giovedì 26 luglio 2012

Royal Southern Brotherhood Black And Blue Festival Varese 21 Luglio



Dopo la splendida serata con i Red Wine Serenaders accompagnati in jam dal bravo Paolo Bonfanti (molto apprezzata una versione di Melinda di Tom Petty) il Black and Blue Festival di Varese ha ospitato un gruppo non ancora molto conosciuto ma dall'illustre pedigree. C'era tanta gente nella ventosa serata del 21 luglio a salutare l'arrivo in Italia del figlio di Gregg Allman, Devon in compagnia del chitarrista Mike Zito (Blues Awards nel 2009), del cantante e percussionista Cyril Neville (Neville Brothers), del bassista Charlie Wooton e del batterista della Derek Trucks and Susan Tedeschi Band Yonrico Scott. Un ensemble di grido quello dei Royal Southern Brotherhood autori di un recente disco e capaci di sintetizzare tutti gli umori del sud, dagli echi allmaniani avvertibili quando Devon Allman con la sua Gibson ha evocato lo zio Duane infilando una strepitosa One Way Out ed il refrain di Mountain Jam al solido rock-blues di Mike Zito, melodico ma al tempo stesso potente e sanguigno, fino al coinvolgente zydeco funk creato dalle percussioni di Cyril Neville, da un bassista, Charlie Wooton che si è portato appresso tutto un apprendistato di afro-cuban jazz e di funk e dal fondamentale Yonrico Scott, un batterista che non perde una battuta, picchia disinvolto ed elastico e si concede molti tempi in levare così da aggiungere sapori caraibici alla miscela dei Royal Southern Brotherhood.
Tosti e ben amalgamati anche se ancora alla ricerca di un miglior equilibrio nella gestione dello show, l'assolo di basso e batteria è parso troppo lungo ed esibizionistico anche se in linea con la scuola del southern rock , i cinque hanno dato vita ad un concerto di energia e tecnica dove non è mancato né il feeling né la consapevolezza di maneggiare un glorioso patrimonio musicale ancora oggi seguito ed amato da tanti estimatori, come hanno dimostrato i ripetuti applausi del pubblico ed il calore con cui è stato seguito lo spettacolo.
Devon Allman, capelli lunghi biondi, barba e Gibson ES del '59 tenuta dalla cinghia che probabilmente doveva essere appartenuta a zio Duane, assomiglia a Russell Crowe, è robusto, piazzato e canta con una voce che ricorda i Doobie Brothers. Quando lui è alla solista le parti vocali li fa Mike Zito e viceversa, i due sono complementari perché quest'ultimo lavora con la Telecaster e la sua voce è aspra e soul, roba che andrebbe bene per un disco per la Stax o per i Muscle Shoals. Devon interpreta l'anima southern rock dei RSB, Zito quella più blues e lo si sente quando, dopo aver giocato con Devon con una serie di riff storici del blues e del rock, intona Sweet Little Angel di B.B King. I due si fanno da parte quando entra Cyril Neville, lui diventa il leader e con la sua inconfondibile voce ed i suoi ritmi sposta la musica a New Orleans. Il tiro si fa incalzante e funky, sinuoso come è proprio di quello stile, gli tengono testa Yonrico Scott coi suoi tempi in levare e il dinamico bassista Wooton che a vedersi, magro, cappelluto, biondo, sembra Johnny Winter da giovane. Viene fuori una trascinante Fire On The Mountain che cita Fiyo On The Bayou con echi di Allman, Dead e Neville Brothers e poi il viscerale Delta blues Nowhere To Hide e Fired Up! cantata da Cyril, fusione degli assoli southern rock di Devon con gli umori bayou della sezione ritmica. La musica sale in cattedra, non sembra vero di respirare ancora il profumo del migliore southern rock pur miscelato col blues e con New Orleans. Moonlight Over The Mississippi è cantata da Cyril e segnata da un solo lancinante di Devon, regala una spruzzata di Little Feat, New Horizon col suo ritornello pop-soul è forse il brano più banale del set, al contrario di Hurts My Heart ruvida ballata rock cantata da Zito ma sporcata dalla Gibson del compagno. Sono due ore calde (nonostante la fresca brezza che arriva da nord) e salutari che testimoniano di una musica ancora viva e appagante. La ciliegina sulla torta è One Way Out con il suo riff contagioso ed il suo nervoso impennare, momento topico di un concerto inaspettatamente brillante e coinvolgente.

MAURO ZAMBELLINI LUGLIO 2012

lunedì 23 luglio 2012

Johnny Neel Every Kinda' Blues ...but what you're used to



Si rinnova il sodalizio tra Johnny Neel e gli W.I.N.D. Dopo aver suonato molte volte insieme in Italia e in Europa adesso è il momento di un vero e proprio disco registrato a Nashville ma comprendente anche due tracce estratte da un concerto a Udine durante il tour del 2010. Johnny Neel è un valente  cantante e tastierista, non vedente, che ha un curriculum di tutto rispetto. Ha fatto parte della reunion degli Allman del 1989 scrivendo parte del loro album Seven Turns, ha poi lavorato con Gov't Mule e Warren Haynes e dato vita assieme ad Allen Woody, Marc Ford, Matt Abts e Berry Oakley Jr. al supergruppo dei Blue Floyd. Conosce i segreti del blues e del southern rock ed è in possesso di una voce calda, pastosa, soul che a tratti ricorda perfino Ray Charles. Every Kinda' Blues mette a fuoco la sua arte, solidi blues virati soul e rock, con una generosa dose di southern rock a marcare un suono potente e sanguigno che oltre agli W.I.N.D vede impegnati il chitarrista Jack Pearson, il bassista Dennis Gulley, un stuolo di batteristi e la storica corista di Bob Seger Shawn Murphy. Musica tosta in odore di Allman dove le canzoni, quasi tutte scritte da Neel, permettono  sia i graffi di ruvido rock/blues con qualche accenno jazz (I'm Gonna Love You), sia le calde melodie soul-blues che grazie all'Hammond traspongono l'atmosfera gospel di una chiesa battista (la splendida Sunday Morning Rain), sia il pimpante saltellare di un pianoforte sedotto dai ritmi della Crescent City, succede in Johnny Needs A Shot.
In certi momenti, è il caso di How To Play Blues, la melodia è davvero struggente e Johnny Neel riempe il cuore di ricordi, aiutato da una slide che evoca Lowell George e dalle coriste in pieno trip gospel, in Every Kinda'Blues  l'armonica di Neel soffia il vento del sud mentre la band mostra muscoli e mestiere, Mighty Mississippi è denso, limaccioso e scuro, al contrario I Wanna Know The Way potrebbe benissimo essere cantato anche da Stevie Wonder. I brani sono della durata media di 4/5 minuti ad eccezione delle due tracce live dove si scatenano gli W.I.N.D e le lunghezze diventano quelle proprie delle jam spezzando un pò l'unitarietà del disco. Murdered By Love è un blues che sale lento e sornione, lascia spazio alle divagazioni dei singoli prima dell'esplosione finale con Anthony Basso in gran spolvero, Won't Lay Me Down è un soul-blues a metà strada tra disperazione e paradiso con annessa apoteosi.
Disco onesto e ben suonato.

MAURO ZAMBELLINI    

giovedì 5 luglio 2012

Tom Petty and The Heartbreakers Piazza Napoleone, Lucca, 29 Giugno 2012



Finalmente il giorno è arrivato, fa un caldo torrido e oltre a noi, i tanti accorsi da ogni parte d'Italia a salutare l'arrivo del seminole, in città è arrivato anche Caronte coi suoi 35 gradi. Ma i rockers non si sciolgono al sole anche se farebbero tutti una bella doccia dopo  che Jonathan Wilson ha lasciato il palco e gli addetti impiegano mezzora ad allestire il set per gli Heartbreakers. Jonathan Wilson ha suonato con la luce del tramonto che illuminava il suo show spartano ma bello, ricco delle suggestioni regalate dal suo ottimo Gentle Spirit, uno dei migliori dischi dello scorso 2011. Capelli lunghi, camicia floreale, aria casual, Jonathan Wilson sembra e non solo per la sua musica uscito dalla California anni settanta. Canta come fosse lì per caso, modesto e concentrato estraendo con la sua band ballate sognanti che evocano David Crosby e i Fleetwood Mac e quando si induriscono e si inacidiscono i Grateful Dead e i Black Crowes o meglio il Chris Robinson dell'ultimo Big Moon Ritual. Bei suoni, atmosfere cosmiche, scampoli di musica d'autore ritrovata nelle strade del Laurel Canyon, Jonathan Wilson porta i presenti in gita nella Valley of The Silver Moon, le note si dilatano, le chitarre graffiano ma poi tornano morbide, dolci, accarezzando una danza che alla fine scioglie qualsiasi resistenza e ti fa pensare come sarebbe bello sentire Desert Raven  su una spiaggia californiana o magari anche solo in Versilia, a pochi chilometri da qui ma con la brezza che viene dal mare. E' duro essere un santo in città.
L'arrivo di Tom Petty è salutato da un boato. Sono venticinque anni che lo si aspetta, da quel 1987 che accompagnò Bob Dylan e fece sentire mezzora scarsa del suo repertorio. Ad essere sinceri visto che è l'unica data in Italia mi sarei aspettato ben altro pubblico, Piazza Napoleone è piena solo per  2/3 ma fa caldo e va bene così, ok la condivisione ma è più importante la sopravvivenza. Certo che mettere in vendita lo stesso giorno del concerto biglietti a prezzo stracciato (e non parlo di bagarini ma dell'organizzazione ufficiale) perché la prevendita non è stata florida non è un gesto di correttezza nei confronti di coloro che hanno comprato precedentemente il biglietto a prezzo pieno (e salato) ma questa è la solita Italia che prende per il naso gli onesti. Vestito con un abito gessato scuro, barba e capelli lunghi, Petty è in perfetto stile rock n'roller, dicasi lo stesso per Mike Campbell capelli lunghi e camicia rossa, un chitarrista galattico come ce ne sono pochi oggi, il massiccio Steve Ferrone è in t-shirt bianca, gli altri anche loro in scuro, qualcuno in giacca, Benmont Tench spunta da dietro il pianoforte. Si parte con Listen To Her Heart e You Wreck Me e si capisce che la scaletta non sarà diversa da quella dei concerti europei che hanno preceduto Lucca,  ovvero nessuna variazione da una sera all'altra, diciannove, venti, massimo ventuno canzoni. L'inizio sembra un compitino diligente, bella musica, canzoni dal refrain irresistibile, rock n'roll asciutto e arioso, ossigenato con l'aria della California. Suoni precisi e limpidi, finalmente un'acustica italiana degna di un concerto di taglio internazionale, gli strumenti non si sovrappongono e si impastano ma questi primi brani vengono risolti troppo sbrigativamente, come se si avesse fretta di portare a termine il compito nel più breve tempo possibile. Temo che il caldo possa essere un nemico ma dopo I Won't Back Down e la romantica Here Comes The Girl che accende per la prima volta la piazza, il concerto cambia e prende un'altra piega.  Handle With Care estratta dal primo disco dei Traveling Wilburys scalda il motore col suo ritmo a palla poi Petty toglie la giacca e rimane in camicia psycho e gilet di pelle. E' un'altra storia. La dura Good Enough,  uno dei due estratti da Mojo  fa capire a Lucca e alla Toscana che Mike Campbell  non è uno che lo si incontra tutti i giorni, è un chitarrista rock che usa prevalentemente chitarre Gibson in grado di mettere a fuoco e fiamme una intera città senza perdere di precisione, limpidezza, pulizia, essenzialità, cattiveria. I suoi assoli sono uno spettacolo nello spettacolo, con Petty se la intende a meraviglia, duettano e incrociano le loro bellissimi chitarre, tra cui la mitica Rickenbacker. come in una singolar tenzone a base di rock, quando parte il riff sincopato e a singhiozzo di Oh Well dei Fleetwood Mac tutti avvertono che il momento è arrivato e nessuno uscirà vivo da Piazza Napoleone. Ferrone è quello che dice il suo nome, picchia come un martello sebbene dinamico ed elastico, Ron Blair è il professionista che sta nell'ombra, Scott Thurston si sente soprattutto quando soffia l'armonica ma aggiunge chitarra alle chitarre, Benmont Tench è l'uomo che non si vede ma se non ci fosse sarebbe un altro concerto. Petty sembra mantenere la sua freddezza ma Something Big  una ballata dai toni crepuscolari e notturni di Hard Promises che amo alla follia è cantata con una carica di sentimento che spezza in due il cuore, proprio come il logo degli Heartbreakers. Don't Come Around Here No More è la solita, parte saltellando, la conoscono tutti per via di quel famoso video nel paese delle meraviglie, è una chiamata e risposta tra palco e pubblico, Petty la rallenta fino ad annullarla ma tutti aspettano l'assolo di chitarra di Campbell che arriva puntuale, lungo, lancinante, acido e psichdelico. Tom Petty ci dà dentro anche lui con la chitarra ma prende tempo, Free Fallin' è corale, cantata da tutta la piazza, è una delle quattro tracce estratte da Full Moon Fever album prediletto per questo show ma è It's Good To Be A King  di Wildflowers l'highlights dello show. Inizia lenta quasi svogliata, una ballata un po' annoiata e nostalgica ma poi si libera di ogni timidezza e diventa un rock apocalittico, jammato e furioso dove gli Heartbreakers confermano di essere la più strepitosa rock n'roll band oggi in circolazione, un ensemble capace di sprigionare quanto di meglio il rock n'roll ha espresso dalla sua nascita con un suono esaltante, travolgente, energico, micidiale che fonde anni cinquanta, beat sixties, hard seventies, ballate anni 80, psichedelia, folk-rock e mainstream. Certo Springsteen ha una carica umana ed un romanticismo che Petty non possiede ma gli Heartbreakers sono la miglior definizione di cosa sia il rock n'roll (senza nessuna traccia di R&B), potenti, lucidi e famigerati, una band che non fa prigionieri solo ma solo proseliti.  It's Good To Be A King è semplicemente devastante, me la ricorderò per sempre.
Carol è la conclusione del discorso precedente, da dove siamo partiti? Da Chuck Berry naturalmente. Gli Heartbreakers omaggiano le origini fifties del rock n'roll dandone una versione meno sporca e bluesy di quella degli Stones, ma d'altronde i loro lontani parenti si chiamano Beatles e Byrds. Learning To Fly è l'angolo degli innamorati della serata col suono acustico di una melodia gentile. Una volta si sarebbero accesi i Bic, oggi non fuma più nessuno, almeno nella fascia di età del pubblico di Tom Petty non certo giovanissimo. Ma da lì in poi è apoteosi, Yer So Bad è  I Should Have Known It continuano la saga degli spezzacuori fino al travolgente finale di Refugee e Runnin' Down A Dream altro momento topico del concerto con Petty e Campbell piegato su se stesso a tirar fuori dalle corde delle chitarre un sogno che corre alla velocità della luce.
L'encore non si fa attendere, Mary Jane's Last Dance è la sua Dancing In The Dark ma che classe, che appeal, che riff quello che apre le danze e si attorciglia ad una fisarmonica che sa di epica western, splendida, poi Two Men Talking dura, chitarristica, a me sconosciuta, forse una new song ed infine la ragazza americana che tutti aspettano, tutti sognano, tutti cantano. American Girl mette in ginocchio l'intera piazza ma come suggerisce il copione è la fine, purtroppo, Petty ringrazia sentito e gratificato da un pubblico caldo e accaldato, gli Heartbreakers si inchinano e poi se ne vanno senza più tornare. Peccato, sarei stato a sentirli per un'altra ora, nonostante la temperatura e la stanchezza. Ladies and gentlemen, Tom Petty and the Heartbreakers, è'solo rock n'roll ma continua ad essere la cosa più bella della vita.

MAURO ZAMBELLINI       GIUGNO 2012