza mai dare giudizi sui comportamenti ma accettandoli come una imprescindibile manifestazione della natura dell’uomo. Al contrario, adesso, sembrava assumere un atteggiamento più umano, più partecipativo alle emozioni altrui, grazie anche ad una consapevolezza politica che da qualche anno si era formata in lui. Il centro della sua scrittura non era solo sé stesso e i mondi che aveva frequentato, ciò che la Presidenza Reagan ed i suoi accoliti, in primis Rudolf Giuliani, avevano causato all’America e alla sua New York lo avevano profondamente segnato, c’era rabbia, responsabilità sociale, vetriolo contro il potere. La sua poesia poteva sembrare ora più lavorata, più colta, senza perdere un briciolo della genuinità della strada e del rock n’roll, ogni solco di New York  risuona di echi profondi e Reed si erge al pari di un “cronista” abile nel raccontare l’amaro affresco di una città in decadenza morale, tra ricchezze spropositate e corruzione politica da una parte e homeless e malati di AIDS dell’altra, una città cupa di pregiudizi razziali ed ingiustizie sociali, dove la droga non è ne la cocaina o l’eroina ma il crack che lascia morti dimenticati nei vicoli e falcidia intere comunità, a cominciare da quella ispanica i cui Romeo Rodriguez e Pedro “vivono” nei versi di Romeo Had Juliette e Dirty Boulevard, due dei pezzi più significativi dell’album.


Lou Reed registrò New York nella seconda metà del 1988 con il nuovo chitarrista Mike Rathke (subentrato al fenomenale Robert Quine) marito della sorella di Sylvia Morales, la seconda moglie dell’artista. Dopo New Sensations e Mistrial  due dischi piuttosto contradditori, troppo clean per il personaggio e mai troppo amati dal suo pubblico, Reed chiude gli anni ottanta riposizionando la sua musica verso uno schietto e asciutto rock n’roll che nelle diverse parti acustiche suona addirittura come uno scheletrico folk urbano. Al basso recluta Rob Wasserman mentre alla batteria si alternano Fred Maher e Moe Tucker, la vecchia compagna nei Velvet Underground. Avrebbe dovuto esserci anche John Cale il quale saputo della presenza della Tucker declinò l’invito, sospettando una sorta di reunion dei Velvet. Cosa che immancabilmente successe un anno dopo, il 30 novembre del 1989 quando nell’ultima serata all'Opera House della Musical Academy di Brooklyn in ricordo dello scomparso Andy Warhol, Reed e Cale furono raggiunti sul palco proprio da Maureen Tucker in una sorta di estemporaneo come back dei Velvet Underground, reunion che ufficialmente si concretizzò tre anni dopo in occasione dell'inaugurazione della Andy Warhol Exposition promossa dalla Fondazione Cartier a Joiy-en-Josas, periferia di Parigi, raggiunti anche dal chitarrista Sterling Morrison per una versione di Heroin. Da lì i quattro VU si involeranno in un rischioso tour europeo testimoniato da un disco ed un video col titolo di Live MCMXCIII.

Ma tornando a New York,  l’impressione di trovarsi di fronte ad un capolavoro è palese già dal primo ascolto. Quel suono scarno, agro, povero di strumenti ma ricco di emozioni, entra immediatamente sotto pelle come un noir d’annata, è un album crudo e dai colori lividi, "un disco da leggere, un libro da ascoltare" come viene riportato sulla copertina dell'album, “ un album di rabbia e compassione, realistico e spirituale al tempo stesso, cesellato e scolpito nel timbro della grande poesia”, scrive Daniele Federici nel suo Lou Reed (Editori Riuniti, 2004). Venne ideato subito dopo la scomparsa di Andy Warhol, avvenuta nel 1987, ed è il primo capitolo di una trilogia del dolore assieme a Songs for Drella e Magic and Loss, il primo dedicato a Warhol, il secondo per la morte degli amici Doc Pomus e Rita (che molti dicono essere Rachel la sua compagna/o negli anni settanta), nella quale Reed si appropria di una visione morale della vita, lontano dalle trasgressioni che avevano contraddistinto il suo passato.  New York è un atto nei confronti della sua città, ma forse è anche un esame di coscienza sul proprio essere, e a tale proposito l’autore disse: “ questo album è il risultato della convergenza, di tutto quello che è successo nel passato. Ciò significa tutte le cose che ho imparato, tutti gli errori fatti, tutti i maledetti casini in cui mi sono infilato”.  New York  fu accolto positivamente da critica e pubblico, nonostante l'assenza di brani e trucchi radiofonici, fu il disco più venduto di Lou Reed dai tempi di Sally Can’t Dance, e probabilmente il più venduto in assoluto della sua discografia solista. Nonostante i temi trattati è anche un disco divertente e perfettamente godibile, la misura di un genio capace di emozionare e addentrarsi in profondità psicologiche senza eccedere in accademie e risultare tronfio, altezzoso, palloso. Lou scelse quel disco per abbandonare la RCA e accasarsi con la Sire, l’etichetta diretta da Seymour Stein, succursale della WB, che negli anni mise sotto contratto Ramones, Talking Heads, Smiths, Cure, Pretenders, Depeche Mode e Madonna. Lou Reed non aveva propriamente la nomea di hitmakers ma era un personaggio culto amato da giornalisti ed intenditori, la lungimiranza di Stein fu tale che il periodo con la Sire fu quello commercialmente più felice nella carriera di Reed.


Il disco inizia con Romeo and Juliette, una ballata scarna il cui sound a base di chitarra permea l’intero disco. “Il cantautore James McMurtry ricorda di aver parlato del disco con John Mellencamp che disse: sembra prodotto da uno studente di terza media, ma mi piace” ( Vita e opere di Lou Reed, Anthony DeCurtis, Caissa Italia, 2018). Assieme a Hold On, qui il talking di Lou è sostenuto dai colpi assestati dalla batteria e dalla distorsione delle chitarre, e Dirty Boulevard sono i brani ambientati nelle strade di New York, nelle vite di personaggi che non sono necessariamente i vecchi frequentatori delle canzoni di Lou, tossici, puttane, travestiti, artisti bohemien, ma piuttosto  cittadini comuni che grazie agli otto anni di Reagan e alla ferrea politica d’ordine di Giuliani, hanno perso qualsiasi certezza in una società polarizzata tra una classe di benestanti sempre più in alto e persone sempre più in basso, la cui vita è sospesa ad un filo. Dirty Blvd. è uno dei brani emblematici del disco, ricorda vagamente nelle sue ondulazioni Sweet Jane, Lou canta con dolente partecipazione di una cruda storia di abusi mentre il pathos è sottolineato dal misurato lavoro ritmico e dal coro di voci, a cui partecipa Dion DiMucci, uno degli idoli musicali di Reed, introdotto dallo stesso nella Rock and Roll Hall of Fame lo stesso mese di pubblicazione di New York.

Se c’è forse un brano del disco che può ricollegarsi direttamente all’ immaginario delle canzoni di Reed del passato questo è Halloween Parade, l’usuale parata che ogni anno porta la comunità gay a festeggiare per le strade di New York. Ma questa volta la parata non pare festosa, il modo con cui Reed la racconta è piuttosto commovente perché la celebrazione della teatralità, della fantasia e della sfacciataggine della comunità ora è segnata dal dolore per quelli che non sono nelle strade perché troppo malati per partecipare o addirittura morti. “The docks and the badlands meets” canta Lou giocando sul significato reale delle parole, molo e bassifondi, e  quella zona di New York della West Side a ridosso del Hudson River dove i gay erano solito trovarsi. E’ un aggiornamento di Walk On The Wild Side ma la fierezza della trasgressione e dell’ambiguità sessuale di allora qui ha lasciato il posto ad una compassione, ad  un umanismo consapevole, all’affetto con cui Reed parla di tipi abbigliati come Greta Garbo, Alfred Hitchcock, Joan Crawford, Cary Grant e trans vestiti di pelle, e nello stesso tempo il cuore si raggela pensando ai tanti che non ci sono più, menzionando tra di loro Rotten Rita e Johnny Rio frequentatori della Factory di Warhol,  e auspicando in un malinconico finale “ magari ci si rivede l’anno prossimo, alla sfilata di Halloween”. Un lirismo enorme, una canzone grandiosa, una ballata in grado di zittire chiunque, il frutto di una lucida sensibilità che pochi hanno saputo manifestare nella storia del rock parlando dei perdenti. E se per tanti altri artisti vengono scritti e detti fiumi di parole, compresi trattati ed elucubrazioni, o si sbava spasmodicamente all’annuncio di un imminente  disco in uscita, di Lou Reed a sette anni dalla sua scomparsa, nella ufficialità e nello stesso pubblico del rock, è rimasto poco, lo si ricorda raramente, un destino che lo accomuna a Willy De Ville e visto come vanno le cose pure a Tom Petty. Lontani dalla Bibbia, vicino alle tentazioni della strada, sarà questa la ragione?.  


Il ritmo lento e dolce di Endless Cycle, il quarto titolo dell’album, non tragga in inganno, qui si racconta di deviazioni e abusi tramandati dai genitori ai figli, due chitarre speluccate accompagnano sardonicamente l’assenza di qualsiasi speranza, consumata nel verso “ quell’ uomo si sposerà e picchierà il figlio, la donna farà lo stesso pensando che sia cosa giusta e sacrosanta, meglio di quanto hanno fatto i loro genitori, meglio dell’infanzia che hanno subito, la verità è che sono più felici solo se soffrono”. Duro, incalzante e abrasivo There Is No Time è invece una esplicita esortazione politica a non perdere tempo e rimanere inerti “questo non è il momento delle celebrazioni e di rendere onore alla bandiera, questo è il momento di riunire le forze e di darsi uno scopo nella vita, questo è il momento perché non c’è più tempo”. Chitarre distorte e rasoiate rock. Con un celato riferimento a Melville e con i suoni elettroacustici di una ballata folkie The Last Great American Whale mette sotto accusa gli insuccessi della politica ecologica americana, chiudendo sarcasticamente con “ aveva ragione quello che mi diceva il mio amico pittore Donald, ficcagli una forchetta nel culo e voltali, sono davvero malati”, riferendosi alla maggioranza degli americani.

Basato su un riff di chitarra jazzistico Beginning of a Great Adventure sottintende al desiderio della moglie Sylvia di avere un figlio, “un piccolo me stesso a cui trasmettere i miei sogni”, e aggiunge  “deve essere divertente avere un bimbo a cui tramandare qualcosa, qualcosa di meglio della rabbia, del dolore, della collera e della sofferenza”. Morbida e jazzy, prevalentemente parlata, il testo della canzone pur scaturito dalla effettiva richiesta di Sylvia, si tramuta in un punto di vista umoristico, come se a parlare fosse l’ americano medio, la cosa più distante dall’uomo Lou Reed.



Busload of Faith è uno dei brani più rock dell’album, ( invito ad ascoltarvi  l’eccellente versione data da Bob Seger nel suo ultimo recente I Knew You When )  ed è un altro dito puntato contro chi usa la fede per nascondere, dietro ad una faccia pulita, una vagonata di ipocrisia e cupidigia. Dimostrazione che l’album New York  è di attualità ancora oggi, a trentanni dalla sua pubblicazione. Giocata su scatti e controscatti, Busload of Faith emana il suono di un quartetto elettrico in grado di fare rock n’roll da camera, cosa che si ritroverà in futuro in Ecstasy, e non dà tregua all’ascoltatore perché fuso nella seguente Sick of You, altro affondo sulla decadenza e corruzione della sua città. Impagabile nel testo l’ironica visione  di una Staten Island scomparsa a mezzogiorno, le spiagge chiuse, lo strato di ozono ormai privo di ozono, la mancanza di insalata fresca perché c’erano siringhe nei cavoli, l’Empire State venduto al Giappone……….e tu mi vuoi lasciare per il ragazzo della porta accanto. Caustico e divertente.  Non fa sconti a nessuno Lou Reed, “uno sbirro è stato steso da un ragazzino con un colpo alla testa, un tossico ha messo sotto una ballerina incinta, si era addormentato al volante dopo essersi fatto di eroina, lei è morta ma il bimbo è salvo, c’è uno che ha una 38 ed un coltello a serramanico e deve ancora prendere la metropolitana, là sotto c’è l’essenza puzzolente di New York. C’’è una rabbia furiosa che sale come un flagello ma non saranno sufficienti gli Hell’s Angels e Mark Tyson per porre rimedio a questo sanguinoso caos”. Al pari del testo il suono è nervoso, sincopato, una marcetta che inizia beffarda e finisce convulsa. Vetriolo puro è Good Evening Mr.Waldheim nel quale per la prima volta Reed  difende senza scherno il suo essere ebreo chiamando in causa il candidato alla Presidenza Jesse Jackson, che nella campagna elettorale usò il termine common ground, ed il leader della Nation of Islam Louis Farrakham, entrambi rei in precedenza di aver manifestato il loro pregiudizio antiebraico. Non vengono risparmiati nemmeno il Segretario delle Nazioni Unite, l’austriaco Kurt Waldheim, che fu accusato di essere a conoscenza della atrocità naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, e lo stesso Giovanni Paolo II per l’accettazione al tempo, in Polonia, dei crimini di guerra nazisti, se non addirittura di veri e propri legami giovanili con essi. Si chiede Lou Reed se  possa essere compreso anche lui oppure no nella common ground, mentre il ritmo aumenta veemente e la chitarra morde con inusitata ferocia. Lenta, dolente, sulla falsariga di una nuova Coney Island Baby, X Mas in February ritorna sulla ferita aperta del Vietnam cantando con sentita partecipazione la vita di Sammy, di quando era nella giungla, di quando tornò senza un braccio, di quando perse moglie e figli, di quando  rimase senza lavoro e di quando è diventato un homeless con un cartello che chiede l’elemosina ai passanti. Fa degna compagnia ad un’altra agghiacciante canzone sul tema, quella Sam Stone di John Prine.

Urlata con la veemenza di un sermone apocalittico, in Strawman  l’America è dipinta come un uomo di paglia che non esita ad investire soldi e missili ed ignora totalmente i poveri e la gente che vive ai margini, il quadro di un paese che sta andando all’inferno e per il quale Reed spera in un castigo divino.






Inizio cupo e funereo, col contrabbasso frizionato da un archetto e le percussioni di Maureen Tucker, presente pure in Last Great American Whale, a rendere ancora più drammatico lo scenario, Dime Store Mystery trova nella voce grave di Reed l’atmosfera intimista per accennare al mistero della vita di Gesù ( pare dopo aver assistito ad una intervista televisiva di Martin Scorsese riguardante L’ultima tentazione di Cristo) e per riflettere sulla morte di Andy Warhol. E’ l’ultimo titolo dell’album. Quattordici brani per un disco epocale, lucido, complesso e pungente nei temi, tanto semplice e spartano nella veste sonora, New York  ancora oggi rimane una dei più affascinanti racconti di una città e di un mondo in declino, un’ opera d’arte immortale che andrebbe letta, ascoltata e studiata a scuola.


LA RISTAMPA

New York  significò per l’artista un riconoscimento artistico e commerciale mai ricevuto prima, fu disco d’oro, ottenne una nomination ai Grammy e Dirty Blvd. si installò al primo posto nella categoria Modern Rock. Del tutto giustificata la polposa nuova edizione della Rhino : un cofanetto comprendente il disco originario rimasterizzato (per la prima volta anche in vinile da 180 gr.), un CD dove lo stesso album è eseguito dal vivo in concerto ed un CD comprendente 26 tracce inedite tratte dal Lou Reed Archive tra mix grezzi, alternate take, versioni acustiche, demo, tutti  relative ai titoli del disco originario, ad eccezione di un inedito, The Room, un brano strumentale di dissonante improvvisazione che non avrebbe sfigurato nel secondo album dei Velvet Undreground. Ci sono anche i due encore del suo spettacolo dal vivo, ovvero Sweet Jane e Walk On The Wild Side. Nel box anche un video ( per la prima volta tradotto in formato DVD), da tempo fuori stampa, registrato durante il New York Tour al Teather St. Denis in Montreal. Al fine di evitare doppioni, nessuno dei brani del CD live è tratto dal DVD. Completa il tutto un libro con copertina rigida contenente testi del giornalista David Fricke, saggi dell’archivista Don Fleming e la produzione dello stesso Fleming con Laurie Anderson, Bill Ingot, James Stern e Hal Willner. New York:Deluxe Edition  celebra in modo lussuoso il capolavoro New York . Di particolare interesse sono i due CD aggiunti, quello live e quello degli inediti. Il New York Tour arrivò anche in Italia a metà del 1989, come da copione il palco venne allestito per simulare la New York dei bassifondi con una scala che introduceva ad una casa fatiscente contornata da graffiti di ispirazione portoricana, il neon di un hotel da pochi soldi, una vecchia bottega di calzolaio, un lounge, un ondulato di latta a demarcare il confine di una (allora) misera zona della Lower East Side. In questo  decor di squallore urbano, Lou Reed accompagnato dal chitarrista Mike Rathke, dal bassista Bob Wasserman e, diversamente dal disco, dal batterista Bob Medici, porta sul palco le quattordici canzoni del disco senza aggiungere alcunché, a parte qualche coretto in Halloween Parade, mantenendo il suono asciutto, schietto e la veste sobria progetto originario. Nella seconda parte del concerto entrarono altre canzoni del suo repertorio, ma qui nel CD live la scaletta è rigorosamente quella di New York e le uniche aggiunte, Sweet Jane e Walk On The Wild Side, sono riportate, inspiegabilmente, nel finale del terzo CD, quello degli inediti. E’ una esposizione dal vivo coerente con quello che fu il volere di Lou Reed, elegante e con qualche improvvisazione, specie nella nervosa fraseologia jazzy di Beginning Of A Great Adventure e nel resuscitare in Dime Store Mistery le atonalità care ai Velvet, dove il contrabbasso “segato” con l’ archetto da Wasserman in modo particolarmente violento (quasi volesse imitare John Cale con la viola) produce un suono sinistro e dark. Di contrasto Last Great American Whale è morbida e mai così pacata sebbene alluda ai disastri ambientali americani mentre la cruda Busload Of Faith anche dal vivo si conferma il brano più muscoloso e rock dell’album.

Diverse le curiosità nel CD degli inediti, se Romeo Had Juliette è sostanzialmente uguale all’originale, a parte un più mordace inciso di Mike Rathke, singolare è lo studio attorno a Dirty Blvd. : un demo con le prove del giro di chitarra ripetuto ossessivamente, ed un primitivo mix già in possesso però degli elementi costitutivi del brano. In Endless Cycle non c’è altro che la voce di Lou e la sua simulazione vocale degli strumenti, di Last Great American Whale si può ascoltare un work in progress con Lou che impartisce consigli ai compagni, Beginning of A Great Adventure è ancora più sommessa vocalmente e pizzicata alla Wes Montgomery, Busload of Faith è in splendida versione acustica. Di Sick Of You ci sono scampoli del suo divenire in studio ed il missaggio grezzo, cosi come per Hold On e Strawman. The Room è sperimentalismo avant-guarde così caro ai Velvet Underground, ma pure allo stesso Reed considerato il suo folle e alienato Metal Machine Music. Tratte dal live, comunque spoglie di qualsiasi retorica e compiacenza, Sweet Jane e Walk On The Wild Side chiudono questa Deluxe Edition, il cui unico difetto è il costo. Ma New York  è pura letteratura rock e per tale ragione non ha prezzo.

MAURO ZAMBELLINI       SETTEMBRE 2020

 















sabato 25 luglio 2020

 
 Considerato da molti il miglior album dei Fleetwood Mac della prima epoca, Then Play On  pubblicato originariamente il 19 settembre del 1969 dalla Warner/Reprise, si colloca a metà strada tra i rigorosi Mac del periodo blues e i miliardari Mac del periodo californiano, più orientati verso un soft-rock dalle colorazioni west-coast. Then Play On , il cui titolo trae spunto dal primo verso de La Dodicesima Notte  di Shakespeare, fu registrato a Londra con l'innesto di un terzo chitarrista, Danny Kirwan, a fianco di Peter Green e Jeremy Spencer. Apparentemente è un disco di passaggio visto che, prima della trasformazione californiana, ci furono diversi cambiamenti in formazione. E' l'ultimo album  con Peter Green, non ancora inghiottito nei  vortici mentali indotti dall'uso del LSD, il quale lascerà le chitarre in mano a Jeremy Spencer, se ne andrà di lì a poco nei Bambini di Dio, a Kirwan, e poi a Bob Welch e Bob Weston, fino a quando non arriverà Lindsay Buckingham, ed è  un disco estremamente importante perché segna un cambiamento radicale rispetto al rigoroso blues originario del gruppo, ampliando il  linguaggio verso una forma rock che teneva conto del sempre più impellente bisogno di improvvisazione che la band stava sperimentando in quell'anno, con concerti, in particolare quelli al Boston Tea Party che non avevano nulla da invidiare ai Grateful Dead, ai Quicksilver M.S e alla Allman Brothers Band.
 



I prodromi di quelle jam (raccomando l'acquisto del triplo The Boston Box  se ancora reperibile) sono proprio contenute in Then Play On , in titoli divenuti dei piece de resistence dei loro show come la devastante Rattlesnake Shake, come Underway, Coming Your Way e come Oh Well uscita originariamente su singolo divisa in una parte A e una Parte B e poi inclusa nell'album per la durata di quasi nove minuti. Nelle session di registrazione si affaccerà anche  Christine Perfect proveniente dagli Chicken Shack , futura moglie del bassista John McVie e futura tastierista dei Fleetwood Mac. Detto senza mezzi termini, Then Play On  è un album grandioso, un cinque stelle a tutti gli effetti, un lavoro di innovazione sonora sorprendente con Peter Green all'apice della sua ispirazione, capace con la sua Gibson di creare atmosfere dilatate e sognanti grazie all'uso frequente di fraseggi acustici. L'arrivo di Danny Kirwan, compositore ispirato e prolifico, innesta  sonorità melodiche sul ceppo blues del gruppo, e smussa l'incomunicabilità venutasi a creare tra Green e Spencer, le tre chitarre sono complementari e si intrecciano in modo proficuo. La rilassata My Dream per chitarra solista e chitarre ritmiche, è composta da Kirwan, autore di altri sei brani tra cui la tambureggiante (Mick Fleetwood fa sfoggio delle sue passioni africane) Coming Your Way, l'estatica e dolce Although The Sun Is Shining  e Like Crying,  il cui tema si basa sul contrastato amore tra due donne. Ma il pilastro attorno a cui è costruito Then Play On  è costituito dalle canzoni di Green : le dirompenti Show-Biz Blues e Rattlesnake Shake dove la tensione esplode in tutta la sua energia e dal vivo diventano delle cavalcate di rock/blues psichedelico, la delicata Closing My Eyes  frutto di un nuovo sforzo nel songwriting, i riferimenti hendrixiani e spaziali dello strumentale Underway, la travolgente Oh Well, immagine dell'ampliamento stilistico dei Fleetwood Mac tra incalzanti drive di chitarra e rilassate pause acustiche con tanto di flauto bucolico, ed infine Before The Beginning un cupo  blues per chitarra e timpani. A McVie e Mick Fleetwood si devono  invece Searching For Madge e Fighting For Madge brani strumentali gemelli, dominati dai ritmi di basso e batteria. Pubblicato dopo il successo dello strumentale Albatross, Then Play On  ebbe al tempo recensioni contrastanti, Rolling Stone lo stroncò per poi, in tempi recenti, ricredersi, Robert Christgau fu positivo descrivendolo come un mix di languide ballate e ritmi latini, altri lo definirono una odissea di blues psichedelico espanso, e mi pare una azzeccata definizione.  La nuova ristampa del disco non aggiunge molto, per non intaccare un concept già così elevato, ma recupera cose che erano andate perse : il blues One Sunny Day e la rallentata e sensuale Without You con quella chitarra (Green) che fa accapponare la pelle, omessi nell'edizione americana del Lp e poi inclusi nella compilation English Rose , e Oh Well  ripristinato nella sua doppia versione, Part 1 e Part 2 cosi come era uscita su singolo. Non so quanto gli giovi visto che i nove minuti interi del Lp facevano un bell'effetto, intelligente invece, visto l'uniformità stilistica tra il brano e l'intero album, è l'inclusione di The Green Manalishi, altro titolo destinato a far furore dal vivo al Boston Tea Party tra jam ed esplosioni strumentali, uscito come singolo durante il tour americano del 1970 ed ultima traccia con Peter Green in formazione. Un addio lancinante da parte di uno dei più grandi chitarristi del blues bianco. Then Play On  chiuse un'era d'oro per i Mac, i capitoli seguenti fanno parte di un altro libro, gli amanti del blues li abbandonarono (già con Then Play On avevano cominciato a storcere il naso), per quanto mi riguarda anche se i Mac californiani furono "un' altra band" non posso negare che album come l'omonimo del 1975, Rumours  e Tusk  siano quanto di più intrigante abbia espresso il soft-rock californiano dei settanta impolverato di cocaina.
 

L'odierna ristampa esce il 18 settembre in CD e in vinile, completata da un book di 16 pagine con le note di copertina del biografo della band Anthony Bozza ed una introduzione di Mick Fleetwood. Chi non l'avesse non se lo lasci scappare.

 

MAURO ZAMBELLINI  LUGLIO 2020






giovedì 2 luglio 2020

New breeze from deep America: Country Westerns




Aspettatevi di tutto da questo disco tranne del country and western, a meno che non ne vogliate un dosaggio alla Jason and The Scorchers. Furiosi, veementi, chitarristici fino allo spasimo, i  Country Westerns macinano un heartland rock con l'attitudine del punk, picchiando come dei martelli una musica che ancora una volta testimonia la vitalità della provincia americana e l'entusiasmo di band che se ne infischiano del trend del momento preferendo usare la musica come un' ancora di salvezza, per non affogare nella noia, nell'anonimato, in una vita piatta come il Midwest. Che poi riescano nel loro sogno, è tutto da vedere visto che il music business, come il resto della società globalizzata, non fa sconti e nemmeno si dimostra benevolo coi volenterosi, a meno che questi non abbiano santi in Paradiso. Ma tant'è, i Country Westerns ci provano con questo primo album registrato tra Nashville e New York. Racconta la storia che il batterista Brian Kotzur, transfugo dai Silver Jews, abbia incontrato il chitarrista e songwriter Joseph Plunket, membro di The Weight, gruppo di Brooklyn, il quale una decina di anni fa si era trasferito a Nashville per aprire un bar. Proprio nella Music City inizia la loro avventura, nel 2016 Plunket e Kotzur si imbucano nel garage di quest'ultimo  per mettere a punto un pugno di canzoni, incoraggiati dagli amici, cambiando spesso line-up, fino a fare la conoscenza di Sabrina Rush, fervente rocker ma violinista nella band di Louisville degli State Champion. Passare al basso per la Rush è stato un atto quasi naturale, e le sue linee armoniche sono diventate essenziali per la musica degli altri due che, con lei, hanno chiuso il cerchio e dato il via alle prime registrazioni semi-professionali assieme all'ingegnere del suono Andrija Tokic. Ma un paio di loro canzoni hanno colpito l'attenzione del produttore Matt Sweeny che li ha convocati nei Strange Weather Studios di Brooklyn, a New York, dove hanno realizzato il disco e guadagnato un contratto con la Fat Possum Records, etichetta sempre più intenzionata ad allargare il proprio catalogo anche al di fuori del Delta e Hills Country Blues.
 

Il risultato è qui da sentire, Plunket urla con voce roca un rock graffiante che in ugual misura si alimenta di frustate punk e di melodici abbandoni stradaioli, dove l'urgenza espressiva assume i toni di una questione di vita o di morte, e le chitarre grondano riff come un diluvio elettrico. Da parte loro Kotzur e la Rush non mollano un attimo, bravi nel costruire le fondamenta delle canzoni con rocciosa solidità, dando dinamismo e ritmo e creando un sound che si fa fatica a credere sia il frutto di un trio. Undici titoli che viaggiano sulle strade dell'heartland rock con puntate verso la Nashville più dura e quel tipo di americana che porta il southern rock nei bassifondi urbani. In diverse tracce il pensiero va anche a certe band "minori" del passato, qualcuno magari si ricorderà dei Jolene, di Slobberbone e Dashboard Saviors. L'album si apre all'insegna della velocità, i tre Country Westerns infilano in sequenza Anytime, It's Not Easy e Guest Checks, qui le chitarre se la sparano alla grande ed il ritmo è da cardiopalma,  e poi quando c'è bisogno di un attimo di pausa o di riflessione, il twangin' delle chitarre è lì a ricordare che Nashville non è solo la città di Lefty Frizell ma di una miriade di songwriter che hanno saputo maneggiare con mestiere l'acustico con l'elettrico. Se I'm Not Ready è un'altra fucilata che arriva dritta all'obiettivo e vomita una tale massa di foga ed attitudine da resuscitare i primi Replacements, Gentle Soul è quello che si diceva sopra, ovvero i Country Westerns delle marce basse, una sorta di ballata rock, con uno strato di chitarre acustiche ed un orizzonte rubato agli Hold Steady. Della stessa pasta è It's On Me se non fosse che a metà Plunket ci aggiunge un ghirigori da chitarrista hard-fusion, ma è il vizio del debuttante perché la sua voce è tutto fuorché leziosa, e quando arriva Times To Tunnels,  forse il momento più melodrammatico dell'album, con i tre impegnati in una armonizzazione vocale, la sensazione è che anche i Country Westerns abbiano un cuore disposto a sciogliersi. Un attimo, perché TV Light  ritorna alle vecchie abitudini, Close To Me  è solida pur non tirando pugni e Slow Nights  possiede quel tocco romantico che affiora dagli asfalti lucidi della notte e nelle ballate che ti fanno chiudere gli occhi. Come dire che i Country Westerns non sono solo muscoli e rabbia ma un trio capace di suonare un rock n'roll senza trucchi e artifiz, verace, onesto e pieno di energia, pur non essendo nulla di nuovo. Il classico rock delle strade blu.

MAURO ZAMBELLINI   
p.s questa recensione è apparsa nel numero di maggio del mensile Buscadero

 

 

venerdì 12 giugno 2020

VIAGGIO IN AFGHANISTAN 1975

Generalmente in questo blog pubblico argomenti relativi al rock, dischi, concerti, monografie, saltuariamente qualche diario di viaggio, in moto o in auto. Ho scelto di pubblicare VIAGGIO IN AFGHANISTAN 1975, dell'amico Roberto Neri, medico in pensione, appassionato di musica ed animatore dell'Ameno Blues Festival perché oltre a trovarlo interessante e di piacevole lettura, è lo specchio dei fremiti avventurosi e culturali della gioventù degli anni settanta, tra ricerca di utopie e realtà quotidiane. Andare a Est, in primis in India costituiva un viaggio ancora prima interiore che fisico, tanti ne erano attratti e chi ci andava ritornava in qualche modo cambiato. Personalmente, forse perché meno mistico, sentivo invece l'attrazione per l'Ovest e in quegli anni partivo per gli Stati Uniti e il Messico, ma l'Estremo Oriente costituiva un forte richiamo, per le sue culture, per i suoi miraggi, per la sua mistica, per le sue diversità ambientali, umane e di pensiero, per alcuni anche per le droghe, soprattutto per quella sete di avventura e conoscenza che caratterizzava molti giovani di quegli anni, oggi risolta troppo semplicemente in una banale movida. Buon viaggio.

Viaggio in Afghanistan 1975.

Mi sono laureato il 21 luglio. Nessuno della mia famiglia, mio padre lavora, mia madre e i fratelli al mare a Bellaria. In compenso incontro un amico poco prima della discussione della tesi. Un tiro di erba, un aperitivo, ricordo confuso e fumoso della discussione della tesi, sicuramente non molto brillante. Il giorno dopo mi rendo conto che ho davanti a me sei mesi particolari, perché sono laureato ma dovrò attendere gennaio 1976 per poter fare l’esame di Stato e iniziare a lavorare. Un’altra chiara consapevolezza: ho risolto il problema della sopravvivenza, ora posso permettermi di fare le cose che mi piacciono. Tra mio padre e mia nonna Elvira raggranello circa 300.000 lire di regalo/laurea e devo solo decidere come spendere qualche mese di questo periodo particolarmente fortunato: è la fine del lungo iter di studi ma non è ancora l’inizio del lavoro e delle responsabilità. Una vera fase di passaggio. Qualche settimane prima, nel periodo di stress pre-laurea, avevo visto al cinema “ Il sogno delle Mille e una notte” di Pasolini. Ero rimasto turbato e ammaliato dalla scenografia, ambientata mi sembra tra Nepal e Yemen, e lentamente mi si era insinuato il desiderio di andare a Est, in modo generico. Ero già stato per tre volte in Marocco negli anni precedenti e già mi era successo di essere stato spinto dalla visione di un film a desiderare e poi decidere di fare un viaggio in qualche modo collegato. Era stato nel 1970, qualche mese dopo aver visto “Easy rider “. L’inevitabile coincidenza (questa storia sarà piena di coincidenze): il mio amico Gigi R, compagno di scuola delle elementari,  attualmente mio compagno di appartamento a Pavia dove studia Economia e Commercio, mi propone di fare un viaggio di un mese per l’Europa con tappa finale al festival Rock dell’Isola di Wight. Sarebbe stato il primo di tre viaggi insieme, con lui e la sua ragazza Mariarosa,: dopo l’Europa i primi due viaggi in Marocco.

Un’altra coincidenza col 1970 la fine di una storia d’amore. Nel 1970 ero appena stato lasciato da Monica, il primo amore della mia vita. Simbiotici per quasi due anni, negli ultimi mesi io a Pavia lei a Milano e percorsi di crescita divergenti portano, come spesso succede a quell’età, a voler andare altrove. E’ lei che fa il passo, e dopo pochi giorni di scoramento la proposta del viaggio la vivo come occasione di rinascita. Adesso, 1975, era appena finita la convivenza di due anni, nella sua casa, con Giovanna, molto intelligente, determinata e fragile. Anche in questo caso è stata lei a voler chiudere. Eravamo molto diversi e forse poco compatibili, ma condividevamo bellissimi momenti di scambio che lei definiva “ orgasmi mentali “.

La prima tappa del viaggio è Firenze, vado a trovare il mio amico Rinaldo M, detto   “ Prato” dalla sua città di origine, che era stato a Pavia un paio d’anni a studiare Filosofia. Ero già stato un’altra volta a trovarlo a Firenze, nella sua casa di via dei Ginori, a due passi da San Lorenzo. Trovo una situazione tragicamente cambiata: lui e la sua dolcissima “ Pirilla “ sono diventati eroinomani, così come il loro giro di amici, tutti ex militanti di Lotta Continua. Andrea, responsabile del servizio d’ordine a Firenze, Stefano, il ritratto di David Crosby con lo stesso sorriso amaro. La fine dei sogni nati alla fine degli anni ’60 sta già mietendo le proprie vittime tra i più fragili e disperati. E’ un virus non virus che si espande a macchia d’olio. Condivido alcuni giorni in cui sono l’unico a non farsi. Non ho mai avuto la tentazione di compiere un atto contrario non ai miei principi etici ma semplicemente al mio piacere di vivere e di essere attratto solo da cose sane. Mi viene in mente la canzone “ The Pusher “ degli Steppenwolf: You know I've smoked a lot of grass  O' Lord, I've popped a lot of pills, But I never touched nothin' That my spirit could kill.You know, I've seen a lot of people walkin' 'round With tombstones in their eyes

 Questo mi ha permesso di non aver paura di stare in una situazione che avrebbe respinto molti. Scopro il significato, per me che sono di formazione laica, del concetto di “pietas” nel suo significato di compassione e rispetto. Così come so che questa esperienza avrebbe sicuramente influenzato la mia disponibilità, nel 1980, ad accettare la proposta della USL di Omegna di aprire il primo ambulatorio per le tossicodipendenze. Nessun medico era allora disponibile e i miei colleghi mi guardavano come un paria della professione, medico di serie B.

In uno di quei giorni a Firenze divido un acido in tre parti con Rinaldo e Pirilla, curioso con prudenza. Più visioni che allucinazioni, senza mai una perdita del controllo assoluta. Curiosa esperienza di comunicazione non verbale con la ragazza di “Crosby“ che incontro per la prima volta e che non assumeva nessun tipo di sostanze: ci accorgiamo di aver avuto un dialogo non verbale a più scambi semplicemente guardandoci negli occhi in modo rilassato. Avrei avuto qualche coda percettiva e di ipersensibilità più avanti. Un giorno vado in autostop con la moglie di Andrea a Orvieto per un concerto di Umbria Jazz. Ci ospita una coppia con bambina che avevo conosciuto in Sardegna a Rocca Ruja, dove eravamo gli unici a fare campeggio libero vicino a una spiaggia. Alla fine del concerto, mentre esco dalla piazza, incontro Gigi e Mariarosa con un paio di amici e di corsa mi dicono che stanno partendo per la Grecia. “Andiamo a Paros!”. Ciao ciao.

Al mercato di San Lorenzo compro uno zaino militare e una borraccia, pastiglie di cloro, e mi organizzo per partire l’indomani. Non ho una macchina fotografica, non ho l’attitudine di fare lo scatto al momento giusto nel posto giusto. Non potevo immaginare che sarei stato in posti non più raggiungibili per lungo tempo e mai più uguali a com’erano a stati allora.

Avrei rivisto Rinaldo e Pirilla nel 1977 a Bologna nel folle meeting che ha segnato la fine definitiva di ogni sogno condiviso, ovviamente sieropositivi. Li ho persi e non ho avuto più la possibilità di sapere del loro destino. Il giorno dopo vado coi mezzi pubblici all’ingresso della autostrada a Firenze Signa e inizio l’autostop. Ogni passaggio finiva nell’autogrill precedente l’uscita di chi mi dava il passaggio. Dormo col sacco a pelo su un prato di autogrill. Il giorno dopo arrivo a Brindisi e mi imbarco per la Grecia. Sul traghetto incontro Giorgio, conosciuto un giorno a casa di Rinaldo, che sta viaggiando con Anita, reduce da un aborto conseguenza di un rapporto con un ragazzo nel frattempo sparito. Sto ad Atene un giorno per vedere Partenone e altro, non rimanendo particolarmente colpito. Ben altro sarebbe stato l’impatto coi tesori archeologici e la bellezza di Siracusa, in cui ho passato un anno da militare dal luglio 1976 al giugno 1977, ma questa è un’altra storia. Devo prendere una prima decisione su dove andare: subito a Oriente verso la Turchia ? Scelgo di concedermi prima qualche giorno di mare, sono in Grecia e ne dovrebbe valer la pena. Guardo la mappa in biglietteria e mi dico: perché non Paros ? Sul traghetto man mano che ci avviciniamo all’isola mi sento turbato. Ripenso alla fine della mia storia con Giovanna e sentimenti contrastanti si impadroniscono di me, compresa la percezione di sentirla vicino. Appena sceso a terra decido al volo di prendere l’autobus che porta in un paesino più piccolo e meno turistico, a circa dieci chilometri. Sono preda di un’inspiegabile ansia e a un certo punto, guardando dal finestrino, vedo di spalle una figura femminile seduta su una roccia. Malgrado mi dica che non ha senso, penso che potrebbe essere lei. Un chilometro e scendo, torno indietro ed è proprio lei, in vacanza con un’amica. Non ci abbracciamo, entrambi impacciati e un po’ “nordici” nel manifestare i sentimenti.



Torniamo insieme sulla spiaggia in cui hanno piantato la loro tenda e chi trovo? Gigi, Mariarosa e i loro amici, accampati a pochi metri. Passiamo la sera insieme, con loro e con altri con cui avevano familiarizzato. Dormo nel mio sacco a pelo a cielo aperto per un paio di notti  e vivo la situazione in modo tranquillo. Ritorno sulla terraferma con Gigi e gli altri, in partenza per un’altra parte della Grecia, che mi avrebbero dato un passaggio in direzione Turchia. Rifiuto il gentile invito di tre ragazze austriache di rimanere ospite nella loro tenda invece di partire, lusingato dalla proposta ma più interessato a continuare il mio viaggio. Giovanna mi avrebbe poi ricercato al ritorno per una ripresa della nostra relazione che sarebbe durata altri sei mesi. Non sono mai riuscito a darmi una spiegazione convincente della mia esperienza psichica di percezione della sua presenza su quell’isola e in quel villaggio: effetto dell’LSD che apre le porte di parti del nostro cervello meno esplorate? Risposte banali tipo “il caso”, “la fortuna” o “il destino” fanno parte della categoria “ Mi invento qualcosa che non esiste per spiegare qualcosa che non so spiegare”.

Il passaggio verso la Turchia finisce all’altezza delle Termopili. Saluto gli amici e aspetto un paio d’ore prima che mi raccolga una coppia di Genova con una R4 senza sedili posteriori, diretti proprio a Istanbul. Si capisce che è la prima volta che viaggiano all’estero quando cerchiamo un taxi per andare, dal camping in cui si erano piazzati, verso il centro città. Il taxista chiede una cifra iperbolica e non lesina atteggiamenti aggressivi, loro sono in evidente difficoltà,  io gestisco la trattativa con calma riportando la tariffa a cifre ragionevoli e realizzano che in Turchia per loro non saranno rose e fiori. Mi propongono di rimanere con loro per un po’ di giorni, ma li saluto e vado subito a Sultanahmet, centro storico nonché vero punto di snodo di tutti i percorsi verso Oriente. Trovo una camera low cost e poi individuo la strada occupata da coloro che vanno o tornano dai vari itinerari, per cercare eventuali situazioni a cui aggregarmi, Peace Bus o altro. Devo anche decidere dove voglio andare: Estremo Oriente (Persia, Afghanistan, India), Siria e oltre, le spiagge turche. Nei due giorni a Istanbul ho modo di apprezzare, oltre alla bellezza del centro della città, l’ottima cucina low cost di molti negozi alimentari o ristorantini. Cucina mediterranea in versione originale, ottime verdure, poca carne o pesce ben assemblati, spezie abbondanti senza eccessi. Una sera appena mi sdraio sul mio letto per dormire ho un ritorno psichedelico dalla mia porzione di LSD, allucinazioni ottiche di luci e colori; mi ci abbandono più curioso che spaventato ma capisco che per alcuni individui la perdita del controllo potrebbe essere un’esperienza traumatica e innescare pericolose paranoie.
Decido di andare in Afghanistan e compro il biglietto, 20 dollari, per il viaggio fino a Teheran. Autobus Mercedes con aria condizionata e conosco subito gli altri cinque turisti non orientali del bus, con cui avrei passato i quattro giorni fino a Herat, prima città dell’Afghanistan. Tra loro c’è un italiano, Francesco P. di San Benedetto del Tronto, diretto coraggiosamente in India senza sapere una sola parola di inglese e con un piccolo handicap motorio esito di una displasia bilaterale congenita dell’anca. Faccio amicizia con Rudi Tschögl, biondo austriaco dai lunghi capelli che mi invidiava perché in Austria non avevano un partito come il Partito Comunista Italiano. Gli altri compagni di viaggio un insipido belga, uno jugoslavo rozzo, Goran, definito da Rudi “cultural junkie”, e Daniel, un canadese molto teso. Mi confesserà verso la fine del viaggio fatto insieme di essere un corriere della droga che viaggia via terra per motivi di tracciabilità prima di affrontare il ritorno in Canada col suo carico di eroina. Non è un tossico ma è pieno di debiti, sposato e con figli, e ha molta paura. Concordiamo di viaggiare insieme fino a Herat anche per motivi di sicurezza. In Iran sono gli ultimi anni dello Scià, sappiamo che la situazione è molto tesa, i turisti non molto graditi, e il percorso da Mashad a Herat un po’ avventuroso. Sosta notturna del viaggio a Erzurum, grosso centro non lontano dal monte Ararat, che vediamo in lontananza. Usciamo dall’albergo in cerca di cibo e troviamo… una pizzeria! In realtà è un piccolo locale con forno a legna che fa delle pizze con pomodoro, ragù di carne di ? e aromi vari: buonissima.

Arriviamo a Teheran in tarda mattinata e cerchiamo la coincidenza più rapida per Mashad. Aspettiamo alcune ore nei pressi della stazione degli autobus e percepiamo un clima molto teso. Poca gente in giro, sguardi ostili nei nostri confronti, nessun altro turista in circolazione. L’ostilità nei confronti del regime si estendeva probabilmente a tutto ciò che rappresentava l’Occidente corrotto. Unico bel ricordo costituito da buonissime uova strapazzate al pomodoro vendute fuori dalla stazione da un tipo che, con un bidone che fungeva da fornello, una padella, del grasso di dubbia origine, senz’acqua a disposizione e solo qualche straccio, riusciva a servire rapidamente le persone in attesa. La scoperta della fame e il gusto del cibo risanatore sarà una delle caratteristiche del viaggio.

Arriviamo a Mashad, città sacra meta di pellegrinaggio da tutto il paese, e il clima, anche atmosferico, è diverso. Città bellissima, centro del commercio del turchese acquistabile a poco prezzo, clima caldo. Nessuno di noi viaggiava con una guida turistica, ma con una serie di informazioni acquisite col passaparola di altri viaggiatori e grazie a ciò troviamo un confortevole campeggio in centro città con comode camere e piscina e decidiamo di fermarci un giorno. Riesco a salvare dall’annegamento Francesco che si era imprudentemente buttato in piscina non sapendo nuotare convinto che l’acqua fosse bassa. E dire che proveniva da uno dei porti pescherecci più importanti del Mediterraneo! Appare ancora più miracoloso il fatto che sia riuscito ad andare fino in India, il suo obiettivo, così sprovveduto. E a tornare a casa sano e salvo.



La città è piena di pellegrini ma anche di negozi, tutto ruota attorno al magnifico Santuario dell’Imam Reza e alla Moschea Goharshad, dove i colori dominanti sono l’oro e il turchese. Faccio conoscenza con tre ragazzi del posto, studenti,  molto interessati a sapere notizie sul mio mondo. Mi dicono che potrei sembrare un persiano: sono abbronzato, capelli nerissimi, baffi folti, lenti a contatto e quindi niente montature di occhiali sospette, e mi propongono di entrare con loro - ovviamente senza parlare - all’interno di uno dei magnifici cortili del Santuario, vietati agli infedeli. La tentazione è forte ma basta una breve visione di cosa potrebbe essere un carcere persiano per decidere di rinunciare.

Il tragitto da Mashad al confine con l’Afghanistan è complicato e mal servito anche perché non è percorso dagli abitanti dei due paesi, che non hanno relazioni. L’ultimo mezzo di linea arriva a tarda sera in un villaggetto nella periferia di  Torbat-e- Jam  (dove Jam non si riferisce a un’allegra musica improvvisata) a 50 km  dal confine, dove l’unico posto praticabile è una specie di locanda con delle brande di legno e paglia nel giardino. Siamo gli unici  forestieri e nella notte buia ci sembra che ci siano tipi poco rassicuranti avvolti in caffetani incappucciati. Non ho paura ma solo prudente vigile attenzione, anche perché siamo in sei, il gruppo più numeroso. Ci organizziamo in turni di guardia di due ore per coppia e tiriamo fino alle 8 del mattino per rimetterci in viaggio rapidamente. Da lì mezzi di fortuna, camion stracarichi e arriviamo alla dogana persiana. Edificio moderno in cemento armato e vetro,  pieno di poliziotti e dotato di vetrine che esibiscono tutti i mezzi usati da persone provenienti dall’Afghanistan che cercavano di passare la frontiera con droghe e beccati, con tanto di foto dello sfortunato insieme ai poliziotti. Tanto per farti capire cosacosa non devi fare al ritorno. Passiamo alla stazione afgana che è una baracchetta di legno da cui si affaccia un tipo stralunato (fatto?) che ci dicesemplicemente “ Welcome in Afghanistan “.A Herat cerchiamo una sistemazione congiunta, prima di andare l’indomani ognuno per la sua strada. Francesco ha fretta di raggiungere l’India,  gli altri non so e poco mi interessa. Con Rudi concordiamo di viaggiare ancora insieme fino a Kabul e poi vedremo. Mentre siamo nelle nostre due camere collegate a disfare bagagli e sistemarci entrano due ragazzi italiani, di Brescia mi dicono, a chiedere informazioni di  viaggio. Nella confusione del via vai rubano tutti i soldi dal portafogli di Rudi, lasciando generosamente i documenti. Quando ce ne accorgiamo sono spariti. L’unica soluzione possibile è che io gli presti 50 dollari per permettergli di completare il suo viaggio. Ai costi di allora e in quei luoghi le mie 300.000 lire erano più che sufficienti, anche col prestito. Di italiani fetenti ne ho incontrati un bel po’ in giro per il mondo. Non siamo per tradizione dei viaggiatori, come gli anglosassoni o gli olandesi, che hanno commerciato e colonizzato gli angoli del mondo. Gli italiani che viaggiano appartengono a due categorie: i crocieristi o frequentatori massivi dei luoghi alla moda, perché conoscono solo quelli essendo ignoranti in geografia, o gli avventurieri senza scrupoli pronti a fregare il prossimo alla prima occasione. Dopo esserci imbattuti nel seconda tipologia a Herat, a Kabul ci imbattiamo nella prima categoria sociologica, ovviamente la versione hippy. Lungo capello, abiti orientali, piazzati tutto il giorno a sentire musica rock, strafatti, senza curarsi di guardarsi attorno. Decidiamo di fermarci qualche giorno per visitare Kabul, rifocillarci, fare il bucato e camminare un po’ dopo giorni passati in gran parte col culo su un sedile di autobus.

Kabul in quegli anni era una città turistica crocevia di chi andava o tornava dall’India, con una politica estremamente liberale rispetto al consumo di hashish, uno dei capisaldi della politica economica di un paese sostanzialmente molto povero. In contrasto col resto del paese è pulita, ordinata, esibisce un certo benessere e uno spirito laico. Unica eccezione in un viaggio declinato al maschile, vedi ragazze in jeans e t-shirt e il clima è pigramente rilassato. Ristoranti vegetariani, ma anche pizzerie e fast food. In quegli anni rappresentava il culmine di una politica di sviluppo civile e sociale unico in quell’area: tolleranza religiosa, valorizzazione del ruolo delle donne nella società compensavano la mancanza di risorse economiche di un paese caratterizzato da un territorio montano e brullo e dalla mancanza di sbocchi al mare e del petrolio, abbondante nella vicina Persia. Inoltre si trovava sull’asse Herat – Kandahar – Kabul, la via di collegamento stradale principale che collegava Oriente e Occidente. Questo ruolo di via di passaggio e i contatti conseguenti con il mondo esterno rendevano Kabul una metropoli cosmopolita. Ricordo che uno dei monumenti principali dell’Afghanistan era il Buddha di Bamyan, grandiosa statua scavata nella roccia, testimonianza della tolleranza religiosa in un Paese in gran parte islamico, fatto esplodere dai Talebani pochi anni dopo. In sintesi un Paese con un bel mix di povertà e modernità.


 

Conosciamo in un bar un ragazzo inglese che a Londra lavora in un negozio di alimenti bio, interessato come noi a continuare il viaggio, e partiamo con autobus di linea per andare verso Nord. Prima tappa sarà Mazar-i-Sharif, capoluogo del Nord e quarta città del paese. Il viaggio di circa 470 km dura circa 8 ore, partiamo col caldo da Kabul e ci inerpichiamo lungo il passo che attraversa il massiccio dell’Hindukush, con vette oltre i 6.000 metri. Facciamo una sosta in cima al passo di Kotal- e- Salang  

e letteralmente congeliamo appena scesi dall’autobus: siamo a 3.878 metri di altitudine. Arrivati a Mazar ritorna il piacevole clima caldo asciutto dell’altopiano. Anche a Mazar-i-Sharif c’è una bellissima Moschea Azzurra, centro della città. Colore costante: Moschea Blu a Istambul e il santuario di Mashad turchese e oro. Quest’area, pur essendo geograficamente molto periferica, ha dato i natali a Zoroastro, ma avuto anche una forte presenza buddista e comunità ebraiche. Un raro caso di convivenza tra più religioni.

 

 Da questo momento in poi non ci sono più turisti oltre a noi, con qualche rara eccezione di piccole spedizioni scientifiche o geografiche. Siamo lontani dai percorsi di collegamento Oriente-Occidente e interessati all’impatto con un mondo a sé. Dopo un giorno a Mazar, decidiamo di andare oltre per vedere un paio di villaggi. Ovviamente nessun mezzo di trasporto ufficiale ma minibus o camioncini che caricano gente, bagagli, animali fino all’inverosimile. Ci guardano curiosi ma discreti, sono molto dignitosi. Il paesaggio è molto brullo, solo attorno ai corsi d’acqua che scendono dalle montagne si formano piccole aree verdi che permettono la vita. Il primo dei villaggi è Agcha, piccolissimo. In ognuno c’è una piccola casa ex presidio militare che funge anche da albergo. Cammino lentamente nella strada principale dove è in corso un mercato di tappeti. Sono bellissimi, tutti in rosso e blu con diverse fantasie di disegno e di misura. Non si vede in giro una donna, solo qualche vecchia. Le donne sono chiuse in casa a tessere tappeti, prigioniere, fin da bambine. Seduto in un angolo un riparatore di tazze di terracotta lavora creando graffette di alluminio (o peltro?) fuso che sigillano i cocci. Si vede comunque che la plastica sta arrivando anche qui. Tutto scorre con molta lentezza e il paesaggio ricorda l’iconografia classica della Palestina nell’età di Cristo. Non c’è praticamente niente da mangiare se non meloni d’acqua, qualche biscotto secco e, dentro una specie di baule con acqua fresca, bottiglie di vetro di Coca Cola. Ne apprezziamo il contenuto zuccherino e caffeinico quasi salvavita. Ci sarebbe, appesa in una specie di macelleria, della carne, probabilmente ovina, molto apprezzata dalle mosche del circondario, ma anche io e Rudi diventiamo per l’occasione vegetariani come il nostro compagno di viaggio inglese. Cammino per il villaggio e vedo al lavoro nel suo “negozio” un orafo che mi invita, a segni, a bere una tazza di the. Inizia una conversazione priva del minimo di lingua comune. Mi chiede: “Turkestan?“ facendo chiaramente capire che voleva sapere da dove provenissi, e il Turkestan è uno dei territori di confine verso Ovest. Non potendo contare sul fatto che la parola “Italia” potesse avere un significato per lui, gli ho ripetuto sei volte “Turkestan” usando i gesti per indicare il senso di “oltre” a più riprese. Forse l’ultimo italiano passato da queste parti potrebbe essere stato Marco Polo. Non c’è la televisione, poca elettricità, e solo negli edifici principali; la giornata è scandita naturalmente dall’alba e dal tramonto. Ci troviamo a vivere l’esperienza dell’essenzialità e della lentezza scoprendo di non annoiarci. Il tempo rallenta e si riempie di cose semplici. Sarà uno dei patrimoni più importanti regalati da questo viaggio: saper distinguere l’essenziale dal superfluo.

Oltre a noi nella casetta che funge da albergo ci sono cinque o sei individui con l’aspetto inequivocabile dei militari in borghese. Il mio compagno di viaggio inglese, che è il più informato, ci parla di tensioni al confine con l’Unione Sovietica e ci troviamo non lontano dai territori di Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan. In effetti sappiamo che la strada di collegamento con Herat non è praticabile e dovremo fare il percorso a ritroso verso Kabul e Kandahar che è molto più lungo. Nel 1979 ci sarebbe stata l’invasione.


Ci spostiamo il giorno dopo a Balkh, villaggio un po’ più grande. C’è anche un affollato mercato e cerchiamo qualcosa di commestibile, siamo piuttosto affamati. Troviamo biscotti e delle uova, non aggredibili dalle mosche. La gente è particolarmente colpita dalla lunga chioma bionda e dalla pelle lattea di Rudi. Troviamo anche un paio di adolescenti curiosi di capire chi siamo e cosa facciamo lì, ci dicono che un loro zio, che dovrebbe essere qualcosa tipo il vigile o il poliziotto del villaggio, ci vorrebbe conoscere. Li seguiamo per un breve tratto e entriamo in una casetta dove lo zio ci aspetta. Ci sediamo sui tappeti e ci offrono l’immancabile the, frutta secca, biscotti; sono tutti molto cordiali, ma sempre in modo composto e rilassato. Cerchiamo di farci capire coi ragazzi che fanno da interpreti, scopriamo che i giovani studiano l’Inglese e che il loro sogno è venire in Occidente. Prima di congedarci lo zio ci offre un dolcetto a  metà tra melassa e una caramella Mou che immaginiamo possa contenere un po’ di tetraidrocannabinolo. Usciamo lentamente dal villaggio verso la casa-albergo in cui siamo ospitati e lentamente sale l’effetto del dolcetto all’hashish, leggero e rilassante. Ci ritroviamo a rimirare le montagne circostanti con un’attenzione e una concentrazione che ci fanno andare oltre la casa per qualche decina di metri. Rientriamo, ciascuno nel suo letto senza il solito confronto di esperienze serale. Mi ero portato da casa solo un libro, “Psicologia di massa del fascismo” di Wilhelm Reich, che ritengo attuale anche oggi per capire il perché dell’ampio consenso popolare a demagoghi e sovranisti. Avendolo finito in pochi giorni ho trovato su una bancarella “Papillon” in inglese, che è stata la mia lettura durante gran parte del viaggio, pallosetto ma utile per perfezionare la conoscenza dell’Inglese. Le serate le spendevamo leggendo e confrontando le esperienze; era interessante il confronto con un comunista austriaco e un ecologista inglese.

La mattina dopo inizia il viaggio di ritorno verso Mazar-i-Sharif e poi Kabul, con l’unico bus in partenza dal villaggio. Mentre sta arrivando l’autobus mi sfrego gli occhi e mi cade una lente a contatto sulla sabbia. Inizia una spasmodica ricerca con un occhio miope e uno compensato mentre il bus si avvicina sempre più. Si ferma e io sto ancora cercando, chiedo: “Un momento, un momento” e finalmente trovo la lente e salgo al volo, con la lente in bocca!

Arrivato a Kabul, dopo alcuni giorni di semidigiuno, vado a cercare un ristorante vegetariano, sapendo di dover riabituarmi gradualmente al cibo. Mangio del riso e un po’ di verdure ma il mio apparato digerente è talmente atrofizzato che mi vengono alcune scariche di diarrea, non preoccupanti ma fiaccanti. Ero stato sempre prudente rispetto al cibo e soprattutto all’acqua, facendo ampio utilizzo della borraccia militare e delle pastiglie di cloro comprate a Firenze seguite dopo un po’ dalle anticloro per tamponare l’acidità. Il ritorno è a passo più spedito rispetto all’andata.
Nel frattempo ci siamo separati dai compagni di viaggio: l’inglese verso l’India e Rudi ancora più spedito di me per tornare a casa sfruttando al meglio i 50 dollari. Verrà a trovarmi ad Ameno un paio di anni dopo con la sua ragazza, ospiti per una settimana. Alla dogana persiana, come previsto, il mio zaino viene passato al setaccio alla ricerca di droghe; al posto del cane poliziotto c è un vecchietto sdentato e cencioso che ispeziona e annusa. Malgrado tutto non mi sento poi così tranquillo.

Il tempo passa più lentamente nei trasferimenti di ritorno, hai meno curiosità rispetto al contesto e ti senti proiettato verso casa. Unica conoscenza interessante, sul tratto di autobus Mashad-Teheran, una tipica ragazza inglese, bionda, magra, colorito pallido e vestito a fiorellini, che scopro essere anche lei laureata in Medicina da poco. Ha fatto da sola via terra il viaggio dall’India, dove ha dei conoscenti, e a Teheran ha il volo per Londra. Mi conferma che per gli anglosassoni viaggiare in India, che è stata a lungo una colonia, è come per noi andare in Sicilia o Sardegna: un concetto di periferia del territorio decisamente diverso. Mi spiega che la loro bevanda nazionale, non potendo produrre il vino, è il the, che proviene comunque da una colonia. E’ molto coraggiosa, comunque, a viaggiare da sola, donna, in un territorio come questo.

In Turchia a Erzurum, poiché il bus per Istanbul è previsto nel tardo pomeriggio, decido di partire in autostop di mattina. Dopo un paio d’ore di attesa mi caricano padre e figlio con un camion. Sono contadini, si vede dal carico e dall’aspetto. Dopo un po’ il padre estrae un coltello e… prende una pagnotta e me ne taglia una grossa fetta. Mi spella anche un paio di rape. Sì, rape, uno dei cibi che ho più gustato nella mia vita. Ricordo ancora il piacere della fame, soddisfatta peraltro con un pane fatto in casa e della verdura freschissima.
Arrivato ad Ankara decido di riprendere i mezzi di linea.
A Istanbul ho la pessima idea di dormire all’Ostello della gioventù, dove mi becco le pulci. Trasferimento in hotel carino, doccia veloce e problema risolto senza code.

Torno a Sultanahmet per organizzare il ritorno in Italia, possibilmente non più via Grecia ma via Iugoslavia, sia per motivi economici sia di velocità. Trovo una coppia, un americano figlio di militari di stanza in Germania e la sua ragazza tedesca, con un cane di grossa taglia. Hanno un bel furgone che ha avuto dei problemi meccanici importanti a causa dei quali non hanno più soldi. Cercano compagni di viaggio disposti a pagare una cifra ragionevole per viaggiare insieme verso la Germania via, appunto, Iugoslavia. Aderisco subito al progetto e mi do da fare per cercare gli altri tre membri dell’equipaggio. Le condizioni sono 20 dollari a testa e di notte si dorme fuori dal furgone dove invece loro due stanno col cane. Mi informano anche che, a causa dei malanni, il mezzo non potrà andare oltre gli 80 km ora di velocità. In poche ore troviamo gli altri tre membri dell’equipaggio: il primo è Francesco P, di ritorno dall’India, felicissimo di rivedermi. Il suo intercalare tipico e frequente era “orca madoska“ e me ne rifila una raffica mentre ci raccontiamo le nostre avventure.

Col ragazzo americano condividiamo la passione per la musica Rock, lui suona la chitarra e per fortuna ha una dotazione di cassette ricca e qualificata; io sono incaricato di scegliere cosa suonare. Mi fa conoscere i Little Feat, per me ignoti allora, che diventeranno uno dei miei gruppi preferiti dal 1978 con l’uscita dello stupendo live “Waiting for Columbus“. Impieghiamo qualche giorno a fare il nostro viaggio. Io scendo a Novi Sad, attuale Slovenia, dove cerco un passaggio verso l’Italia. Ci salutiamo con Francesco e andiamo ciascuno per la propria strada. L’avrei incontrato di nuovo a San Benedetto del Tronto nel 1999 quando sono andato a lavorare come direttore sanitario dell’ASL di Fermo. Lui lavorava come fisioterapista in quella di San Benedetto e ci siamo ritrovati, con tanto di invito a cena.

Mi dà un passaggio fino alla frontiera un signore anziano ma in ottima forma. Mi chiede ovviamente notizie su di me e poi mi confessa che vive in Iugoslavia dalla fine della guerra e che non può rientrare in Italia poiché è stato tra i partigiani comunisti che non hanno accettato l’invito di Togliatti a deporre le armi e ha continuato a giustiziare i fascisti più compromessi del Friuli. Non avevo mai approfondito prima di allora la storia delle prime settimane successive al 25 Aprile ’45. L’incontro col mio autista mi ha ovviamente incuriosito e spinto a informarmi su un periodo di Storia  recente che interessa a tutti dimenticare.

Nel frattempo ho deciso di iscrivermi alla Scuola di Specializzazione di Igiene e Medicina Preventiva sciogliendo i dubbi residui rispetto all’ipotesi di fare Psichiatria. Ero andato a fare l’esame dopo aver fatto uno spinello col mio amico Fred e il professor De Marchi, forse ispirato dai miei occhi lucidi, mi aveva chiesto la differenza fra Illusioni e Allucinazioni. Ammirato per la brillante trattazione dell’argomento, oltre ad avermi proposto il 30 mi aveva chiesto se ero eventualmente interessato a specializzarmi in Psichiatria; gli ho risposto che la condizione di frequentare cinque anni a tempo pieno senza poter lavorare non era nei miei piani. E il viaggio mi aveva sciolto le ultime riserve.

Via treno sono arrivato a Desio, dove viveva la mia famiglia. E’ almeno un mese che non tocco alcol, massa grassa ridotta al minimo, muovermi molto con uno zaino di dieci chili mi ha rafforzato. Mi sento proprio bene, sono in perfetta forma fisica come non sono mai stato, soddisfatto per l’esperienza, carico per affrontare il futuro.

Ho preferito farmi i due chilometri dalla stazione a casa per il piacere di arrivare, suonare il campanello e dire: “Ciao mamma, sono arrivato”.



colonna sonora: Jan Garbarek & Ustad Fateh Ali Khan   Ragas and Sagas

colonna sonora: Nusrat Fateh Ali Khan  Nusrat Fateh Ali Khan

ROBERTO   NERI  MAGGIO 2020