venerdì 11 maggio 2018

JOHN MELLENCAMP PLAIN SPOKEN from the Chicago Theatre


Una produzione discografica iniziata nel 1976, ventitre dischi in studio e diverse antologie, altri musicisti avrebbero inondato la propria discografia di live ma Mellencamp si è sempre rifiutato di assecondare la logica di inscatolare in un box l'esibizione di una sera, reputando impossibile catturare quello che uno fa sul palco. Difatti di live ufficiali John Mellencamp ne contava fino ad ieri solo due, quel Live at Town Hall con cui nel luglio del 2008 portò in scena Trouble No More salvo aggiungervi la cover di Highway 61 Revisited e i suoi classici Small Town, Pink Houses e Paper In Fire, e un mini CD del 2009 con otto titoli di Life Death Love and Freedom. Purtroppo manca nell'ufficialità una degna testimonianza live degli anni ottanta, il suo periodo più selvaggiamente rock, e per ovviare bisogna ricorrere a qualche bootleg, chi scrive consiglia un live da Bloomington nel 1984 e uno da Boston nel tour americano del 1989. E' quindi benvenuto Plain Spoken cronaca di un concerto tenuto il 25 ottobre 2016 a Chicago nel corso del tour omonimo, disponibile nei plurimi formati CD, DVD e Blue-Ray. La serata è di quelle eleganti, teatro pieno di belle signore accomodate ai tavolini con tanto di bicchiere di vino davanti, pubblico agè benestante e politicamente corretto, luci soffuse e band vestita per l'occasione in nero, come ad una serata di gala. Quanto sono lontani i tempi di little bastard e del rollingstoniano Uh-Uh ma tutto si può dire tranne che Mellencamp abbia abdicato. Non ha perso il suo naturale caratteraccio, quando venne in Italia se ne ebbe una dimostrazione e con gli anni è diventato sempre più caustico, politico, giustamente polemico con chi amministra il suo paese, tanto che a mio modo di pensare, visto le levigature folk guthriane del suo rock e le sue canzoni non certo accomodanti, risulta essere il miglior Dylan attualmente in circolazione. Please, non scannatemi, Dylan come autore di testi e musica rimane insuperabile ed unico, ma quel modo scricchiolante, a volte arruffato ed imperfetto di suonare e cantare, legato alle radici e a Woody Guthrie, dove il folk incontra il rock secondo una strumentazione che fonde l'elettrico con le chitarre acustiche e l'hillbilly del violino e della fisarmonica, oggi ha in Mellencamp il suo interprete più godibile e maturo, anche perché in un suo concerto le canzoni le si riconoscono, li si vivono per quello che sono e sono state, trasmettono una emozione ancora viva non avendo vergogna di portarsi appresso il passato facendoci ricordare i tempi in cui abbiamo cominciato ad amare la musica del piccolo bastardo. Anche il look di Mellencamp e della band ricorda l'"orchestra" di Mr. Zimmerman, abiti sobri, scuri, camicie bianche, una sorta di band del vecchio Testamento, come The Band nelle copertine dei loro primi dischi. E allora godiamoci questo Mellencamp di Chicago che nel film originale regala  frammenti della sua storia con narrazioni sulla sua gioventù, i suoi inizi musicali, i suoi rapporti con la famiglia e col music business, qualche frecciata politica. Più che un concerto un documentario pur essendo la musica e l'esibizione al centro del progetto. Un documento ed un disco molto belli, esplicativi del cammino fatto da Mellencamp, uno a cui l'età avrà probabilmente tolto qualcosa della sua originaria spregiudicatezza rock ma l'ha arricchito di profondità, realismo, indipendenza di vedute, coerenza, coraggio politico. Tanto di cappello, tanto più che questa sua maturità si accompagna ad una musica evocativa in cui tutte le espressioni della musica americana sono rappresentate. Da quella folk declinata secondo lo stile da ballata rock del songwriter americano classico, e tutta la prima parte ne è portavoce, dai due titoli con cui inizia lo show, LawlessTimes e Troubled Man, unici estratti da Plain Spoken, a quella intimista dello storyteller voce, chitarra acustica e pianoforte, la voce rotta dall'emozione in The Longest Days , la raucedine waitsiana nella stravolta The Full Catastrophe dove l'artista col solo microfono ed un fazzoletto in mano sembra colto in una posa da chansonnier all'Olympia come fosse il DeVille della copertina di Where The Angels Fear To Tread. Dal corale country di My Soul's Got Wings raggiunto sul palco da Carlene Carter, e l'inaspettata Overture, un intreccio di musica strumentale tra classica e Appalachi, a quella ruvidamente  R&B con cui, sbarazzatosi della chitarra acustica,  Mellencamp si ricorda della sua passione per James Brown e fa il soulman in Authority Song, in Pop Singer e Check It Out, fino a quella rock nelle dure e toste Rain On Scarecrow, Pink Houses e Cherry Bomb. Un Mellencamp completo, un concerto diviso in tre parti, la prima (comprendente anche Minutes To Memories,  una versione di Smalltown che incrocia John Prine, T-Bone Burnett e Springsteen, una Stones In My Passway virata Delta blues dalla slide di Andy York), improntata sul suono dei suoi ultimi album, con ampio sfoggio del violino di Miriam Sturm, il contrabbasso di John Gunnell, la fisarmonica e le tastiere di Troye Kinnett, un intermezzo centrale acustico ed un finale rock dove Gunnell imbraccia il basso elettrico, Dane Clark picchia con più convinzione e Mike Wanchic e Andy York salgono in cattedra con le loro chitarre.

Serata elegante ma che musica ragazzi.

 

MAURO ZAMBELLINI   MAGGIO 2018