lunedì 30 dicembre 2019

Zambo's Place PLAYLIST 2019



 
Questa è semplicemente la mia playlist personale, una delle tante apparse in questo mese sui social. Nella lista che segue ci sono solo dischi comprati o avuti rimasterizzati per donazione, qualche regalo, molti dischi del 2019 non li ho ascoltati oppure li ho ascoltati  su Spotify che reputo comunque un modo per avere solo una idea generale del disco, senza quell'approfondimento che consente il supporto fisico. Mi duole non aver ascoltato Free di Iggy Pop e i Purple Mountains (su segnalazione dell'amico Lino Brunetti), spero di farlo al più presto. Buon Anno.

disco dell'anno

The Delines   The Imperial (El Cortez Records)

Ci sono voluti cinque anni per dare seguito al già ottimo Colfax causa un brutto incidente occorso alla cantante Amy Boone ma il gruppo che fa capo al cantante/chitarrista/romanziere Willy  Vlautin ha colpito nel segno. Ballate malinconiche espressione di un'America provinciale dove le storie si consumano nelle stanze di qualche desolato motel. Tristezza e candore, armonie languide che trafiggono il cuore con la loro semplicità, atmosfere rarefatte tra il folk, il rock ed il soul, più qualche spruzzata di country. The Delines riescono a trasformare la desolazione esistenziale in una gioia tranquilla e riflessiva. Grigio ma bellissimo.

classix nouveau

The Dream Syndicate     These Times (Anti)

Cambiare per rimanere se stessi. Pur non entrando in rotta di collisione con il riconosciuto stile dei Syndicate, These Times occhieggia ad un suono più futuristico e spaziale dove l'elettronica, comunque ben dosata e controllata, crea un immaginario proiettato oltre il crudo realismo rock urbano della loro storia.  Ci sono echi e suoni riverberati, distorti e atmosferici, ci sono le ballate elettriche che ti tolgono il fiato  e c'è un flusso inarrestabile di immagini e flash, versi e parole su tutto ciò di cui si parla e si pensa oggi, un'opera moderna su un mondo che sta rapidamente precipitando, cambiando in modo così celere e brusco. Un  sound meno chitarristico che in passato ma un sound che dice della volontà di Stevie Wynn e soci di essere nel presente, una poetica visionaria a contatto con lo stridore e la confusione di un mondo che ha davanti a se più nebbia che speranze. Magistrale.

 






 Steve  Gunn    The Unseen In Between  (Matador)

Chitarrista dalle doti straordinarie, anni di studio e sperimentazione, collaborazioni con Michael Chapman, Kurt Vile e Mike Copper, Steve Gunn è una splendida realtà del rock di oggi e come con il precedente Eyes On The Line realizza un album straordinario e affascinante dove ballate dall'andamento circolare e vagamente ipnotico trovano i sincronismi perfetti e le fantasie strumentali di un band che espande il folk-rock verso un suono cosmico e bucolico. Visioni da sogno, liriche profonde, mantrici raga e riverberi chitarristici, melodie vagabonde, country-blues lisergico ed una estrosità rara, The Unseen In Between è contemporaneamente fresco, cristallino e acido. Unico.

 

Gospel Book Revisited    Morning Songs Midnight Lullabies (GBR Records)
 

Presentati inizialmente come una blues band, i torinesi Gosple Book Revisited hanno saltato il fosso portandosi comunque appresso il proprio bagaglio originario. Con Morning Songs Midnight Lullabies hanno arricchito le dodici battute con una moltitudine di schizzi sonori, arrangiamenti e aperture strumentali, deviazioni di percorso tanto da togliere gli espliciti riferimenti alle sacre scritture in nome di un sound sfaccettato, composito, a volte caustico, a volte dolce e tranquillizzante. Nelle canzoni del mattino ci sono i graffi elettrici di Umberto Poli, l'urgenza espressiva, la schiuma di un down-home agro che strizza l'occhio ai North Mississippi Allstars, qualche distorsione di rock, nelle ninne nanne della mezzanotte c'è il candore della cantante Camilla Maina, le carezze di suoni acustici, qualche tocco etnico ed un pianoforte classico.  Due facce molto diverse ma legate da un desiderio innovativo che rende giustizia ad un blues made in Italy che non si accontenta dei classici.
 

 

Lankum    The Livelong Day (Rough Trade)

Come far suonare le gighe e i reel irlandesi da John Cale e i Velvet Underground. Arrivano da Dublino coi loro strumenti tradizionali ma i quattro sono più avventurosi di un esploratore dell'ottocento. Prendono il materiale tradizionale della loro terra, tra cui la popolarissima The Wild Rover, e nelle loro mani diventa un'ipnotica ed intensissima lamentazione corale di dieci minuti con un montante intrecciarsi di chitarra, viola ed harmonium che si trasforma in un bordone lancinante. I Lankum riescono a stare alla larga dai luoghi comuni allineando composizioni proprie, cover, tradizionali e ballate affogandole nella drone music con un atteggiamento eretico che unisce John Cale, i mantra ed il krautrock. Heavy-folk visionario, potente, dark, conturbante ed attraente.

 

 

Francesco  Piu       Crossing (Appaloosa)

Dissacrante e luminosa reinterpretazione di Robert Johnson, Francesco Piu porta il Delta blues in Sardegna e riveste il repertorio dell'uomo dei crossroads in modo del tutto anticonvenzionale  con musicisti e suoni della sua terra e con strumenti della più ampia tradizione mediterranea e africana. Il risultato è un disco magico e misterioso, pieno di fantasia, eppure moderno, dove il profondo amore per il blues dell'autore si salda con l'amore per la sua terra e per l'umanità nelle sue diversità. Echi ancestrali e trasfigurato country-blues, feedback elettrici e launeddas, sampler elettronici e fisarmoniche, il mondo agro-pastorale  a contatto di alchimie tribali, zufoli, bouzouki e Gibson, Crossing emana energia contagiosa, è coraggioso e audacemente innovativo. Un'altra testimonianza che non sempre siamo la periferia dell' Impero.

 

classic

 

Little Steven and the Disciples Of Soul   Summer of Sorcery (Universal)

Little Steven,  è lui oggi a tenere desto il ricordo di quell'Asbury Sound che tanto ha contribuito alle nostre gioie rock. Miami Steve Van Zandt oltre che musicista e produttore è un grande conoscitore di musica, in primis quella legata agli albori del rock come il garage, il soul psichedelico, il beat, la musica degli anni sessanta e tutte quei nuggets che hanno contribuito a porre le fondamenta di ciò che è venuto dopo. Se il precedente Soulfire  esplorava il lato più propriamente R&B con tanto di annessi e connessi in quello stile che lo stesso artista definiva soul horns meets rock n'roll guitars, per Summer of Sorcery  Little Steven va ancora più a ritroso spingendosi ai suoi anni di gioventù quando le canzoni facevano da colonna sonora dell'estate, quell' eccitante stagione in cui ventenne ti innamoravi per la prima volta della vita, quell' emozione unica che ti faceva sentire vivo. Al suono del rock n'roll che si mischia col garage, del R&B che incontra la musica latina in quella dimensione che era propria di certi sobborghi newyorchesi dove le contaminazioni e il melting razziale erano già diffusi negli anni sessanta. E poi le chitarre e le festose voci femminili, le percussioni portoricane e i fiati che grondano soul, gli arrangiamenti del Wall of Sound e i coretti del doo-wop. Un collage sonoro festoso e  contagioso, brillante e romantico, con una delle ballate elettriche (Summer of Sorcery) più emozionanti dell'anno, assolo di sax alla Clemons compreso.
 

 

JJ Cale     Stay Around (Because)

Assemblato postumo con materiale proveniente da diverse fonti ed età, Stay Around  suona rilassato e caldo come uno dei più riusciti album dell'Okie. Country-blues dolente e coccolante, accordi al minimo e ritmi sinuosamente ipnotici, ballate arse dal sole e sussurri notturni, c'è tutto il rinomato vangelo laid back in Stay Around  senza una nota stonata, un accenno di stanchezza ed una sensazione di vecchiume. Solo musica per sognatori schivi e pigri.  Più classico di JJ Cale non c'è nessuno, il suo tocco chitarristico è inconfondibile, la sua voce ombrosa è una carezza per l'anima, il suo blues è la dimostrazione che le cucine migliori sono quelle che vanno di sottrazione, less is better , e non di abbondanza. Uno stile, un maestro, ha vissuto con sua moglie e i suoi animali isolato e tranquillo nella sua casa ai confini del deserto senza mai mischiarsi al chiasso del circo mediatico, finanziandosi coi diritti d'autore di canzoni (Cocaine, Call Me The Breeze, After Midnight) che hanno fatto la storia del rock. Un gigante.

Jimmy "Duck" Holmes      Cypress Grove  (Easy Eye Sound)
 

Jimmy "Duck" Holmes è colui che ha trasmesso ai giorni nostri il Bentonia sound, un particolare sottogenere di Delta blues reso celebre da Skip James. Bentonia è una località sperduta in mezzo al Mississippi fatta di poche case e di un juke-joint, il Blue Front Cafè, che i fine settimana si anima di blues e di gente locale che  va a bere e ballare. Un vecchio pezzo d'America resistito al tempo e alla modernità, dove la musica è l'unico passatempo di vite spesso dimenticate. Holmes ha 72 e non ha mai smesso di suonare il suo ruvido e spartano Bentonia blues ma in Cypress Grove raggiunge vette eccelse grazie all' aiuto e all'attenta e misurata produzione di Dan Auerbach dei Black Keys, il quale si è innamorato della sua musica e del suo stile asciutto, arcaico, umano. Qualche pezzo solitario in acustico, molti elettrici con l'aiuto di basso, batteria ed una ulteriore chitarra (Auerbach), Jimmy "Duck" Holmes oltre ad avere un tocco caratteristico, possiede una bella voce in grado di dare nuova lucentezza a classici come Cypress Grove, Catfish Blues, Rock Me Baby, Little Red Rooster, Trian Train, Devil Got My Woman. Antiquariato povero ma di classe.

 

Gov't Mule     Bring On The Music (Provogue)

Di Live dei Muli ne sono usciti parecchi ma se si eccettua lo straordinario e monumentale quadruplo Live....from a little help from our friends, questo per chi scrive è il migliore. Registrato al Capitol Theatre di Port Chester, stato di New York, nel 25esimo anniversario della loro nascita, è un tour de force incredibile di quanto possano dare i Muli dal vivo in una delle venue da loro preferite. Rock, blues, soul, jazz, psichedelia, reggae, i quattro ovvero il chitarrista e cantante Warren Haynes, il batterista Matt Abts, il tastierista Danny Louis ed il bassista Jorgen Carlsson offrono il meglio di se  con una potenza ed un feeling che solo poche band possono vantare oggi dal vivo, anche nell'ambito jam in cui loro sguazzano. Meno duri e hard-rock che in altre occasioni, i Muli di Bring On The Music raggiungono livelli stellari sia nelle loro composizioni che nelle poche cover qui presenti. Sentitevi la medley Funny Little Tragedy/Message in A Bottle e ve ne renderete conto, riescono pure ad essere la miglior punk band del pianeta. Esistono due versioni di questo live, un doppio Cd con doppio Dvd e un doppio CD, peraltro molto diversi tra loro nelle scalette, io ho acquistato il formato più semplice ma basta e avanza.

The Who      Who  (Polydor)

Intendiamoci, questo non è ne un capolavoro ne un disco minimamente paragonabile ai loro classici, anche se Townshend lo considera il loro migliore dai tempi di Quadrophenia, ma è il dignitoso lavoro di una delle band di British rock più longeve esistenti, che nella routine di chi ormai ha i propri glory days persi nelle nebbie del passato sa ancora infilare alcuni grandi assist. Così Who  possiede canzoni che potete benissimo farne a meno perché tirate un po' troppo per i capelli, succede con Street Song ad esempio, ed altre invece capaci di trasmetter quel mix di solennità, potenza sonica ed epicità per cui sono diventati famosi gli Who.  All This Music Must Fade e Hero Ground Zero  evocano il passato glorioso e non sfigurano, Ball and Chain cita Guantanamo e le vergogne umane (le canzoni fanno riferimento allo stato esplosivo delle cose di oggi), in altri momenti sono i tempi medi della ballata, qualcuna come I'll Be Back pure arrangiata con l'orchestra, a completare un quadro per nulla misero e scontato. Ho preso il disco dopo aver letto recensioni sconfortanti ma dopo un paio di ascolti mi sono reso conto che la classe non è andata dispersa e c'erano ragioni per guardare con simpatia a questi due vecchietti del rock, Townshend e Daltrey (con loro ci sono il batterista Zak Starkey, il bassista Pino Palladino ed un po' di invitati) che quando ingranano la marcia giusta regalano ancora grande rock.        

 

soul bag
 

Sembra ridiventato di moda il soul tra le band di ultima o penultima generazione. Non sto parlando di nu-soul o robe del genere ma del vecchio caro soul di casa Memphis, Motown e Muscle Shoals. Diversi i dischi usciti nel segno della musica afroamericana del passato pur con le sfumature e le idee del presente, qualcuno di prossima pubblicazione come El Dorado di Marcus King che, abbandonate per un attimo le jam chitarristiche di rock-blues, si cimenta nel genere. Il più acclamato del 2019 è senza dubbio Michael Kiwanuka col suo Kiwanuka, artista che ha fatto il pienone a Milano raccogliendo ovazioni ovunque. Personalmente lo trovo piuttosto patinato per i miei gusti seppure decisamente interessante, ma è un parere assolutamente opinabile, piuttosto preferisco dischi con un tasso di rozzezza rock in più pur se collocati nelle melodie del genere soul.  Mi sono piaciuti, senza strapparmi i pochi capelli rimasti, gli australiani Teskey Brothers, un quartetto di base a Melbourne che dopo l'album d'esordio del 2017, Half  Mile Harvest, che pareva una registrazione uscita dai Muscle Shoals, hanno bissato col nuovo disco Run Home Slow ( Decca) .  Ascoltando il loro disco del 2019 si pensa subito al sound della Stax Records di Memphis, alle ugole arrochite dei soul singers (splendida la voce di Josh Teskey) degli anni sessanta, a quel connubio di suoni che attraversano il southern soul americano portandosi appresso una slide di blues, la certosina chitarra di Eddie Hinton e tanto laid back. E arrivano a lambire anche americana. Per navigare meglio nelle nuove acque si sono fatti aiutare dal produttore Paul Butler , lo stesso di Michael Kiwanuka.
 


Più sofisticati i Black Pumas  dell'omonimo primo album, un duo formato dal bianco Adrian Quesada addetto alle parti strumentali e dal cantante nero Eric Burton. Sfruttando l'aiuto di un nugolo di musicisti, si divertono a creare un soul avvolgente e ammiccante che ha radici nel passato ma è contemporaneamente moderno e possiede pure un quid commerciale che potrebbe entrare nelle stazioni radio, se non fossero cosiì tutte addomesticate. Di stanza ad Austin ma del tutto anomali come texani  ridanno fiato al soul di Donny Hathaway, di Sam Cooke e di Curtis Mayfield  con ballate che si slegano dai clichè del genere, caratterizzate da ambientazioni strumentali fantasiose. Romantici, ballerini, freschi, in Black Pumas (Ato Records) c'è una idea di musica black a 360 gradi in una girandola di brani dove si mescolano e si susseguono soul e rhythm and blues, un pizzico di folk ed un soffio di suadente psichedelia, l'aroma della musica di Amy Winehouse ed in filigrana una polverosa patina hip-hop che comunque non toglie ma valorizza ulteriormente il sapore vintage dell'operazione.  E' la dimostrazione che il campo è vario e fertile, si pensi ad esempio ai lavori  di Yola, ex homeless di Bristol e corista per Massive Attack e Chemical Brothers, "resuscitata" negli Stati Uniti grazie alla produzione di Dan Auerbach, e i francesi misconosciuti dei Malted Milk, un orchestra capace dal vivo di allestire uno spettacolo grandioso. Molto interessante, sempre parlando di soul qui con un tasso funky marcato, il loro Love, Tears & Guns (Blues Production). Mentre i GA-20 ( il nome deriva da un vecchio modello di ampli Gibosn),tre ragazzi di casa nella puritana Boston che nel disco di esordio hanno avuto invitati quali Luther Dickinson e Charlie Musselwhite, nel loro Lonely Soul (Karma Chief) mettono insieme la parte più blues dei Black Keys (ma in diverse tracce sembra di ascoltare i Fleetwood Mac del periodo inglese) con il suono sfilacciato e logoro del Sud. Andando comunque alla ricerca del suono vintage a basse frequenze, caldo e corposo, con quello stile grezzo che interseca le radici del blues con l'impudenza del rock e la carica sensuale del R&B.. Abili nel recuperare il passato dandone un'impronta personale ed uno strattone a tutto ciò che risulta stagionato, i GA-20 non sono la next big thing  ma un onesto combo che mantiene vivo il suono degli anni 50 e 60.
 

Scoppiettante, euforico, energetico (il suo show al Magnolia è stato uno dei miei concerti dell'anno) Nick Waterhouse , californiano figlio di una commessa e di vigile del fuoco, cresciuto ad Huntington Beach, chitarrista e cantante ma anche collezionista di vecchi 45 giri di R&B e alchimista di studio, ha sorpreso nuovamente con un disco che focalizza tutte le qualità e le passioni di un artigiano fai da te, contemporaneamente musicista, arrangiatore, produttore, songwriter e cantante, in grado di riversare il fascino del vintage sound degli anni cinquanta in melodie fresche e ritmi scavezzacollo atti a trasporre una musica senza tempo. Co-prodotto con Paul Butler ( sempre lo stesso di Kiwanuka e Black Pumas oltre che Devendra Benheart) e suonato con un po'di musicisti-amici Nick Waterhouse  (Innovative Leisure Record) elenca undici composizioni che abbracciano senza soluzione di continuità il soul, il rock n' roll della Bay Area, il rockabilly, swing e twangin'anni '50, il R&B, la surf music con una omogeneità stilistica che l'autore tiene insieme grazie ad un modo di suonare e cantare brioso, divertente, leggero, ricco di trovate e dettagli dove c'è spazio per sassofoni e cori femminili. Un disco dal fascino antico ma allegramente moderno. Piacerà a chi una volta apprezzava il gesto di Ben Vaughn, Rainer Das Combo, Violent Femmes ma non disdegna neppure Nathaniel Rateliff,  Allah-Las, Lee Fields e Ty Segal.

archives

Ho selezionato volutamente alcune ristampe a prezzo contenuto perché, salvo eccezioni, trovo indecoroso il costo di edizioni deluxe (la cui musica è già stata pagata a suo tempo) il cui prezzo esorbitante è (in)giustificato solo dalla presenza di out-takes, spesso insignificanti, dalla confezione  e dal booklet interno. Naturalmente ognuno può spendere i propri soldi come vuole, ci mancherebbe, ma edizioni che costano 100 e passa euro fanno solo la gioia del collezionista più incallito. Non nascondo che in passato per acquistare un box contenente tutti i vinili Decca rimasterizzati degli Stones abbia pagato più di 200 euro ma non so se oggi lo rifarei.
Rory Gallagher    Blues (Chess)

Tutto il blues dell'irlandese: acustico, elettrico e dal vivo. Sangue, sudore, polvere da sparo. Diverso materiale già edito, altro no, un triplo CD che è una chicca ed una goduria per cuore ed orecchie, per di più ad un prezzo stracciatissimo.
 
The Rolling Stones  Bridges To Buenos Aires (Eagle)

La fede musicale come quella calcistica non si tradisce ma se Bridges To Bremen  era la testimonianza di un concerto abbastanza di routine, questo show tratto dallo stesso  Bridges To Babylon Tour del 1997/98 è una bomba da qualsiasi parte lo si osservi, per la performance, per il pubblico, per la scaletta, per lo spettacolo. Buenos Aires è sempre stata una piazza calda per gli Stones, qui la temperatura è bollente. Doppio CD con DVD, 140 minuti di esilarante, animalesco,puro rock n'roll.
Gregg Allman   Laid Back (Mercury)

Subito dopo la scomparsa di Duane, gli Allman si misero al lavoro per riprendersi dallo shock incidendo l'album della svolta, Brothers and Sisters, ma negli stessi giorni il fratello Gregg decise di tentare la via solista con alcuni musicisti ed amici del giro di Macon. Laid Back è un disco molto diverso dal Gregg della band, e per molti versi assomiglia al suo canto del cigno Southern Blood. Malinconico, crepuscolare, ricco di ballate e di soul tra cui l'immortale Midnight Rider, a tratti commovente, con alcune cover compreso l'immancabile Jackson Browne. La riedizione vede l'originale del 1973  affiancato da un secondo CD pieno di inediti ed out-takes, questa volta significative. Prezzo abbordabilissmo.

 

quella sporca mezza dozzina

Tedeschi-Trucks Band       Milano 17/04/19

Little Steven & The Disciples of Soul   Parigi 23/06/19

The Dream Syndicate        Milano 19/06/19

Nick Waterhouse     Milano  5/11/19

Larkin Poe                 Milano  29/03/19

Ronnie Wood       Birmingham  25/11/19



MAURO ZAMBELLINI 30 dicembre 2019

 

 































martedì 24 dicembre 2019

40 LONG YEARS: on the road of MANDOLIN' BROTHERS

Quaranta anni di attività musicale continuando comunque ad avere un lavoro al di fuori della musica per poter vivere e coltivare la propria passione, è una impresa che almeno in Italia ha dell'eroico. Eppure i Mandolin' Brothers pur con qualche alto e basso sono arrivati indenni (quasi) e pimpanti alla soglia del 2020 sfoderando tra l'altro 6, il miglior disco, almeno per chi scrive, della loro lunga avventura. Formatisi nel 1979, in tempi assolutamente non sospetti, grazie alle intuizioni di Jimmy Ragazzon, armonicista e cantante amante di Dylan e Vietnam, e Paolo Canevari, eccellente chitarrista per lo più Fender, i quali si inventarono un duo acustico per supportare i concerti della Treves Blues Band. Suonavano blues acustico quasi per divertimento dopolavoristico ma l'introduzione due anni dopo di un bassista e di un batterista portò il combo ad abbracciare sonorità elettriche con l'orecchio rivolto ai classici del genere ma disposti ad allargarsi verso il rock dei cantautori elettrici americani e a quello che ancora non veniva chiamato americana ma semplicemente roots-rock.
 
Le prime testimonianze a livello di registrazione dicono di una presenza nella compilation Dixie In Rock (1985) a fianco di nomi quali Tolo Marton e la Baker Street Band ed una cassetta autoprodotta nel 1994 con l'eloquente titolo Roots & Roll. Ma bisogna aspettare il 2001 per avere il primo e vero CD dei Mandolin' Brothers. For Real vede Ragazzon e Canevari contornati dal chitarrista e mandolinista Bruno De Faveri, dal bassista Riccardo Fortin, dal batterista Daniele Negro,  quest'ultimo ancora uno dei perni della band, e dal fisarmonicista Stefano Cattaneo. Dodici tracce di roots & roll music come amano definirla loro, undici scritte da Ragazzon con l'aiuto a rotazione degli altri, più la cover di Willin' dei Little Feat, altra passione del leader che non mancherà mai di citare la band di Lowell George come una delle "fisse" del loro background, una influenza che è diventata una vera radice del loro suono tanto che il recente 6 si apre proprio con My Girl In Blue, un esplicito omaggio allo stile dei Feats.


 

Non è comunque in discesa la strada per i MB, il fatto di cantare in inglese in Italia non apre molte porte se non quella della nicchia degli appassionati del genere, che ormai in Italia si conoscono tutti dato il numero non certo da capogiro, e poi alcune vicende personali portano il gruppo a perdere qualche pezzo. Devono passare ben sette anni, trascorsi nella più dura gavetta di concerti nelle periferie del rock e del blues, per respirare una boccata di ossigeno rigeneratrice. Nel gennaio 2007 i MB sono difatti invitati negli Stati Uniti per alcuni concerti al Broward Center for the Performing Arts e al China White Club di Fort Lauderdale in Florida. Una relazione  quella con gli Stati Uniti che non si esaurisce lì ma conoscerà seguiti importanti. Nella primavera del 2009 i MB sono ad Austin, Texas per suonare e per registrare alcuni nuovi brani nello studio di Merel Bregante, storico batterista country-rock, collaborando con lo stesso, con Kenny Grimes, Doug Hudson, Carl Lo Schiavo (Sarah Pierce Band), Lynn Daniel, Cody Braun dei Reckless Kelly e Cindy Cashdollar ( Dylan e Van Morrison). Nel luglio dello stesso vincono le selezioni dell'International Blues Challenge con la possibilità di esibirsi davanti ad un pubblico entusiasta al New Daisey Theater e al BB King Blues Club di Memphis. Ci arrivano forti di un album, Still Got Dreams co-prodotto con Massimo Visentini, ingegnere del suono di Paolo Conte e con una formazione rinnovata. Accanto a Ragazzon, Canevari, Negro e Bruno De Faveri sono ora il preciso bassista Giuseppe "Joe"Barreca ed il funambolico Riccardo Maccabruni, musicista dalle cento iniziative che aggiungerà col piano, l'organo e soprattutto la fisarmonica una versatilità roots ancora più marcata nel variopinto sound della band. Lo si vede soprattutto nei live scoppiettanti e coinvolgenti che diventano il miglior biglietto da visita dei Mandolin', sul palco ci sanno fare dal punto di vista tecnico ma pure con l'impatto fisico e lo sfruttano creandosi un seguito di fedeli che assomiglia a quello dei Cheap Wine e dei Gang, una tribù che si sposta per divertirsi e condividere il loro messaggio assolutamente genuino. Così nel giro di un anno fanno uscire ben due dischi live.

 
Il primo 30 Lives! celebra i trentanni di attività con una selezione dei loro classici, in larga parte estratti da Still Got Dreams più un doveroso omaggio ai loro maestri David Crosby (Almost Cut My Air), Blind Willie Johnson e Fred McDowell (Dark Was The Night), Muddy Waters (Troubles No More), ancora i Feats di Dixie Chicken e i Neville Brothers di Iko Iko, il secondo, Moon Road-Usa 2010 registrato ad Austin, cronaca del loro viaggio negli Stati Uniti con brani inediti, invitati del luogo e set di immagini realizzato dal regista Piergiorgio Gay. I Mandolin' cominciano a raccogliere il frutto del loro tenace lavoro, nonostante alcuni eventi luttuosi incrinino il loro  ottimismo, ma è sul palco che si conquistano una rispettabilità che li rivela come il più brillante combo di americana esistente alle nostre latitudini. Sanno interagire l'uno con l'altro sfornando un crossover che fonde l'acuto songwriting del leader con suoni presi dal country-rock, dalle armonie west-coast in virtù di intrecci vocali plurimi, dal folk, dal blues, dallo swamp-rock e dalla roots music. Tra il 2012 ed il 2014 sono di scena al EuropaFest a Bucarest, al Folkest, al Narcao Blues Festival, a Windmill a Londra e nell'anniversario di pubblicazione di Highway 61 Revisited di Dylan nel 2015 allestiscono alcuni set dove suonano l'intero album. Ma il salto in avanti, discograficamente parlando, lo fanno quando sulla loro strada incontrano Jono Manson il quale cura e produce Far Out (2014) votato come secondo miglior album di rock italiano dal poll di lettori del Buscadero. Un album pieno, corposo, con una complessità sonora che beneficia di una line-up ormai definitiva e collaudata (al posto di De Faveri c'è la chitarra e il mandolino di Marco Rovino) e di guest di prestigio (John Popper con l'armonica, Cindy Cashdollar con la weissborn guitar, Jono Manson, Edward Abbiati), anche una sezione fiati che soffia potente in Hey Senorita, un titolo che sa di Willy DeVille. Un organico perfettamente sincronizzato ed un singer/songwriter capace di buttar giù canzoni con un taglio internazionale trovano nella produzione di Jono Manson quel quid di professionalità che conferisce al disco una qualità superiore. Che si riversa nei diversi aspetti, vocali, strumentali, di arrangiamento e di insieme. Ragione per cui nel 40esimo anniversario della loro "carriera" i MB  si rivolgondo ancora a Jono Manson per produrre 6, disco uscito da poco, presentato in anteprima il 30 novembre al Teatro 89 di Milano ed il 14 dicembre alla Parrocchia del Blues di Godiasco. Il 30 gennaio saranno in azione nell'amato SpazioMusica di Pavia.
6 è ancora più solido di Far Out pur essendone la naturale continuazione, avvalorata pure iconograficamente con una grafica delle copertine ed una scelta delle foto che rimanda all'immaginario country-rock americano degli anni 70, molto Flying Burrito Bros. per intenderci , con un tocco Dixie in più e senza le camicie di Gram Parsons. Un disco ed una estetica che immortala una band che è cresciuta in pubblico e sulla strada. A loro dire c''è voluto molta fatica e impegno per realizzare il nuovo lavoro ma ciò che esce è la fotografia perfettamente a fuoco di cosa siano oggi musicalmente i Mandolin' Brothers, con tutte le sfaccettature di un'orchestra rock che suona le radici dell'american music, dal southern mood alla Little Feat di My Girl In Blue all'heartland rock al sapore di Mellencamp di Down Here, dalla lenta e riflessiva It's Time segnata dal pianoforte di Maccabruni e dall'ottimo inciso di chitarra elettrica di Marco Rovino, agli scalpitanti Bottlerockets di Face The Music firmata dalla stesso Manson. Ma il menu è molto ricco perché le armonie rurali di A Sip of Life si accompagnano al folk sussurato blues di Lazy Day e l'urlo rock (l'inizio è alla Led Zeppelin) di Lost Love con la chitarra di Canevari in gran spolvero alle suggestioni The Band di If You Don't Stop dove fisarmonica e mandolino padroneggiano. E ancora l'intensa ballata rock Bad Nights impreziosita dall'Hammond di Maccabruni e dalla elettrica di Paolo Bonfanti, con la splendida cover di The Other Kind di Steve Earle, inno di resistenza e di "diversità" in cui i ragazzi si riconoscono. Sentirsi comunque dall'altra parte della strada, dopo 40 anni on the road, quaranta anni di canzoni uscite dalla propria anima rincorrendo ancora i sogni, con ancora molte cose da fare e ancora tante storie da raccontare, sono le parole con cui inizia 40 Long Years la canzone-autobiografica che chiude 6 e lascia aperta una meravigliosa avventura.
 
MAURO ZAMBELLINI   DICEMBRE 2019
















martedì 17 dicembre 2019

CATHOLIC BOY THE JIM CARROLL BAND


Un nome da scolpire sull’Empire State Building ed un disco che ancora oggi suona potente ed esaltante, ristampato oggi in vinile dalla Fat Possum una etichetta che solitamente si occupa di North Hills e Delta blues. Quella di Catholic Boy è invece pura poesia rock urbana ma una poesia al serramanico che nel 1980 deflagrò nella New York post punk. Jim Carroll inizia come scrittore e poeta ( Jim Entra Nel Campo di Basket, Jim ha cambiato strada  e Living At The Movies) ma come Patti Smith  decide di sostituire la macchina da scrivere con la musica per rendere ancora più diretto e lancinante il suo linguaggio crudo e senza mediazioni, frutto di giovanili storie personali tra campi di basket, collegi, droga e prostituzione. Un' esperienza diretta che lo lega ad una New York molto prossima a quella di Ultima Fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr. ovvero degrado, violenza  ed un solo uno spiraglio di redenzione, quello di uscire dall'eroina con la prosa e la poesia dopo aver tentato invano la fortuna con la pallacanestro. E' la New York che Alan Vega dei Suicide così dipinge " una città sporca che puzzava di bancarotta, un buco degradato con spazzatura ovunque, ratti che regnavano sui bidoni dell'immondizia stracolmi, senzatetto che dormivano per strada, punk rocker maltrattati, gang di delinquenti e graffiti. era un mondo perfetto."  Catholic Boy  è un album di rock secco, spietato, affilato come una lama di coltello, un esordio al fulmicotone che mischia testi al neon, flash allucinati, stringati assoli di chitarra ed una ritmica a mitraglia. E’ l’urgenza di chi vive all’angolo della strada aspettando il suo uomo con sei dollari nella mano  ma spera che la vita diventi qualcosa di diverso dall'avere una scimmia sulla schiena. Baudelaire è nella testa ma le chitarre sorreggono un messaggio che ha bisogno di elettricità e forza, oltre che di cuore.  Forse i soli Lou Reed e Willy DeVille hanno raccontato l'inferno urbano come Jim Carroll, il quale da una esistenza in costante pericolo di caduta estrae pillole di bellezza come la ballata dai colori  lividi scritta con Allen Lanier dei Blue Oyster Cult (Day and Night ) e come la lunga e meravigliosa City Drops Into The Night, una cavalcata rock dove soffia notturno il sax degli Stones Bobby Keys. Non a caso Jim Carroll fu il primo artista assieme a Peter Tosh ad entrare nella scuderia delle pietre rotolanti anche se poi il disco uscì per la Atco con la co-produzione di Earl McGrath e Bob Clearmountain.  La nuova ristampa non aggiunge nulla a quello che è già un capolavoro, il primo ed il migliore di tre album a firma Jim Carroll, morto di attacco cardiaco nella sua casa di Manhattan l'11 settembre 2009. Con Carroll è un quartetto di squinternati che non ha certo nella bravura tecnica le proprie virtù, Wayne Woods picchia la batteria come la volesse punire, i chitarristi Brian Linsley e Terrell Winn sono cresciuti a pane e Ramones, Steve Linsley è un bassista alla Paul Simonon, insieme sono una gang che mira al sodo per rendere la poesia del leader il miglior rock n'roll espresso dai bassifondi della Grande Mela in quel cambio di decade. Il disco inizia con Wicked Gravity ed è una fucilata, stacchi e ripartenze, il ritmo accelerato dalle pillole, la voce di Carroll è orgogliosamente lapidaria, le chitarre metalliche evocano i BOC, la teppa urbana è a raccolta. Non sono da meno Three Sisters, Nothing Is True e soprattutto People Who Died, anfetamina in note rock usata da molti, diventata nel tempo un brano iconico. E' finita nel film del 1985 Tuff Turf, nel repertorio di John Cale, degli Hollywood Vampires, dei Drive By Truckers e di qualche altro. L'unica ballata del disco è la commovente Day and Night ( un voluto capovolgimento temporale rispetto al classico di  Cole Porter) che conta sulle  tastiere di Allen Lanier , il quale si fa sentire anche in I Want The Angel, una supplicante preghiera esposta con l'urgenza di chi la vita non dà gli tregua.

La facciata B del Lp parte con City Drops Into The Night, la band gira a mille e Jim Carroll trasforma quella che è un reading di poesia in una sferzante dimostrazione di quanta verità può esserci nel rock n'roll se eseguito con sincerità e realismo. Crow e It's Too Late sono due fiondate elettriche degne di Johnny Thunders e Catholic Boy è l'acido e sarcastico manifesto di un album che non dovrebbe mancare in nessuna collezione rock che si rispetti. Nel giro di pochi mesi in quell'era uscirono London Calling dei Clash, The River di Springsteen, Remain In Light dei Talking Heads, il primo Willie Nile e appunto Catholic Boy, si poteva chiudere bottega lì.

 

MAURO ZAMBELLINI    DICEMBRE 2019

venerdì 6 dicembre 2019

CLUB 27 di Chris Salewicz Shake Edizioni


Nonostante il sottotitolo strilli La maledizione del rock e la morte degli Dei questo di Chris Salewicz non è un testo che si bea della morbosa curiosità che fa capo al famoso adagio sesso, droga&rock n'roll ma è un trattato serio, ben fatto e circostanziato su alcune vite disastrate della nostra musica definite maledette solo perché i protagonisti di cui si parla non sono stati capaci di lenire i propri dolori esistenziali ed il senso di inadeguatezza vissuto se non con la droga, l'alcol ed in qualche caso il sesso. Chris Salewicz, giornalista musicale inglese tra i più accreditati, autore tra gli altri di Bob Marley, la sua storia mai raccontata (2017) e Redemption Song, la ballata di Joe Strummer (2016) elenca una serie  di nomi riuniti nel Club 27 morti a ventisette anni per via di overdose, suicidi, incidenti, collassi, autodistruzione, follia, più di tutto una vita spinta al limite dell'incoscienza, e ne scrive senza cercare di stupire o fomentare uno scandalo ma, al contrario, assumendo un tono discreto, quasi accorato, come se volesse essere lì a rendere credibili alcune esistenze maudit solo più che altro per l'imperizia con cui sono state vissute. Le coincidenze lasciano un po' il tempo che trovano, anche se a ben guardare qualcosa ci deve pur essere se poco tempo prima della loro scomparsa Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison sentissero quasi contemporaneamente aleggiare su sé stessi un alone sinistro, ma non è quello il punto, piuttosto i nomi riuniti nel Club 27 di Chris Salewicz incutono ancora apprensione, vuoi per la singolarità dell'associazione, vuoi per il ripetersi di alcuni schemi ricorrenti come se la parabola di ascesa e caduta dei protagonisti fosse decisa da un destino già scritto. E' come se fossero rimasti giovani per sempre o assurti ad una sorta di immortalità dove la morte non è la fine ma la consacrazione in un pantheon di Dei bramosi di un vivere eccessivo, più che trasgressivo. Come Amy Winehouse arrivata al successo, enorme, con un paio di dischi e dozzine di milioni di copie vendute, che si portava dietro una storia famigliare complessa, curata con un uso smodato di alcol e pasticci assortiti. Morirà sola, come Janis Joplin, altro esempio, al pari di Jimi Hendrix, in cui le insicurezze annidate nell'infanzia grazie a famiglie burrascose o del tutto inesistenti si sommano alle pressioni innate dell'istinto artistico e nell'ambito di un circo mediatico e di un mercato dove le idee e i valori reggono a giorni alterni, almeno quanto i rapporti umani. Pubblico e privato entrano in corto circuito ed è lì che il pericolo diventa una concreta realtà. Oppure come Jim Morrison, uno che non riusciva mai a tirarsi indietro ma alle spalle aveva un padre autoritario, George Stephen Morrison che non era soltanto un ammiraglio della marina militare americana ma era anche il comandante nel Golfo del Tonchino dove maturò il falso incidente che diventerà il casus belli della guerra del Vietnam. Chris Salewicz racconta l'odissea artistica di sette artisti con prosa asciutta e precisione di dati, concerti, tour, dischi ed avvenimenti, senza soffermarsi troppo sulle singole debolezze anche se queste immancabilmente accompagnano una fine prevedibile, magari non del tutto nel caso di Jimi Hendrix e Robert Johnson, l'unico tra quelli qui presentii ad appartenere ad un mondo diverso da quello del rock e di cui l'autore smonta amabilmente la leggenda secondo cui avesse venduto l'anima al diavolo in un crocicchio. Caso mai in quel crocicchio ci passò Tommy Johnson, e non Robert, bluesman noto per le canzoni Canned Heat Blues e Maggie Campbell Blues, in uno di quei riti che sono parte integrante di tanto animismo africano, reliquia dell'epoca dello schiavismo.

Se la fine della Joplin, di Morrison, Brian Jones ed Hendrix possono apparire degli incidenti di percorso, tesi difficile da accettare alla luce della loro dieta tossica, si era negli anni sessanta e molti degli effetti "secondari" non erano del tutto noti perché quello che contava era oltrepassare le porte della percezione, come insegnavano i "cattivi" maestri Burroughs, Huxley e Castaneda, più dolorosa appare l'insofferenza di Kurt Cobain sfociata in una tossicodipendenza da moderno junkie disperato. Il tutto riportato nel perimetro di un caos grunge di gente che dormiva per terra, nutrendosi in qualche modo, viaggiando su furgoni scassati in cerca di qualcosa che aveva a che fare con la musica ma che è rimasto indefinito, seguendo percorsi sotterranei molto fragili e poco salubri. Un itinerario apparentemente agli antipodi della sfavillante vita in una rock n' roll band che ha il nome di Rolling Stones. Il talentuoso Brian Jones, che già andava in cerca di altre direzioni, era ormai fuori posto, la sua morte a ridosso dell'uscita dalla band scopre una delle condanne degli gli accoliti del Club 27, il peso della solitudine. Protagonisti destinati al successo (ad eccezione di Robert Johnson) e questo al posto di risolvere i nodi, le  zone d'ombra, le notti insonni, le elevasse all'ennesima potenza. Creativi, controversi, magici e innovativi, ricchi, assetati di sesso e droga, disperati ma produttori di una musica che come il loro mito rimarrà eterna. Chris Salewicz racconta in modo avvincente ed in maniera inedita le tragiche ed intime storie di Amy Winehouse, Kurt Cobain, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison e Robert Johnson, ovvero il Club 27 uno dei tanti misteri del rock n'roll.

MAURO ZAMBELLINI  

martedì 8 ottobre 2019

LAID BACK



La ristampa in versione espansa del primo album solista di Gregg Allman consente di ritornare all'inizio degli anni settanta quando la Allman Brothers Band e i suoi musicisti rappresentavano la nuova musica che stava uscendo dal Sud degli Stati Uniti e inondava con una forza dirompente l'intero panorama del rock-blues internazionale.

Non furono esattamente mesi ridenti quelli che seguirono la morte prima di Duane Allman e poi del bassista Berry Oakley, due tra i fondatori della Allman Brothers Band. In particolare Gregg Allman, fratello di Duane, si ritrovò in un momento di sconforto e di smarrimento e sul futuro della band sembrava addensarsi una cappa scura di pessimismo. La settimana dopo la morte di Duane avvenuta il 21 ottobre del 1971, il doppio album Live at Fillmore East  era schizzato nelle prime posizioni della classifica dei dischi più venduti scoperchiando quel vulcano che Duane aveva contribuito a costruire. Cominciarono ad arrivare i soldi ma la tragedia incombeva di nuovo come un avvoltoio. La band si era trasferita ai Criteria Studio di Miami per lavorare a Eat a Peach, l'album iniziato un paio di settimane prima la scomparsa di Duane. Sapevano che dovevano portare a termine il lavoro e poi rifugiarsi in tour perché quello era l'unico modo per esorcizzare il lutto e tenersi assieme. Non erano al massimo della forma, prendevano vitamine e si erano dotati di un dottore che li teneva sotto controllo quotidianamente. Naturalmente oltre alle vitamine c'era dell'altro ma questa è una faccenda che ha segnato l'intera storia della Allman Brothers Band. Gli sforzi portarono a buon fine, nel nuovo album c'erano diverse tracce già incise con Duane tra cui le splendide Blue Sky e Little Martha  oltre ad alcuni estratti degli storici show del marzo e del giugno 1971 al Fillmore East di New York tra cui la kilometrica e pazzesca Mountain Jam. Non funzionavano da riempitivo, la cosa era già stata programmata in partenza con Duane, le novità riguardavano piuttosto la presenza di Ain't Wastin' Time No More, Les Brers In Minor  e Melissa  dove la band si cimentava adesso in cinque, con Dickey Betts unica chitarra, salvo gli interventi di Gregg Allman con l'acustica. Prima di finire l'album la ABB allestì un paio di gig per testare i nuovi brani ed il suonare dal vivo  fu un toccasana, ridiede energia, riportò vitalità ed una ragione per continuare. Proprio le nuove tracce attestavano che la loro musica non era morta con Duane, possedeva ancora ricchezza, brillava e dimostrava che la Allman Brothers Band poteva ancora proseguire la propria avventura. Ma incombeva sul loro destino una sorta di maledizione, come se si trattasse di un dramma sudista alla Tennesse Williams. C'erano tutti i segnali,  la verità era che Berry Oakley, il bassista, era morto con Duane sebbene il fato lo portò via un anno dopo in circostanze simili a quelle dell'amico fraterno. "Forse Duane era il fratello che Berry non aveva mai avuto, ma comunque sia la morte di Duane fu troppo per lui. Dopo le birre cominciò con il Jack Daniel's, arrivò a collassare più volte, non suonava come era solito fare, spesso non si reggeva in piedi e quella è la ragione per cui ingaggiammo Joe Dan Perry per sostituirlo". Cosi scrive Gregg Allman nella sua autobiografia My Cross To Bear. La depressione fu la nuova compagna di Berry Oakley e non ci fu nessuna possibilità di convincerlo ad intraprendere una  riabilitazione, "non voglio dire che lui voleva morire ma non penso che lui volesse vivere ancora". L'incidente motociclistico che coinvolse Oakley fu accompagnato da diverse perplessità, le testimonianze affermano che la sua moto andò dritta e diretta contro il bus, era ubriaco quando successe, dopo l'urto si alzò e non volle nessuna ambulanza. Se ne tornò alla Big House ed ebbe una emorragia cerebrale. Era l'11 novembre del 1972. La tragedia pareva andare a braccetto con il successo. Quando uscì Eat A Peach  si insediò al primo posto delle classifiche di vendita, non era mai accaduto, divenne disco d'oro.

La crescente popolarità della ABB trascinava per inerzia la popolarità di Macon che gradualmente stava diventando un centro riconosciuto per la sua creatività musicale ed il pullulare di molte band. La Capricorn Records con i suoi studi aveva contribuito a portare in città nomi come Marshall Tucker Band, Wet Willie, Eric Quincy Tate, Dr.John, Alex Taylor, Captain Beyond, Cowboy, per citarne alcuni, la nuova musica veniva adesso dal sud e qualcuno la battezzò col termine southern rock. Nell'estate del 1972 prima della morte di Oakley, la AAB iniziò a lavorare a quello che sarebbe divenuto Brothers and Sisters , l'album della svolta. Gregg Allman portò in quelle session la canzone Queen Of Hearts, un pezzo che lo aveva impegnato per più di un anno e mezzo, costruendola su un tempo in 11/4 come per l'intro di Whipping Post.  La presentò alla band ma dato che era completamente ubriaco nessuno ci fece caso. "Quando chiesi loro il motivo di quel disinteressamento mi risposero che quella canzone non voleva dire proprio niente. Allora aspettai la fine di quelle prove e poi me ne andai da solo ai Capricorn Studios ". Inizia cosi la genesi di Laid Back  il primo disco solista di Gregg Allman. Per qualche tempo il biondo tastierista riuscì a tenere il piedi in due scarpe, da un lato le session per Brothers and Sisters , dall'altro le ore in studio per il suo disco, in mezzo qualche ora di sonno per riprendersi.  Esaurito mentalmente e fisicamente avrebbe lasciato perdere un simile tour de force se casualmente non fosse stato raggiunto in studio dal bassista Johnny Sandlin che già conosceva gli Allman per essere stato con loro negli Hour Glass. Sandlin si propose nelle vesti di ingegnere del suono e possibile produttore oltre a darsi da fare nel trovare musicisti adatti. Chiese a Gregg cosa avesse in mano e Gregg gli fece ascoltare These Days  di Jackson Browne,  della quale possedeva un demo registrato a New York con Derring Howe. Sandlin gli suggerì l'innesto nella canzone di una pedal steel ma Gregg  inizialmente scartò l'ipotesi perché non voleva che il brano suonasse country. Al che Sandlin gli propose il chitarrista Scott Boyer  il quale con una Gibson pedal steel fece un lavoro perfetto senza farlo sembrare un pezzo di country music. Sandlin fu il collante di tutto il lavoro, col suo basso, coi suoi modi pacati e la sua voce tranquilla infuse nel collettivo il giusto mood, sapeva come trattare con gli altri e affrontare le difficoltà, aveva psicologia da vendere.
 

Uno dei primi musicisti ad essere contattati da Sandlin fu un ventenne pianista dell'Alabama, Chuck Leavell che aveva suonato con Alex Taylor and Friends e Dr. John ed il cui stile si adattava al lavoro che Gregg aveva in mente. Ricorda Chuck Leavell,  "durante la primavera del 72 suonavo nella band  di Dr.John e aprimmo in un paio di date per la ABB, poi per diverse ragioni Dr.John smise il tour ed io me ne tornai a casa in Alabama. Poco tempo dopo mi telefonò  Johnny Sandlin dicendomi di questo progetto assieme a Gregg Allman ed invitandomi a prenderne parte". Leavell finì col suonare in Laid Back  e contemporaneamente anche in Brothers and Sisters  assumendo un ruolo importante nella ABB nei tre anni che seguirono.

In realtà Laid Back aveva già avuto un prologo quando, dopo la morte di Duane, Gregg  si rifugiò per qualche tempo a New York a casa di Derring Howe, caro amico dei due fratelli, che lo ospitò nella sua abitazione sulla Fifth Avenue. Howe era una sorta di confidente e sapeva che Gregg aveva in mano una manciata di canzoni sue, che esulavano dal contesto della ABB. Gregg aveva necessità di tenersi lontano da Macon e così Howe accettò di finanziargli, nella primavera del 1972 ,la registrazione di alcuni demo ai Criteria Studio di Miami, tre o quattro canzoni tra cui la struggente Queen Of Hearts. Poi in estate i due si trasferirono al Advantage Street Studio di New York dove fecero altri brani. Ma Gregg Allman era sempre talmente ubriaco (parole dello stesso Howe) che fu impossibile portare a compimento il progetto. Cosa che invece avvenne poco dopo negli studi della Capricorn a Macon.

Un'altra canzone ad entrare nella scaletta del disco fu Multicolored Lady  di cui Gregg possedeva già un demo realizzato ai Criteria Studio prima che morisse Oakley. L'aveva abbandonato per poter terminare Brothers and Sisters  ma lo riprese una volta a Macon. L'idea generale di Gregg era di intitolare l'album Laid Back , un termine di studio che allude ad una canzone che va col tempo giusto ma ha troppa energia dentro di sé. Così si spiega l'autore nella sua autobiografia, " allora mi viene da dire ai musicisti, man, puoi farla con un pizzico in più di laid back? solo un po' più easy, come tirare fuori un po' di follia da essa. Come se tu fossi Mr.Natural in una graphic novel di Robert Crumb.....insomma come dire, non tuffarti a capofitto". E fu proprio questa immagine che Gregg usò per illustrare ai suoi collaboratori l'intento del disco, " dissi loro di disegnare un Freak Brother e loro risero per mezz'ora".  Non erano musicisti qualunque, non occorreva spendere troppe parole con loro, dietro i tamburi c'era il talentuoso Bill Stewart, le chitarre erano di Scott Boyer e Tommy Talton che costituivano il cuore del gruppo denominato Cowboy, Charlie Hayward impugnava il basso e Jaimoe fece in un secondo tempo le sovraincisioni con le conga. Avrebbero aggiunto un contributo importante il tastierista Paul Hornsby che da tempo girava attorno agli Allman, il sassofonista David "Fathead" Newman molto noto negli ambienti jazz, i chitarristi Jimmy Nalls e Buzzy Feiten, diverse voci di contorno  e Butch Trucks. Scott Boyer fu una pedina importante anche nell'arrangiamento di Midnight Rider  aiutando Gregg a creare un sound differente rispetto alla versione della ABB contenuta in Idlewild  South.  " Gli dissi che volevo un suono swampy, immagine di quegli alberi di palude col muschio che scende come un velo di sposa, ed intorno gli alligatori e la nebbia, l'oscurità e la magia".  Scott suonò la pedal steel e contribuì ai testi e alle melodie, Tommy Talton si cimentò con la slide e la chitarra acustica.  Le testimonianze dicono di un clima cameratesco tra Scott, Tommy e Sandlin, il fatto di abitare assieme in quel periodo significò molto, lo studio divenne il loro campo da gioco e tutti si impegnarono ad aiutare nel modo migliore Gregg per uscire dallo sconforto per la morte del fratello. Il disco fu un vero miracolo ed una spinta a lenire il dolore. Così affermò  Jaimoe  "tu potevi ascoltare tutte quelle belle canzoni, con influenze che andavano da  Jackson Browne a Neil Young, da Bob Dylan a Tim Buckley, ne avevamo già sentito qualcosa quando Gregg cantava Please Call Home nella ABB e forse Midnight Rider, ma tutto  il suo talento di songwriter venne fuori con Laid Back".
 

Il fatto di lavorare a due dischi quasi in contemporanea causò però qualche problema.  La Allman Brothers Band stava registrando Brothers and Sisters  nello stesso periodo in cui Gregg provava Laid Back ," era come essere sposato ed avere nello stesso tempo una fidanzata dall'altra parte della città. Laid Back era la mia fidanzata, gli altri della band non erano contenti ma io avevo bisogno in quel momento di fare assolutamente quel disco ".  Fu una prima avvisaglia dell'attrito che sarebbe esploso qualche anno più tardi,  in particolare tra Gregg e Dickey Betts. Nella band Gregg si sentiva paritetico agli altri, se qualcuno avanzava una idea migliore della sua, lui lo incoraggiava a metterla in pratica, mai imponeva quello che si sarebbe o non si sarebbe suonato. Ma  con Laid Back  sentì il bisogno di fare qualcosa di completamente proprio, qualcosa da gestire in prima persona, tanto che decise, subito dopo la pubblicazione dell'album, di andare in tour con la sua band, supportato da una intera orchestra. Era un sogno che coltivava da tempo, allestire una big band sul modello di Joe Cocker's Mad Dogs and Englishmen ma con un intento ancora più ambizioso, aggiungendovi archi e violini. Assunse musicisti della  Filarmonica di New York : tre violoncelli, sei violini, sette viole, metà erano uomini, metà donne. Fu un problema atroce pagarli tutti ma alla fine del tour durato poco più di un mese, con tappe esclusivamente nei teatri, tutti quegli strumentisti furono riconoscenti di aver vissuto una esperienza unica, quella di suonare in una rock n'roll band. Alcune serate furono meglio di altre ma in generale la resa fu buona anche se Gregg non fu soddisfatto di come cantò, dovendo per forza di cose modulare la sua voce a volumi più bassi per la presenza degli archi. L'album che uscì, Gregg Allman Tour , vendette abbastanza bene.

Laid Back  fu pubblicato nell'ottobre del 1973  due mesi dopo Brothers and Sisters  e per la maggior parte fu realizzato ai Capricorn Sound Studios di Macon con qualche parte rifinita al Record Plant di New York. Lo co-produssero Gregg Allman e Johnny Sandlin , i sontuosi e calibrati arrangiamenti d'archi e dei fiati furono opera di Ed Freeman con la sua orchestra. Due i singoli estratti dall'album: Midnight Rider   e Don't Miss Up A Good Thing.  La copertina (per chi scrive pessima) fu opera del disegnatore Abdul Mati Klarwein, conosciuto da Gregg a New York, il quale aveva già realizzato le cover di Bitches Brew  e Live-Evil  di Miles Davis. Gregg gli inviò una fotografia e Klarwein fece il lavoro, costò 1500 dollari, nel gatefold dell'album originario ci sono foto dei musicisti e Gregg con la sua nuova fiamma Janice Blair entrambi a cavallo. Janice Blair  era giunta a Macon dopo un divorzio, l'artista la conobbe durante la lavorazione di Laid Back  e la sposò immediatamente nel 1973. Iniziarono a vivere in un appartamento a Macon, all'inizio furono rose e fiori, poi iniziarono i problemi, di gelosia, di tradimento, di droghe, un rapporto a dir poco burrascoso.  L'anno dopo durante il tour della Allman Brothers Band di promozione  a Brothers and Sisters , a margine di uno show a Los Angeles, Gregg Allman fece la conoscenza della cantante Cher. Ma questa è un altra storia.
 

Laid Back  si installò al tredicesimo posto della classifica di Billboard e fu accolto positivamente dalla stampa americana.  Rolling Stone lo definì un album pieno di atmosfera e di colore, molto diverso da ciò che Gregg faceva usualmente con la ABB, ovvero l'altra faccia di un songwriter carismatico ricco di talento e personalità, Billboard lo inserì tra gli album migliori dell'anno mentre Robert Christgau su Creem fu meno entusiasta, per poi ravvedersi nel 1981 nella sua guida ai Rock Albums degli anni 70.
MAURO  ZAMBELLINI