venerdì 21 ottobre 2011

Johnny Winter > Roots (Megaforce)


Malconcio e stanco ma ancora vivo, nel segno del blues. Johnny Winter non si arrende e dà alle stampe uno dei suoi dischi migliori da diversi anni a questa parte. Si intitola Roots il suo nuovo disco ed il titolo spiega bene il contenuto: undici titoli che da soli possono fare la storia del blues. Sono le radici del genere e anche quelle di Winter. C’è l’amato Muddy Waters di Got My Mojo Workin’, il Jimmy Reed di Bright Lights, Big City, Robert Johnson di Dust My Broom,  T-Bone Walker di T-Bone Shuffle, l’Elmore James di Done Somebody Wrong,  il classico Honky Tonk di Bill Doggett ed uno dei primi successi di Bobby Blue Bland, Further On Up The Road tante volte ripreso da Clapton e poi oltre al blues c’è il rock n’roll di Chuck Berry (Maybellene) e Larry Williams (Short Fat Fannie) e il R&B dei Mar-Keys Last Night, lo strumentale usato nella celebre sequenza del film  Blues Brothers allorchè Jake and Elwood si sfilano di nascosto dal teatro lasciando il pubblico osannante e la polizia di stucco.
Non sono la novità e il sottobosco del blues a contraddistinguere l’ultima fatica di Johnny Winter ma solide versioni cantate con voce ancora fresca e suonate come Dio comanda, con l’albino impegnato a fare il guitar slinger coadiuvato da una buona sezione ritmica, il basso di Scott Spray e la batteria di Vito Liuzzi e dal chitarrista Paul Nelson  e da invitati speciali presenti, a rotazione, in ogni brano. Nessuno di loro canta ma ci mettono strumenti, feeling e personalità. Il risultato è un disco di blues coi fiocchi con qualche brano memorabile e niente routine. Sugli scudi la conclusiva Come Back Baby pescata da repertorio di Ray Charles, Winter canta da manuale ricreando il mood del grande artista scomparso aiutato dal trombettista Don Harris e dalla  magistrale abbinata organo/pianoforte di John Medeski e Mike Dimeo.
Il disco è tutto tranne nostalgia, T-Bone Shuffle vede in pista Sonny Landreth  col suo inconfondibile e veloce mud-slidin’, come inconfondibile è il tocco di Warren Haynes che in Done Somebody Wrong sembra proprio imitare Duane Allman mentre il compagno di banda Derek Trucks lascia l’ impronta con una infuocata slide in Dust My Broom.
C’è l’armonica di John Popper in Last Night e la chitarra di Vince Gill nell’omaggio a Berry di Maybellene  prima dell’entrata in scena dell’unica donna invitata, Susan Tedeschi che con voce e chitarra dà, assieme a Winter, una versione di Bright Lights, Big City dall’eco soul-blues. Anche il fratello Edgar Winter è della partita, suo è il sassofono di Honky Tonk.
Roots non è certo un disco che porta linfa nuova al blues, d’altra parte il titolo parla chiaro, sono le radici del genere ma suonate con una modernità insospettabile da uno dei maestri del rock/blues americano ancora in grado di dire la sua nonostante acciacchi e menomazioni.

MAURO ZAMBELLINI   OTTOBRE 2011

lunedì 10 ottobre 2011

Clapton, Marsalis e Wilco

Due dischi tanto diversi quanto belli, quello di Wynton Marsalis & Eric Clapton e quello di Wilco. Me li sono procurati entrambi nello stesso periodo e sono rimasto affascinato da entrambi anche se centrano l’uno con l’altro come cavolo a merenda. Questo potrebbe sfatare l’idea che hanno molti circa i gusti unidirezionali di qualche recensore, me compreso. Non è così, la varietà stuzzica la ricerca del bello, quindi ben vengano due dischi che sono agli antipodi, il primo classico e ancorato alle radici antiche del blues, il secondo oscillante tra sperimentazioni noise, ballate low-country  e accattivante retro-pop.


Wynton Marsalis & Eric Clapton  omaggiano il blues, si intitola difatti Play The Blues il disco con una operazione che Marsalis aveva già effettuato con Willie Nelson ma con tutto il rispetto che nutro per il texano qui siamo su un altro pianeta perché la voce di Nelson sarà unica ed ineguagliabile ma la chitarra di Clapton a me ancora adesso fa venire i brividi e quando insieme ai musicisti della band di  Marsalis a cui si è aggiunto il tastierista Chris Stainton, interpreta in un modo che non avevamo mai sentito Layla beh  allora si capisce come l’unione tra manolenta e il trombettista  sia musica da paradiso. Clapton sembra essere in un momento particolarmente felice della sua vita artistica, lo testimoniano il suo ultimo disco solista (Clapton) e la recente tournee con Steve Winwood. Certo la bravura di Marsalis, trombettista eccelso e gran direttore d’orchestra, conta e come e così la presenza di musicisti che sono un monumento al jazz ma Clapton sembra ogni giorno più coinvolto in questo ritorno al passato, al vintage blues, al jazz di New Orleans, a Louis Armostrong, a W.C Handy, l’autore di Memphis Blues e St. Louis Blues uno dei primi e più grandi autori di blues prebellico. Di W.C Handy qui vengono rilette Joe Turner’s Blues e Careless Love, uno standard che Clapton canta in modo divino.  Le dieci tracce del disco comprendono  poi Forty-Four di Howlin’ Wolf resa elegante dal suono della band, Ice Cream che apre il concerto con un ritmo incalzante e l’alternarsi di tutti i  musicisti negli assoli ed una serie di titoli presi dai repertori di Bessie Smith, Memphis Minnie e Louis Armstrong. I singoli musicisti , e questo lo si percepisce molto bene vedendo il DVD, sono perfettamente amalgamati ed in sintonia,  suonano con un piacere immenso e sono coinvolti in un progetto che appaga prima loro stessi che gli ascoltatori.
Tutti rigorosamente in vestito scuro con giacca e cravatta siedono ai loro posti come una vera big band di jazz creando l’atmosfera della Preservation Hall di New Orleans, magie blues intrise di jazz con Marsalis che svetta con la tromba e la band che arrangia coi fiati i vari brani sullo stile di un funerale della Crescent City.
"New Orleans è il mitico luogo di nascita del jazz, del blues, del gospel, R&B, e rock n’ roll ed è il posto dove  trovare una eredità comune. Abbiamo così deciso di usare la strumentazione della Creole Jazz Band di King Oliver  più il piano e le chitarre elettriche perché quella band trasformò il mondo della musica con una serie di registrazioni nel 1923". (W.Marsalis) 
Il risultato è un suono elegante e raffinato come la sala in cui è stato registrato, il Jazz at Lincoln Center di New York nell’aprile di quest’anno ma è anche un suono che coinvolge, affascina, riempie di benessere. Un disco di grande gusto, con momenti eccelsi, come la già citata Layla, come Joliet Bound pregna di umori louisiani, come Just A Closet Walk With Thee e Corrina, Corrina dove entra in scena Taj Mahal  a chiudere questa delizia di concerto.


A tutt’ altre latitudini ci troviamo con The Whole Love di Wilco, il gruppo più interessante uscito negli ultimi ventanni di  rock. Con l’inserimento qualche anno fa del chitarrista Nels Cline,  Wilco ha assunto una fisionomia più sperimentale tradotta sia in studio che in concerto in una serie di frammentazioni sonore e schegge rumoriste che hanno ampliato l’orizzonte sonico del gruppo portandolo su strade ardite e innovative. Il peso di Cline è comunque bilanciato dal leader Jeff Tweedy il quale continua a dare una salda connotazione melodica alle sue canzoni, sia quando induce in un ripescaggio di certo pop all’inglese del passato sia quando si abbandona a diafane e malinconiche ballate (spesso infarcite di lap steel)  che traspongono una idea del country molto diversa dai paesaggi di americana da cui il gruppo è uscito. Il punto climax di questa amalgama è stato Sky Blue Sky il disco del 2007 che sono in molti a considerare il più riuscito della  loro seconda fase artistica ma anche il seguente Wilco (The Album) non ha tradito le aspettative dei tanti estimatori del gruppo di Chicago. The Whole Love  è leggermente diverso e avvalora l’idea di una band in continua trasformazione mai venuta meno però al proprio stile che mantiene inalterato il connubio tra ricerca e melodia, tra furenti digressioni sonore urbane ed estatiche ballate da solitari spazi d’America di provincia. L’iniziale Art of Almost potrebbe lasciare di stucco se qualcuno non avesse visto un recente concerto della band ma invece è la logica conseguenza del giocare di Nels Cline con loop e noise, un brano rumorista con una dissonante ascesa finale che sembra gettare il gruppo nelle mani dell’avanguardia o almeno tra i discepoli dei Sonic Youth. Ma non è così perché il resto di The Whole Love è di tutt’altra pasta anche se l’indole aperta e l’attitudine eclettica portano il gruppo a sperimentare di nuovo, a cercare ulteriori soluzioni  non per inseguire chissà quale concetto astratto di avanguardia  ma per cercare nuove modalità espressive, nuovi flussi creativi. Rimangono all’interno del loro recinto rock ma non vogliono finire congelati e per questo ogni loro disco è sostanzialmente diverso dall’altro.  The Whole Love  che si potrebbe definire, vedendo i disegni di copertina, dadaista,  un insieme di trovate melodiche e strumentali ricucite con una personalità eccentrica e fuori del comune, un disco che guarda alla modernità senza sbarazzarsi del passato. Ci sono forse più canzoni pop rispetto agli ultimi dischi, probabilmente perché lo stato mentale di Tweedy gli concede oggi un ottimismo ed una “solarità” che raramente abbiamo riscontrato ma poi più che un presunto pop ciò che magnifica questo disco sono una serie di ballate da pelle d’oca, in particolare Black Moon e la lunghissima e conclusiva One Sunday Morning che dicono di un gruppo che pur rimanendo i piedi per terra non ha perso l’abitudine per un rock sognante e visionario.

MAURO ZAMBELLINI     OTTOBRE 2011