domenica 29 dicembre 2013

MY BEST OF 2013 IN MUSIC


 

Avviso ai naviganti, come suggerisce il titolo è il mio meglio dell'anno in fatto di rock, non "il meglio del 2013", questo  spetterebbe ad un team di giornalisti di una rivista (e per questo rimando al numero di gennaio del Buscadero o a qualsivoglia altra rivista e web musicale) oppure ad una comunità di ascoltatori, appassionati e quant'altro. Per cui questo scritto racchiude solo ciò che mi è piaciuto, tra quanto ho potuto ascoltare. Certo la nascita di Spotify ha semplificato molto le cose e fatto risparmiare i consumatori di supporti musicali solidi, oggi si può ascoltarsi un disco nuovo o vecchio che sia, non tutti comunque, e poi decidere di comprarlo evitando di spendere i soldi per nulla,  dando retta a recensioni spesso fuorvianti o eccessive o semplicemente non sintonizzate sui propri gusti. Cercherò di non ripetere quello scritto a proposito del 2011 e del 2012 ma una considerazione mi tocca, purtroppo, farla : si può dire e scrivere ciò che si vuole, si può tirare in ballo l'età, le emozioni legate agli anni giovanili, le aspettative, gli amori, il fatto che nel rock n'roll è già stato fatto tutto, la tecnologia e tutto quanto volete, ma è incontrovertibile che nei dischi del passato c'era più creatività, ispirazione, spontaneità, genio. Basta leggersi una delle tante compilation che molti si divertono a mettere su facebook o in qualche blog riguardo alle uscite discografiche di una determinata annata degli anni settanta e ottanta, ma anche novanta, per non parlare dei sessanta, con le relative copertine e accorgersi che un anno a caso di quelle decadi oscura completamente, a livello di qualità  e creatività, qualsiasi annata recente, non oso dire che la ridicolizza ma rende il paragone impietoso, come confrontare Berlinguer con Renzi. Detto questo ognuno è libero di pensarla come vuole e di trarre le proprie conseguenze, la mia è che si vendono meno dischi perché oltre alle infinite proposte della rete, i dischi sono meno belli e così, a parte il capitolo ristampe e anche qui ci sarebbe da fare dei distinguo, uno con la musica può contenere le spese, se non ci fossero i concerti, vera spada di Damocle sulle nostre tasche, i cui biglietti sono arrivati a livello di stipendio da parlamentari o  manager, visto che per Dylan, uno che passa in concerto un anno sì ed un altro si, lo scorso novembre a Milano bisognava sborsare 90 euro. Dicono, ma era il Teatro degli Arcimboldi, si sentiva bene e si stava comodi; vabbè, che vuol dire, quello è il minimo che deve offrire un luogo adibito alla musica, se tali luoghi non esistono in Italia non è mica colpa dell'ascoltatore che deve pagare l'equivalente di due giorni e mezzo di lavoro (se qualcuno il lavoro ce lo ha ancora) per vedersi l'artista di suo gradimento. L'alternativa non è prezzi contenuti, luoghi inadatti e scomodi e acustica di merda, anche se ancora oggi da noi capita così, ad esempio i Gov't Mule alle Officine Ansaldo di Milano. All'estero i prezzi sono più alti mediamente (ma non sempre, mi ricordo un paio di anni fa per Clapton/ Winwood Band alla Royal Albert Hall ho speso 55 sterline, quindi........), ma sono più alti anche gli stipendi e l'acustica è sempre all'altezza della situazione, anche in un club o in un locale di periferia. L'impianto audio è la prima cosa che deve curare un gestore, grande o piccolo che sia il locale. Rispetto per gli artisti e per il pubblico.
Comunque la musica, oggi, in rete non costa praticamente nulla e si accede ad una quantità impressionante di musica a costo zero, ma, o avete delle ottime casse collegate al computer oppure vi accontentate di una qualità audio svilita. In entrambi i casi molte frequenze sono scomparse e le compressioni snaturano l'uscita e quindi l'ascolto. Saggio è quanto scrive, a proposito,  Neil Young nella sua divertente biografia, Il Sogno di un Hippie, consigliato. Per cui lunga vita al CD e al vinile, ritornato di moda.

 

 
       Vado in ordine sparso, complice un Barbera del 2011, tredici gradi, non barricato, azienda Marchisio, zona Castellinaldo, provincia di Cuneo, imbottigliato dal sottoscritto. La caduta discografica è sotto gli occhi di tutti (o magari solo dei miei e di tanti amici che conosco) ma, al contrario, i concerti rock vivono un momento di gloria e  sono tanti quelli super, un segno dei tempi e del mercato. Da anni i musicisti hanno spostato gli investimenti dalla sala di registrazione ai tour , pubblicando dischi con l' unico pretesto di allestire nuovi tour,  si vendono meno dischi ma capita sempre più spesso che  per i grandi nomi (vedasi recentemente per Nick Cave) se non ci si muove per tempo diventa poi arduo trovare un biglietto disponibile, anche nelle grandi arene e negli stadi.  Springsteen docet.  In quanto a concerti visti,  entusiasmanti sono stati Neil Young & Crazy Horse  il 14 luglio a Locarno (vedi blog), concerto dell'anno per il sottoscritto, i Black Crowes all'Alcatraz di Milano (vedi blog), Jonathan Wilson al Carroponte di Sesto San Giovanni (vedi blog), gli Waterboys  all'Auditorium di Milano (sublimi) ed il magnetico Nick Cave and The Bad Seeds all'Alcatraz di Milano a fine novembre. Mi sono capitati anche concerti minori interessanti, uno su tutti, energico e trascinante da morire, quello di Moreland & Arbuckle ad Ameno Blues, duo del Kansas con qualche vaga somiglianza ai primi Black Keys ma meno commerciali nel loro Delta blues-rock ad alto voltaggio elettrico. Il loro 7 Cities  rientra nei Best dell'anno, almeno in quella serie B in odore di promozione. Tra i concerti visti solo in DVD consiglio altamente lo show dei Rolling Stones dello scorso estate ad Hyde Park immortalato in Sweet Summer Sun. Ne ho già scritto sul blog ma ribadisco il concetto, visto che è di moda lo sport di sparare contro le Pietre, dal punto di vista musicale è un signor concerto di rock n'roll vecchi tempi, con canzoni straordinarie ed immortali (magari la scaletta è scontata ma fa parte del tour del 50esimo, quindi una celebrazione) dove loro (in particolare Jagger) confermano il patto col diavolo e  di avere sempre avuto il tempo dalla loro parte, nonostante non siano mai stati un gruppo trendy. Non hanno snaturato di una virgola il loro lessico musicale, che era  dello sporco R&B contaminato col rock n'roll di Chuck Berry ed il blues di Muddy Waters, caso mai l'età pesa sulle esecuzioni ma questo è naturale. Inoltre come usano loro l'arte della comunicazione non c'è nessuno, le riprese e le immagino sono fantastiche, il montaggio, le sequenze, i tempi sono di una grande regia, per cui consiglio il DVD piuttosto che il CD perché i Rolling Stones rimangono il più grande spettacolo del rock n'roll.
 

venerdì 20 dicembre 2013

LAST MINUTE: Paolo Bonfanti e Mandolin'Brothers

 


Non è detto che chi arriva tardi si deve accontentare con quello che trova, può capitare che l'ultimo minuto sia migliore del resto dell'ora o addirittura dell'intero anno. Senza togliere nulla agli ottimi dischi di rock italiano non cantato in italiano usciti precedentemente in questo 2013 e mi riferisco a Temporary Happiness degli W.I.N.D, The Roadkill Songs dei Mojo Filter, Happy Island di Hernandez & Sampedro, Wake Up Nation di Daniele Tenca, Pontchartrain di Cesare Carugi, Black Strawberry Mama dei Nandha Blues, Lost for Rock n' Roll di Luca Milani, tutti lavori che non soffrono il confronto internazionale, mi va di segnalare due dischi arrivati in  zona Cesarini assolutamente da non trascurare. Il primo, Exile on Backstreets di Paolo Bonfanti è uscito poco più di un mese fa, il secondo, Far Out dei Mandolin' Brothers  addirittura  non è ancora uscito ufficialmente e sarà disponibile nei negozi dall'11 gennaio 2014 e presentato live allo Spazio Musica di Pavia il 25 gennaio, appuntamento da non perdere.

Chi bazzica il blues made in Italy sa che Paolo Bonfanti, genovese emigrato a Casale Monferrato, è musicista che gira da parecchio, dagli anni ottanta quando  militava nei Big Fat Mama, storica band del blues italiano. Nel 1992 con On My Backdoor, Someday Bonfanti si è messo solista affacciandosi sulle sponde del rock americano di strada, con l' occhio puntato  verso quei singer/songwriter che mischiano blues e roots alla maniera di Dave Alvin, Steve Earle, John Mellencamp. Gradualmente si è costruito una identità  riconoscibile, grazie ad un cantato credibile e ad un buon lavoro in fase di scrittura, oltre che ad una tecnica chitarristica sopraffina che gli ha consentito recentemente di pubblicare il manuale La chitarra elettrica secondo Bonfanti.  Bonfanti è andato oltre il blues, anche se le dodici battute costituiscono le fondamenta, le sue canzoni sconfinano nel rock, nelle roots  e nel country- folk-rock, per lui Dylan e Springsteen valgono quanto Muddy Waters e John Lee Hooker, può suonare con chiunque, recentemente  ha aperto per Black Crowes e Ian Hunter e ha anche trovato il tempo, belìn, per registrare un disco, Canzoni di schiena, cantato in italiano ed in genovese.  Affabile, educato, preparato, Paolo Bonfanti è uno dei musicisti di punta del blues nazionale ed il nuovo suo disco, giocato su un famoso titolo dei Rolling Stones, Exile On Main Street non fa che confermare la sua bravura e le sue vedute aperte. Trattasi di disco che spazia dal blues (da brividi  il lungo strumentale Slow Blues For Bruno)ad un irriverente  tentativo di rap (la sincopata Black Glove), dal r&b in odore di Stones anni '70 con tanto di trombe e sax (Craig Dreyer e Jeff Kievet) ovvero la bella Father's Things, dedicato al padre scomparso,  al rifacimento western swing di  I'll Never Get Out Of This World Alive  di Hank Williams, velocizzata come la poteva fare Dylan in Modern Times e con tanto di  fisarmonica. Echi di Dylan si sentono anche nella incalzante My Baby Can , ma qui viene in mente Love and Thieft mentre l'elettrica gracchia cattiva in Up To My Neck in You, una vecchia canzone  dei primi AC/DC, dimostrazione che per Bonfanti le barriere non esistono. Exile On Backstreets batte le secondarie del blues e del rock e lo fa con orgoglio non puntando all'assolo plateale o al sangue, sudore e lacrime ma creando i diversi mood della musica da strada. E'quindi un disco vario e piacevole il suo, suonato come Dio comanda da Alessandro Pelle alla batteria, Nicola Bruno al basso,Roberto Bongianino alla fisarmonica, più un nugolo di musicisti amici ( Fabio Treves, Marco Fecchio, Rigo Righetti, Stefano Risso, Andrea Manuelli e Henry Carpaneto, questi ultimi due con Hammond e pianoforte), oltre alle chitarre del leader.  Un ultima menzione va alla title track, ballatona con dentro chitarre, sax, tastiere, cori, romanticismo, gospel e anche un po' di You Can't Always Get What You Want, una delle canzoni più belle del rock made in Italy del 2013,  omaggio agli Stones del periodo Exile On Main Street anche se qui, visto l'origine genovese dell'autore, la strada è diventata un caruggio. E menzione anche per la protest-song alla Billy Bragg, I Hate The Capitalist System,  fisarmonica da chanson francais e testo e titolo che si commentano da soli. Bravo Bonfanti e bravo anche il co-produttore  Giorgio Ravera.     

Dall'Oltrepò Pavese arrivano i Mandolin' Brothers anche loro "del mestiere" visto che l'esordio risale al 1979, quando erano semplicemente un duo di country-blues con Jimmy Ragazzon, voce, armonica, chitarra acustica e Paolo Canevari, chitarre e National steel. Dall'inizio degli anni novanta la line up si è allargata e adesso i Mandolin' Brothers  sono in sei, una vera roots band con chitarre, sezione ritmica (Joe Barreca e Daniele Negro), mandolino (Marco Rovino), tastiere e fisarmonica (Riccardo Maccabruni),oltre ai due originari fondatori. Nel loro curriculum  c'è la partecipazione  al Blues Challenge di Memphis e concerti  in Florida ma è nei festival nazionali che il loro set è diventato sinonimo di allegria, energia, buona musica, dove rigore e fantasia vanno a braccetto e loro dimostrano una ottima conoscenza dell'american music. Il debutto discografico è avvenuto con For Real  ma la maturità l'hanno raggiunta  nel 2008 con Still Got Dreams, a cui è seguito 30 Lives!  e Moon Road , sorta di diario di viaggio musicale, registrato ad Austin con la produzione di Mel Bregante. Il nuovissimo Far Out, realizzato grazie al crowdfounding di amici ed estimatori,  è un po' la summa delle varie facce espresse dai Mandolin' Brothers nella loro avventura, una solida piattaforma di roots-rock venato di blues su cui la band inventa  le diverse soluzioni, dalle ballate rock come Come On Linda e Nightmare In Alamo, gran pezzo, con  un ottimo dualismo chitarre-tastiere al fosco voodoo blues di Ask The Devil, dal romantico mainstream rock (la splendida My Last Day) al valzer messicano intrecciato col jazz di New Orleans  di Hey Senorita.  Dispongono di un team di autori intercambiabile, Ragazzon, Maccabruni e Rovino, il che consente varietà e brio,  la solidità chitarristica friziona in modo positivo con la voce malinconica e nasale e l''armonica di Jimmy Ragazzon ( tra Dylan e l'epica western) mentre il mandolino e la fisarmonica  portano a galla l'America profonda che pulsa nei loro cuori e pianoforte e organo pensano ad amalgamare il tutto come hanno insegnato all'Università di Memphis. Il sound dei Mandolin' Brothers è antico e moderno al tempo stesso, e non sfuggono i riferimenti al groove rock delle jam band, Someone Else occhieggia ai Doobie Bros., da qualche altra parte si sente odore di Little Feat, Short Long Story si dibatte tra accelerazioni e rallenty, Lotus Eaters è California ariosa e solare e Sorry If sta tra Pogues e Blues Traveller  con la pindarica armonica di John Popper in azione. La brava Cindy Cashdollar mette invece la sua Weissenborn guitar al servizio del dolente Delta blues di Circus mentre Jono Manson è un po' dappertutto, produzione compresa. Un plauso ai testi,  in Black Oil si parla di disastri ambientali e profitti delle compagnie petrolifere, in Bad Liver Blues, Jimmy Ragazzon  ci racconta con coraggio del suo fegato. Veri e autentici, non c'è che dire, anche se nati nel pavese e non sulle strade che dal Mississippi corrono verso la Louisiana, Far Out è frizzante come un prosecco dell'Oltrepò. Ottime le foto e la grafica di copertina, molto Grateful Dead.

 

MAURO ZAMBELLINI    

 

 

giovedì 12 dicembre 2013

LOU REED (1942-2013) Morte di un Rock n'roll Animal Parte II



 

"Non ho mai voluto essere altro che la rappresentazione del negativo". Queste parole esprimono quello che è stato Lou Reed negli anni settanta, il narratore del mondo delle ombre, dei devianti, il cantore dell'autodistruzione e della decadenza , il rock n'roll animal. " Lou Reed è l'uomo che ha dato legittimità e liricità all'eroina, alle anfetamine, all'omosessualità, al sadomasochismo, all'omicidio e alla misoginia, per poi smentire tutte le conclusioni e trasformare il tutto in un monumentale scherzo di cattivo gusto". Così scriveva il defunto giornalista americano Lester Bangs, per poi aggiungere " Lou Reed è un ruffiano che ha vissuto di quello stupido nichilismo della generazione degli anni 70 che non ha avuto il cuore e l'energia di suicidarsi".

Lou Reed non è stato solo un cattivo maestro perché se gli anni sessanta lo hanno visto vestire i panni del temerario capace, coi Velvet Underground, di sconvolgere il normale ascolto musicale e l'estetica del rock, e gli anni settanta lo hanno visto scendere all'inferno e ritornare illeso,con un pugno di album che da soli basterebbero a spiegare le contraddizioni di quella decade,gli anni  successivi hanno conosciuto un artista capace di riconsiderare sé stesso e le proprie opinioni senza rinnegare il suo passato, continuando a sperimentare nuove vie con cui leggere e decifrare la complessa realtà del vivere. 

    

     Ci sono cose che hanno profondamente inciso nella vita di Lou Reed, nato come Lewis Allan Reed il 2 marzo 1942 a Brooklyn da una famiglia ebrea, il padre contabile fiscale e la madre casalinga. La prima è una educazione yiddish che gli regala un umorismo sarcastico ed un cinismo terribile, la seconda è il trattamento di elettroshock cui fu sottoposto all'età di 17 anni per volontà dei genitori nel tentativo di "curare" i suoi atteggiamenti disturbati, in primis una latente omosessualità, scoperta a 13 anni, e poi la sua volontà di diventare un musicista rock. Un incubo per una famiglia ebrea americana di classe media degli anni 50 ed un patimento per il giovane Lou che a fatica e non senza conseguenze uscì da quella terribile esperienza, su cui, anni più tardi, riuscirà perfino a scriverci una canzone, Lady's Godiva Operation.

La terza cosa che incise profondamente sulla sua educazione fu la frequentazione della Syracuse University dove a 22 anni conseguì il diploma di Arts and Sciences. Qui, in sequenza, incontrò il jazz di Ornette Coleman, gli scritti di William Burroughs e Hubert Selby Jr., in particolare Ultima Fermata a Brooklyn, l'anfetamina, il futuro chitarrista dei VU Sterling Morrison, amori maschili e femminili e soprattutto Delmore Schwartz.

Delmore Schwartz è uno scrittore/poeta che ebbe una notevole influenza sugli scrittori newyorchesi degli anni 30 e 40, morto in solitudine a 53 anni all'Hotel Marlon di New York dopo che per ben  due giorni nessuno, nemmeno la direzione dell'albergo, si accorse del suo decesso. Era stato promosso a ruolo di insegnante di scrittura creativa all'Università di Syracuse nientemeno che da Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura. Schwartz era uno scrittore di razza, aveva scritto Nei Sogni Cominciano Le Responsabilità, un testo divenuto una sorta di culto tra i lettori e gli altri scrittori, un racconto capace di impressionare il giovane e curioso Lou Reed. Ma per istinti autodistruttivi, complici l'alcol e le pillole, Schwartz oscillava dentro e fuori la depressione. Reed ne fu affascinato, probabilmente perché si identificava in un personaggio ancora più disturbato di lui. Bevevano insieme, usavano insieme l' anfetamina  ma soprattutto Lou fu stregato dal suo modo semplice ed intenso di scrivere. "Parole semplici che messe su tre accordi potevano suscitare una emozione". Questa fu la lezione che Reed imparò da Delmore Schwartz e fu questo che fece con la musica. Cominciò con lo scrivere canzoni a 25 dollari la settimana per l'agenzia Pickwick e poi conobbe John Cale, studente gallese coi capelli lunghi e lo sguardo torvo che suonava in un ensemble di musica d'avanguardia diretto dal compositore La Monte Young. Fu una scintilla, una rivelazione ed una rivoluzione. Dopo un tentativo maldestro di incidere una canzone col nome di Primitives, gruppo che nemmeno esisteva, i due diedero vita ai Velvet Underground rubando il nome ad un libro tascabile di poco prezzo sul sesso che avevano trovato dalle parti di Ludlow Street, nella Lower East Side, dove Reed e Cale in quei giorni abitavano. Un nome appropriato per quella che sarebbe divenuta la band alternativa underground più importante della storia del rock. I VU si formarono nel 1965 nella parte meridionale di Manhattan, la malfamata Loisiada e alla musica fiori, amore e buone vibrazioni della California e del Sergente Pepper contrapposero un rock oscuro, dissonante, sgraziato, che parlava di perversioni sessuali, suicidio, droga pesante, femmine fatali e sadomaso, rifiuti urbani e arte mistica, con un suono che rasentava quello di un rasoio elettrico impazzito, frutto della combinazione tra lo stridio della viola elettrica di Cale, il tambureggiare delle percussioni di Maureen "Moe" Tucker ed il feedback delle chitarre, col tempo che accelerava e rallentava a seconda delle esigenze del testo. I quattro VU, con Reed e Cale, c'erano il chitarrista Sterling  Morrison  oltre alla batterista  Maureen Tucker, si presentavano vestiti di nero e con occhiali scuri, iettatori di un mondo malsano che trovava sfogo in canzoni dai titoli inquietanti: Venere in Pelliccia, Eroina, Sarò il tuo Specchio, Sto Aspettando il mio Uomo, Canzone di Morte dell'Angelo Nero. Sorella Raggio, Femmina Fatale, Luce Bianca/Calore Bianco.

Il tempo di tre album, la Banana  con la voce candida e malata di Nico, anno 1967,il dissonante ed estremista White Light/White Heat del 68 ed il contemplativo The Velvet Underground  dell'anno seguente, ed il rock non fu più lo stesso. Meno male, saremmo ancora in American Graffiti senza la meteora dei Velvet Underground. Quando uscì nel 1970 Loaded, bello da morire con quelle prime arcane e semi acustiche versioni di Sweet Jane e Rock n' Roll, il gruppo non c'era già più, almeno nella sua formazione originaria. Nico era stata estromessa già in White Light/White Heat, Cale se ne era andato al momento di registrare il terzo omonimo album e Lou Reed era tornato nella casa paterna di Freeport, a Long Island, dopo contrasti col manager Steve Sesnick. L'ultima sua apparizione coi Velvet fu il 23 agosto 1970 al Max's Kansas City, uno dei locali prediletti da Warhol e dalla sua corte, concerto registrato per caso da un'attricetta e pubblicato su disco solo due anni dopo.

Non passò molto tempo prima del suo ritorno in scena,grazie all'aiuto di David Bowie e alle compiacenze del glam rock. La trasformazione fu radicale, dopo la partenza falsa di un album solista prodotto come un campo di patate, avvenne nel 1972 quando a New York sbarcò Candy, venuta da fuori Manhattan a spassarsela con tutti nella stanza sul retro,senza mai perdere la testa nemmeno quando lo prendeva tutto in bocca, Holly era appena arrivato da Miami, attraversando gli States in autostop, si era rasato le sopraciglia, depilato le gambe e così era diventato una lei, Little Joe faceva una botta qui ed una botta là e tutti dovevano pagare e Sugar Plum Fairy era venuto a battere in cerca di bocconcini neri ed un posto per mangiare. Sono i pittoreschi protagonisti di quella balade  immortale ed immorale nota come Walk On The Wild Side, una canzone su cui tutti in seguito, a cominciare da Willy DeVille, ci avrebbero costruito quel modo di cantar-parlando al ritmo vizioso di uno sculettare nella parte selvaggi della città. Una canzone tanto semplice  quanto inarrivabile, col sax che chiude il passeggio con un assolo che nel rock è l'equivalente della entrata di John Coltrane in Round Midnight di Miles Davis.Transformer, appunto si intitolava quell'opera sui vizi del sottobosco urbano del West Village contenente Walk On The Wild Side, fu prodotto da David Bowie e dal suo chitarrista Mick Ronson,un lavoro in grado di annoverare almeno altri quattro flowers in the dirt ovvero Vicious, bozzetto ironico di un masochista omosessuale tra fiori e depravazione, Perfect Day, nostalgico ricordo di una persona amata, usata nella drogata colonna sonora del film Trainspotting e poi titolo di uno splendido unplugged del 1998 di Lou Reed, Live In London, la gelosia ossessiva di Satellite of Love ed il pastiche jazz in stile dixieland di Goodnight Ladies, bizzarra canzone di un uomo ingannato da una donna. Nella carriera di Lou Reed Transformer  significò  una nuova partenza dopo l'avventura art-rock coi VU,gruppo che all'epoca non si filò nessuno sebbene diventato nel tempo il maggior responsabile di rock n'roll bands nate per emulazione .

Capelli cortissimi, la t-shirt nera attillata, i jeans d'ordinanza ed il mascara sugli occhi,Lou Reed con Transformer  diventa un idolo del glam rock sponda americana, ed il movimento di liberazione omosessuale si identifica in lui e nelle sue canzoni trasgressive. Lui sfrutta l'opportunità, evita accuratamente di mettersi zeppe e lustrini come l'amico Ziggy Stardust ma gioca sull'ambiguità esistente tra persona ed immagine, tra uomo e attore e porta alla ribalta senza vergogne la sua inquietudine, la sua diversità, i suoi vizi. Non passa inosservato, in Italia a metà degli anni settanta viene contestato dall'ala più radicale e oltranzista del movimento, lo accusano di essere un "cattivo esempio per le masse", uno sporco decadente dalle sfumature nazistoidi e quando, capelli ossigenati biondi,movenze androgine, pelle nera e borchie ovunque,simula sul palco una pera con tanto di siringa, il concerto viene interrotto. Ma c'è chi lo ama e lo idolatra, sono molti a subirne il fascino maledetto da junkie aristocratico, nutrono nei suoi confronti un morboso compiacimento e finiscono con l'imitare "sul campo" il cattivo maestro, rimanendo imprigionati   nella spirale senza ritorno dell'eroina.

Transformer  diventa un successo, a ben vedere erano tempi più spregiudicati dei nostri, nonostante tutto, se un disco che fa emergere la bellezza e la sensibilità interiore anche in forme eccentriche e in situazioni scabrose che contrastano con la morale comune e dominante, in cui si fa esplicito riferimento al sesso, all'omosessualità e al travestitismo, con personaggi scandalosi ed estremi, vende migliaia di copie scalando le classifiche inglesi e americane. Siamo nel 1972 e la rivoluzione sessuale è solo faccenda di pionieri.

Walk On The Wild Side ha di per sé una genesi suggestiva. Ispirata all'omonimo romanzo del 1956 scritto da Nelson Algren che Andy Warhol intendeva mettere in musical, viene "trasformata" da Reed in canzone. Dall'originale ambientazione a New Orleans la ricollocò a New York sostituendo i personaggi di Algren con una galleria di figure tratte dai film e dalla Factory di Warhol, come Holly e Candy, due travestiti che recitavano nei suoi film, Sugar Plum Fairy soprannome di uno spacciatore che occasionalmente frequentava la Factory e Little Joe, che altro non era che l'attore Joe Dallessandro, macho sex symbol di film come Trash ed Heat. Con Walk On The Wild Side, Lou Reed descrive personaggi di un mondo che la gente trovava affascinante e misterioso. "Fatti una passeggiata sul lato selvaggio" era un modo di dire un po' provocatorio a New York ai benpensanti di avventurarsi in posti sconosciuti e viziosi. Alla gente piaceva chi si era inoltrato nella parte selvaggia della città (o della vita) e ne era tornato sano e salvo. Lou lo aveva fatto.

 

 

70's FLOWERS

      Per tutti gli anni settanta Lou Reed rimase un modello di trasgressione ma anche di violenza sonora e di innovazioni soniche, e quando la quiete subentrava alla tempesta c'erano vinili come  Coney Island Baby (1976) che dietro il testo sadico e brutale di Kicks (un rapporto sado-maso protratto fino alle estreme conseguenze) celava delle calde ballate dai toni dolci con cui raccontare lo spirito gay che albergava a New York o almeno nella zona del West Village.Canzoni sull'amore e l'amicizia al suono di un rock melodico che traeva spunto dal soul newyorchese anni '50, dal doo-woop dei tanto amati Dion & The Belmonts,dal lavoro di Jack Nitzsche negli arrangiamenti e con la lenta e affascinante Coney Island Baby dedicata espressamente a Rachel, il vistoso travestito con cui Lou visse per gran parte degli anni settanta. Lo stesso trans, disegnato a tinte forti,labbra vogliose e sigaretta pendula,è sul retro copertina di Sally Can't Dance (1974), party record poco amato dai fans per le sue aperture funky e dance sfacciatamente glam, troppo molle per piacere ai fans ma primo e solo Top Ten della sua carriera, giunto sugli scaffali a ruota dell'ostico e tetro Berlin (1973). Lì si racconta la storia di una coppia di tossicodipendenti americani trapiantati a Berlino, Jim e Caroline ed il loro travaglio sentimentale tra droga, dipendenza, perversioni sado-maso, crudeltà domestiche e violenze psicologiche, "E' una storia- ha affermato Lou Reed- di gente che esisteva negli anni '70, non solo a Berlino ma ovunque. Molti mi sconsigliarono di fare un disco su una storia così violenta ed angosciante ma finalmente traducevo quello che mi aveva insegnato Delmore Schwartz, fare delle pop songs con storie vere, tragiche, drammatiche". Orchestrato e arrangiato,(nel 2006 ne farà una trasposizione live in un teatro di  Brooklyn con cori ed orchestra, da cui disco e film, Berlin: Live at St.Ann's Warehouse),Berlin  risente della cultura teatrale mittleuropea, in particolare del cabaret tedesco di Kurt Weill e Bertolt Brecht, l'atmosfera è plumbea, cupa, funerea, in The Kids il pianto straziante dei figli portati via alla madre Caroline, junkie e prostituta, e affidati al padre, sono tra le cose più raccapriccianti ascoltate in un disco di rock. Un album angosciante come pochi, ma lucido nella rappresentazione di un ambiente che negli anni settanta conobbe morti, disperazione e follie, il prologo di una generazione distrutta dalla droga e dall'Aids.

Due anni dopo Berlin,  Lou Reed rincarò ancor di più la dose in quanto a provocazioni sonore, obbligando la Rca a pubblicare Metal Machine Music, una stridente cacofonia di distorsioni e suoni elettronici che dura 64 minuti ma non finisce mai perché l'ultimo solco, uno scricchiolio, si ripete all'infinito, come se la puntina  "saltasse" sul vinile. La rivista Rolling Stone lo votò come il peggior disco dell'anno e furono migliaia i dischi riconsegnati ai negozi, tanto che la casa discografica fu costretta ad applicare in copertina uno sticker con scritto: questo non è un disco cantato.

Beffardo e sarcastico, Lou Reed non ne fu affatto turbato, quasi volesse con quel lavoro cancellare l'immagine pop che gli aveva cucito addosso Transformer. Scrisse: "alla maggior parte di voi questo disco non piacerà, non vi biasimo, non è per voi. Una mia settimana vale un vostro anno". Amen.  Lo si poteva benissimo perdonare, se non altro perché nell'impossibilità di portare on tour un'opera scabrosa come Berlin, il manager e produttore Dennis Katz aveva allestito il Rock n' Roll Animal Tour  con gli stessi musicisti. Ne uscì un album fenomenale, la quintessenza  del sound degli anni settanta in tutta la loro violenza e febbricitante eccitazione. Rock n'Roll Animal (1974), ancora oggi svetta come  il live più devastante nell'ambito di un rock metropolitano potente e cruento, nervoso e tossico, che si divide tra scudisciate metalliche e  ballate da scimmia sulla schiena. Sentire ancora oggi quella band che suona col coltello tra i denti, quella vertiginosa escalation di Rock n'Roll col duello al calor bianco delle chitarre di Dick Wagner e Steve Hunter, mai più così risolutori, ed il basso di John Prakash che pompa ossesso, sono brividi alla schiena come fosse la prima volta, il trionfo di una jungleland urbana priva di qualsiasi orpello romantico,  pura energia  rock che esce dalle viscere della città e diventa salvazione di un esercito di mutanti in cuoio nero che ha come ultima spiaggia una sferragliante violenza elettrica  dai risvolti nichilisti. Altro che Sex Pistols,non ci sarebbe stato bisogno del punk se il rock della negazione si fosse espresso sempre a quei livelli. Un disco pericoloso,contagioso, da maneggiare con cura, un titolo esemplare,una registrazione ottima per l'epoca ma una operazione discografica discutibile: perché dividere quell'incredibile ed irripetibile show  all'Howard Stein's Academy di New York in due dischi singoli? Rock n' Roll Animal appunto, con l'indimenticabile Intro che sfocia in Sweet Jane e poi chiude la prima facciata con la terrificante Heroin, e la seconda con White Light/White Heat, Lady Day e l'apoteosi di Rock n'Roll,  e l' altro capitolo,tratto dallo stesso concerto e pubblicato come Lou Reed Live nel 1975 con Walk On The Wild Side, I'm Waiting For My Man, Vicious, Satellite of Love, Oh Jim, Sad Song. D'accordo le lunghezze ridotte consentite dal vinile, ma non si poteva forse  farne un doppio album, pratica così diffusa in quei giorni di grandi album dal vivo. Nemmeno le varie edizioni in CD hanno rimediato a ciò, rimettendo l'intero show in un unico supporto.

      

    Se la prima metà degli anni settanta vide Lou Reed assurgere a Principe Nero di New York, il resto della decade non fu certo una passeggiata nel parco. Così la racconta Lou Reed " dopo Metal Machine Music ero stato citato a giudizio da un manager e dal fratello produttore, non avevo soldi e non avevo chitarre, i roadies se le erano portate via non avendo ricevuto i pagamenti, ero indebitato con tutti, anche col sindacato dei musicisti. La Rca mi aveva sistemato al Gramercy Park Hotel, lì c'era la Rolling Thunder Revue pronta a partire in tour ma io non stavo andando da nessuna parte se non dai sindacati, dagli avvocati e dai contabili per cercare di tirarmi fuori dal casino in cui mi ero cacciato. Ero tra l'altro inadempiente ad una ingiunzione del giudice perché non pagavo le tasse da cinque anni. Poi Ken Glancy, che era il presidente della casa discografica e anche mio amico mi fece promettere di non fare un altro Metal Machine Music , di scegliermi uno studio e di fare un disco di rock. E così ho fatto". Fu l'ennesima ripartenza per Lou Reed, la terza dopo i VU e Walk On The Wild Side, proprio a metà della decade Coney Island Baby, un disco praticamente perfetto, sparse armonie, accordi semplici, ritmi maliziosi, chitarre nitide e precise ma anche magistrali colpi di rock, oltre a quella Kicks  che evocava il secondo album dei VU e contrastava con l'apparente quiete dell'album. Che i toni si fossero smussati lo si capì pochi mesi dopo quando venne pubblicato Rock n' Roll Heart (1976), l'equivalente di una seduta dallo strizzacervelli in una clinica di riabilitazione,disco troppo sedato per chi solo un anno prima cantava di sadomasochismo e sottomissione con la leggerezza  di chi fa sembrare tutto così pulito anche se c'è così tanto sporco. Fu Street Hassle  nel 1978 a rimettere le cose a posto, un disco per certi versi innovativo e a tratti perfino sperimentale, una sorta di ritorno alle sonorità dei VU con l'introduzione del violoncello e i morsi di un dissonante ed imbastardito rhythm and blues metropolitano. Lou gioca sui doppi sensi, in I Wanna Be Black attacca in modo irriverente il politically correct dell'intellighentzia bianca che sbava attorno alla cultura nera, in molte tracce del disco compare il sassofono, Real Good Time Together  è ripresa dal repertorio dei VU in  risposta alla versione che ne stando il Patti Smith Group nei suoi concerti, c'è anche un cameo di Springsteen ma dimenticatevi il romanticismo da backstreets, qui Reed è l'osservatore cinico delle strade di New York che rinfaccia al ragazzo le responsabilità nei confronti della sua ragazza morta sull'asfalto per un overdose. Nera la copertina, nero il sound, Street Hassle  è una New York convulsa e pericolosa,il cui suono sale dal Cbgb. Il suo rumore musicale e qualche schizzo sonoro avanguardistico fanno pensare alla trilogia berlinese di David Bowie e forse non è un caso che il seguente The Bells  sia registrato in Germania con una nuova tecnica "biacustica". Il nuovo disco non ha lo stesso focus del precedente ma la band è la stessa con l'aggiunta di Michael Fonfara alle tastiere.  Giunto in un periodo di diete biologiche e passeggiate nei boschi del New Jersey, dopo che Reed aveva abbandonato droghe,l'appartamento di Christopher Street a New York ed il compagno/a  Rachel, The Bells  tenta con risultati non sempre all'altezza di erigere una ambiziosa opera gotica  su colpa, salvezza e pentimento. L'autore occhieggia al jazz appellandosi alla tromba di Don Cherry, non è una furba trovata ad effetto perché il jazz è sempre stato nel cuore di Reed, da Strange Fruit di Billie Holiday ad Ornette Coleman ed Albert Ayler. Per non parlare di bluesmen come Muddy Waters e Robert Johnson, poco evidenti nella sua opera ma comunque ammirati, citati a più riprese, come Dylan e i romanzieri Melville e Raymond Chandler.

Testimonianza delle sue uscite pubbliche di quegli anni a cavallo del punk, è il doppio live Take No Prisoner, lontano anni luce dalla  crudezza e dalla veemenza di Rock n'Roll Animal, registrato al Bottom Line di New York nel '78 con una band che mastica funky ed un rock urbano sporco e grasso, niente metallo urlante, piuttosto sax, piano elettrico, synth e basso nigger come fosse un ensemble di jazz-rock. I Wanna Be Black  è la fotografia di quel sound anche se persistono i classici del passato e la copertina a fumetti fa pensare a Tanino Liberatore e al suo Rank Xerox il Coatto.

 

 

DIETRO LA MASCHERA

Con quel live si chiude un'epoca, gli anni ottanta al confronto delle due decadi precedenti sono per Reed un po' miseri, considerata la smorta sequenza di album come Growin' Up In Public (1980), Legendary Hearts (1983), Mistrial (1986), pallide copie di un rock sovversivo adesso piuttosto annacquato. Nel 1980 Lou Reed sposa la designer inglese Sylvia Morales,da cui divorzierà dieci anni più tardi e a cui dedicherà alcune canzoni, pur mantenendo il matrimonio lontano dalle luci della ribalta. In questi anni Reed diventa testimonial della nuova Honda Nighthawk, in Legendary Hearts  c'è difatti un casco da motociclista in copertina ma l'evento che più conta a livello musicale è la conoscenza del chitarrista newyorchese Robert Quine, transfugo dai Voidoids di Richard Hell. Lo conosce grazie alla moglie Sylvia e con lui realizza l'eccellente The Blue Mask (1982), art-work di copertina vagamente Transformer  opera della stessa moglie. In The Blue Mask  c'è il ritorno in campo di un classico ed essenziale quartetto rock n'roll (Fernando Saunders al basso e Doane Perry alla batteria) con Robert Quine protagonista di un sound urbano asciutto, tagliente,squisitamente newyorchese. Alcune canzoni lasciano il segno come in passato,The Gun, The Blue Mask, My House e Waves of Fear, nella quale confida i suoi attacchi di panico dopo la rinuncia a droghe ed alcol e The Day John Kennedy Died e The Heroine, due episodi in cui Lou Reed, a partire da uno degli eventi più traumatici della storia americana,fa uscire una consapevolezza politica mai evidenziata in precedenza . Al contrario New Sensations  del 1984 è un furbo lasciapassare per infilarsi in  MTV dalla porta principale. Il video di I Love You Suzanne entra nella heavy rotation di MTV e l'autore confessa di volere ora "un certo suono sentito alla radio", per accaparrarsi le nuove generazioni. I fans lo ignorano, in copertina  Reed gioca con un joystick davanti alla Tv, qualcuno afferma che si è bevuto il cervello. Ma sono tempi così. La produzione è in linea con l'intento, ci sono chitarre e sintetizzatori, fisarmoniche e violini elettrici, basso e contrabbasso, di tutto e di più per rendere il suono più "complesso", anche i fiati dei fratelli Brecker. Ad essere sinceri, siamo a metà anni ottanta e avete presente le tastiere della E-Stret Band ?,tanto per fare un esempio eclatante, il disco non è così paraculo, in quel periodo asfittico di musica di plastica e arrangiamenti supervitaminizzati,  anche New Sensations  sembra rock n'roll. Forse è solo un miraggio ma non nego di averci ballato sopra a qualche festa. Per rivedere la luce bisogna  aspettare il 1989 ed è luce abbagliante. New York arriva come un fulmine a ciel sereno, quando meno te lo aspetti. E'un capolavoro già dal primo ascolto, scarno, agro, povero di strumenti ma ricco di emozioni. Con il chitarrista Mike Rathke (nel frattempo si era conclusa l'amicizia con Quine), il basso e contrabbasso di Rob Wasserman e la batteria di Fred Maher (produttore del disco) Lou dipinge l'amaro affresco di una città in decadenza morale, tra declino e contraddizioni, ricchezze spropositate e corruzione politica da una parte e homeless e malati di Aids dall'altra. New York appare una città cupa di senza casa e senza speranza, di pregiudizi razziali ed ingiustizie sociali, un quadro cinico e veritiero della sua città,un album in bianco e nero che catapulta di diritto Lou Reed nella letteratura americana del secolo scorso, a fianco di Walt Whitman, Edgar Lee Masters, Raymond Chandler.  "Un disco da leggere, un libro da ascoltare" è scritto sulla copertina dell'album, opera cruda e dai colori lividi, "album di rabbia e compassione, di ricerca spirituale e schietto realismo"( Daniele Federici,Le Canzoni di Lou Reed, Editori Riuniti). Viene concepito subito dopo la scomparsa di Andy Warhol nel 1987 ed è il primo atto di un'opera al nero o trilogia del dolore in cui Reed ricompone una visione morale della vita,  differente dagli eccessi che avevano contraddistinto il suo passato. Dopo New York è Andy Warhol al centro della sua poetica. Ignorato per non essere stato invitato al matrimonio di Lou con Sylvia, Warhol scrive parole amare nei suoi confronti, rese pubbliche dai  Diaries  ma la sua improvvisa morte, il 22 febbraio del 1987, induce Lou a ritornare su una vecchia amicizia e scrivere un degno epitaffio al suo mentore. Con l'ex VU John Cale dà il via ad un progetto di musica, parole e filmati a lui dedicati che viene presentato all'Opera House della Musical Academy di Brooklyn il 30 novembre dell'89. Nell'ultima serata sale sul palco anche Maureen Tucker in una sorta di estemporanea reunion dei Velvet Underground. Una serata speciale perché da lì nasce l'idea del disco in memoria di Warhol e lì germoglia la vera reunion della storica band. Cosa  che si concretizzerà tre anni dopo quando in occasione dell'inaugurazione della Andy Warhol Exposition promossa dalla Fondazione Cartier a Joiy- en-Josas, periferia di Parigi, ai tre si unirà il chitarrista Sterling Morrison per eseguire dal vivo Heroin. Riallacciati i rapporti e messi da parte gli antichi dissapori, i quattro VU si cimenteranno in un rischioso tour europeo testimoniato da un disco ed un video (Live MCMXCIII), progetto che mostrerà presto prevedibili limiti di coesistenza, sfumando (complice l'improvvisa morte per infarto di Morrison) ancora prima dell'appendice americana del tour. Dalle serate all'Opera House di Brooklyn maturerà Songs For Drella (1990)lavoro a quattro mani di Reed con Cale in cui la parabola artistica ed umana di Warhol verrà cantata con musica trepidante ed intima, al confine tra minimalismo, classicità e avanguardia, una sorta di musica da camera semielettrica segnata dalla viola di Cale e dalle chitarre di Lou. Lavoro unico e originale, accolto positivamente da critica e pubblico, nonostante l'assenza di brani radiofonici. Con Magic and Loss (1992),ultimo capitolo della trilogia, l'esplorazione di Reed nel dolore si spinge oltre, almeno per un'opera rock, un'audace e commossa incursione nelle sofferenze e nell'agonia di due amici malati di cancro, il compositore e musicista Doc Pomus, ed una non meglio identificata Rita che molti dicono essere Rachel, il suo compagno/a degli anni settanta. Il viaggio nella sofferenza si compie in quattordici tracce che parlano di amicizie e sentimenti attraverso il dolore e la morte,riuscendo comunque a trovare magia anche nel dramma. Il sound è anche qui scarno e asciutto, in pratica il quartetto di New York  con Michael Blair al posto di Fred Maher e di una occasionale Moe Tucker. E' un Lou Reed più adulto, umano e responsabile quello che esce da questa trilogia, un musicista che riesce a coniugare la semplicità del rock con un punto di vista da vero intellettuale ed una sensibilità da raffinato poeta, un artista capace di una precisione incredibile nel visualizzare la parola. Anche la storia recente, sebbene meno ricca di colpi di scena e di popolarità, testimonia di un' artista mai pago nella ricerca di nuovi territori espressivi, coinvolto sempre di più nella poesia e nel teatro (POEtry con Robert Wilson), nella letteratura (l'adattamento rock di The Raven di Egar Allan Poe), nelle arti figurative e nella fotografia (si veda a proposito Rimes/Rhymes e Lou Reed's New York). La musica rimase comunque al centro della sua multiforme curiosità e negli anni novanta due album ribadirono la sua vivacità espressiva e la sua attitudine rock. Il violaceo Set The Twilight Reeling  arrivò dopo la fine del suo matrimonio con Sylvia ed il fallimento della riunione dei VU e corrispose, più o meno, alla nuova relazione con Laurie Anderson (conosciuta nel 1992 a Monaco durante il Festival in ricordo delle vittime della Notte dei Cristalli del 1938,che segnò l'inizio dell'Olocausto) a cui il disco è dedicato. Un lavoro rilassato privo della tensione emotiva che avevano avuto New York e Magic and Loss ma piacevole e con New York al centro dell'attenzione, questa volta vista nei termini di qualcosa che continua ad esercitare su di lui un richiamo ed un fascino irresistibile.  Il disco è chiacchierato soprattutto per la presenza di Sex With Your Parents (Motherfucker) Part II, titolo che non ha bisogno di traduzione, dove con parole al vetriolo e con rabbia  Lou riversa il proprio livore contro una serie di decreti varati dal Senato americano per la tutela degli adolescenti e la salute dei cittadini, in pratica l'imposizione dell'assurdo Parental Advisory  sui dischi contenenti insulti e parolacce, manifestazione dell'ondata di ipocrita  puritanesimo che attraversava e attraversa gli Stati Uniti. Un altro brano invece, Finish Line, offre lo spunto a Reed di ritornare sul rapporto di amore/odio che nutriva verso il chitarrista dei VU Sterling Morrison, ora deceduto, raccontato attraverso la metafora di una corsa che ha per traguardo la morte. Ma è Ecstasy  ad ottenere consensi di critica e pubblico,una estremizzazione del sound spigoloso e distorto di Set The Twilight Reeling  tra un minuetto noise ed un lirismo urbano ancora coinvolgente ed emozionante pur rapportato ai tempi che cambiano . Spiega lo stesso autore, "l'estasi è intesa nella sua accezione greca ovvero essere fuori di sé, così da raccontarla attraverso persone che l'hanno sperimentata o che la cercano, liberandosi dagli schemi".Con una veste sonora attualissima, Ecstasy  coglie la transizione tra vecchio (il rock classico) e nuovo (lo sperimentalismo e le frizioni grunge) attraverso un caleidoscopio di situazioni sonore, rumori,chitarre elettriche, distorsori,fraseggi acustici  e tensioni dominato dal lucido e funereo talking di Lou Reed, la cui voce è sempre più quella di un confessore al giaciglio di un morente. La stessa voce che si ritrova ancor più mortifera nel plumbeo e drammatico Lulu ,  doppio CD realizzato con la co-partecipazione dei Metallica,ispirato all'omonima opera teatrale di Alban Berg. Un disco assolutamente scomodo e difficile, dal suono tetro e pesante, ma grandioso e solenne, che sembra rivangare a tratti la urticante sperimentazione dell'eccesso intentata dai VU in Sister Ray (racconto di violenza ed autolesionismo degno di un Hubert Selby. Jr) e il melodramma autodistruttivo di Berlin. Lulu è stato rinnegato dai fan dei Metallica e ha avuto recensioni per lo più negative, conferma di un artista sui generis non omologabile, trasmette un senso di morte che non è cosa che si vuole sentire dopo una giornata di lavoro ma regala ai posteri l'ultima provocazione di un artista geniale che non ha mai voluto essere consolatorio e accomodante ma solo raccontare il lato oscuro dell'animo umano.

Lou Reed ha sicuramente ampliato le nostre vedute e la nostra percezione sulle possibilità del rock, trasformandolo in qualcosa di più reale, letterario, adulto. Non è stato un padre ma un maestro in grado di dirci senza peli sulla lingua che il rock n'roll non era solo gioia e spettacolo collettivo. Con le sue canzoni e i suoi dischi ha attraversato i tempi, li ha anticipati, prefigurati, letti e derisi con coerenza ed intatto spirito critico, spesso guardandoli a distanza con l'occhio del cronista che partecipa al dramma senza moralismi, mai barando su sé stesso. Fino alla morte.

 

 

MAURO ZAMBELLINI      

 

martedì 26 novembre 2013

RECKLESS KELLY Long Night Moon


Sembrava che non ce l'avrebbero mai fatta ad uscire dalla serie B di americana ed invece dopo otto album i texani Reckless Kelly hanno messo a segno il loro album migliore, un album suggestivo fin dalla copertina dove si respira il senso dei grandi spazi americani, il mistero di una wilderness capace di far scrivere ballate aspre e struggenti come Long Night Moon, un pezzo che da solo è in grado di fissare un immaginario.

Si sono messi insieme a Bend nell'Oregon centrale prima di traslocare, nel 1996 ad Austin, i Reckless Kelly,  per volontà dei fratelli Cody (violino, mandolino, chitarre, voce, percussioni) e Willy Braun (voce, chitarre, armonica), i quali dopo l'esperienza con la family-band di Muzzie Braun and The Boys  hanno raccattato un paio di amici ( tra cui il batterista Jay Nazz) e per vincere la noia (e rimediare qualche ragazza) si sono messi a suonare il country sentito nei dischi del padre con l'attitudine delle giovani grunge band del nord-ovest americano. Ne è nato un country-rock bastardo, pregno di umori e rabbia punk  ma attinente con la musica di famiglia. Il loro debutto, Millican (1998), fece scalpore portandogli i favori di gente come Todd Snider, Joe Ely e Robert Earl Keen ma poi strada facendo, causa anche i continui cambi di formazione, la band ha perso smalto e originalità attestandosi su uno standard dignitoso di country-rock e honky-tonk chitarristico, una delle tante espressioni di americana, onesta, sincera, energica dal vivo ma non in grado di elevarsi sopra la media. Non hanno insomma avuto la stessa fortuna dei colleghi Drive By Truckers, per certi versi somiglianti nel mischiare energia rock e tradizione .

Il contratto nel 2010 con la Blue Rose per la distribuzione europea dei loro dischi, ha smosso le acque, prima Somewhere In Time e soprattutto adesso Long Night Moon, dicono che i Reckless Kelly non sono ancora al capolinea. Con Joe Miller al basso, il fedele Jay Nazz alla batteria e David Abeytan alla lap steel, i fratelli Braun hanno ritrovato nuova linfa e l'ispirazione per scrivere e cantare belle canzoni che si pongono a metà strada  tra la ballata evocativa e le unghiate elettriche di un rock da roadhouse, con diverse escursioni nei territori di un country-western per solitari e sognatori dove la lap steel incornicia  paesaggi  di un'America di provincia e di polvere immutata nel tempo.

Long Night Moon gode di un suono essenziale ma non semplicistico, le chitarre  trainano la diligenza, la voce di Willy Cody ricorda quella di Steve Earle, è disperata e ha la forza di raccontare un'altra storia di rabbia e malinconia, è un rock di strada arruffato ma attento alla melodia e a precisi dettagli sonori, le tastiere, quando ci sono, spingono, come in The Last Goodbye  verso la solare California dopo che un pugno di ballate dai toni ruvidi e scorbutici, scolpite nella quercia,  contrappuntate da una fisarmonica, da un violino, da una lap-steel, accompagnano l'ascoltatore nei luoghi oscuri  di un'America ben più profonda ed arcaica, legata ai riti di una notte di luna.

Inizia con Long Night Moon la cavalcata di Reckless Kelly, nome rubato al celebre fuorilegge australiano, e si conclude dopo dodici tracce (nell'edizione europea c'è la bonus track Any Direction Frm Her)  in Idaho, brano folkie con echi di gotico rurale americano, una cavalcata tra chitarre twang e roots n'roll, tra murder ballads e bachpork country rock, tra luce e buio, tra strumenti elettrici e corde acustiche, tra storie d'amore e d'amicizia non sempre felici, uno scampolo di sopravvissuto american dream senza enfasi e liturgie da vincitori

 

MAURO ZAMBELLINI   NOVEMBRE 2013

venerdì 15 novembre 2013

the Waterboys FISHERMAN'S BOX


Era bello allora quando uscì nel 1988 ed è ancora più bello adesso, nella estesa edizione in Box Set con sei CD che testimoniano tutto il processo creativo che ha portato a Fiaherman's Blues, capolavoro della discografia degli Waterboys ed uno dei dischi cardini della contaminazione tra rock, folk celtico e musica americana. Quando uscì quell'album ci rendemmo subito conto che pur essendo un disco bellissimo, si era ancora in un'epoca di vinili, non era assolutamente sufficiente a raccontare quell'amore e quel feeling incredibile tra Irlanda e America, che almeno sarebbe stato necessario un altro disco, da accompagnare l'originale in uno di quei double album che hanno fatto la storia del rock, tipo il White Album, Blonde on Blonde, Exile On Main Street, The River, London Calling. Non dischi dal vivo ma doppi album in studio che colgono e raccontano un momento creativo irripetibile, capace di lasciare un segno eterno nella storia del rock. Fu una occasione mancata, anche perché nel seguente, più pallido, Room to Roam trovarono posto brani precedentemente concepiti per Fisherman's Blues e lasciati orfani. La storia non la si può cambiare, è andata così, dello sbaglio se ne devono essere accorti anche i protagonisti, in primis Mike Scott che con il sassofonista Anto Thistelthwaite ed il violinista Steve Wickham venticinque anni dopo hanno pensato bene di allestire un tour (la prossima settimana saranno da noi) con cui onorare quello strepitoso disco.

Fisherman's Blues uscì dopo che un altro gruppo irlandese, gli U2, al tempo il gruppo all'apice del rock, avevano conquistato l'America con Joshua Tree e Rattle and Hum varcando l'Atlantico e andando ad abbeverarsi alla fonte della musica americana, al blues di B.B King, al country di Gram Parsons, al jazz di Billie Holiday e rendendo esplicito quello che era sempre stato ovvero che il country ha un cuore irlandese trapiantato sui Monti Appalchi ed il rock n'roll, bastardo ibrido di hillbilly bianco e blues nero, qualcosa ( e tanto) lo deve al fardello di un irishman sbarcato ad Ellis Island col suo violino in cerca di una vita migliore. Ma se gli U2 furono i nuovi (e famosi) pellegrini di una migrazione ad Ovest, gli Waterboys dello scozzese Mike Scott fecero ancora di più, portarono l'America in Irlanda, portarono Bob Dylan, Hank Williams, la Carter Family e Woody Guthrie in uno stufato di musica celtica fatta di gighe e di reel, di folk cucinato al pub e di ballate pregne di rimpianto e nostalgia, di ritmi alla birra e di violini limpidi come un cielo del Connemara. Fecero il cammino inverso dei tanti irlandesi arrivati negli Stati Uniti, riportarono a casa la loro musica, quelle ballate, quelle storie, spesso tristi e zeppe di malinconia, con cui i loro avi avevano creato o almeno contaminato e reso più ricca e coinvolgente la musica americana. Il risultato fu grandioso, gli Waterboys scrissero con Fisherman's Blue una pagina esaltante, corale e commovente di musica senza barriere, un folk-rock in cui sembrano sfumare i confini tra musica a stelle e strisce e melodie della vecchia Europa, un disco di una forza evocativa impressionante, un ensemble di musicisti colti nel momento massimo della loro ispirazione e del loro coinvolgimento collettivo, una trascendenza pari ai migliori dischi di Bob Dylan, quello di Blonde On Blonde, un abbandono emotivo degno della Patti Smith di Easter e Set Me Free, un lirismo che fa a gara col miglior Van Morrison di Astral Weeks, Moondance, Into The Music.

Non fu lineare il cammino degli Waterboys, gruppo nato attorno alla personalità complessa, introversa, inquieta di Mike Scott, figlio di un insegnante di inglese in Scozia (già di per sé un conflitto), vorace divoratore e collezionista di libri, appassionato di W.B Yeats, Joyce, Eliot, Baudelaire e Rimbaud. Un background da "maledetto", come quello di Jim Morrison, ma è come giornalista freelance che muove i primi passi nella musica fondando la fanzine Jungleland ( ma vah....) con cui intervista Clash e Sex Pistols. Mette insieme gli Another Pretty Face e scrive una canzone dedicata a Patti Smith, A Girla Called Johnny. Quando trova sulla sua strada Anto Thistlethwaite, un sassofonista che suona il sax come usavano fare i Roxy Music e gli Audience, il batterista Kevin Wilkinson ed il tastierista Karl Wallinger, nascono gli Waterboys. "Uso l'acqua nelle mie canzoni perché serve alle mie liriche ma non ho assolutamente una teoria al riguardo. Ho vissuto negli anni della mia gioventù ad Ayr nella Scozia occidentale, è una cittadina sul mare, ho sempre amato il mare e ho sognato parecchio su esso. Freud direbbe che tali sogni rappresentano un ritorno al grembo materno ed una immersione nel liquido amniotico. Non so molto al riguardo, so che Freud è stato utile ma penso che oggi sia sorpassato".

Così Mike Scott liquida la genesi del nome del gruppo, gruppo che si ritaglia un posto di primo piano in quella che viene sommariamente definita dai giornalisti Big Music, con U2, Big Country,Hot House Flowers, Simple Minds, un rock epico e romantico, orchestrato con un forte senso del dramma. Siamo a metà anni ottanta, escono The Waterboys, A Pagan Place ed il superbo This Is The Sea, melodie imponenti come un mare in tempesta, canzoni visionarie, diffuso intreccio tra i suoni dei fiati, tromba e sax, tastiere (ultima apparizione di Karl Wallinger) e la voce messianica di Scott.
Il quale emigra a Dublino e lontano dalle pressioni londinesi inizia a lavorare al nuovo disco trovando ispirazione nel contatto con la gente irlandese, con l'ordinario quotidiano della vita di tutti i giorni al pub, i cui musicisti lo avvicinano agli idiomi tradizionali locali come il folk, la musica gaelica, le melodie celtiche, anche il country. Assieme a Thistletwhaite, Wickham, al bassista Trevor Hutchinson, al batterista Peter McKinney si rintana prima ai Windmill Lane Studios di Dublino e poi per avere un contatto ancor più diretto con la cultura gaelica negli studi di Spiddal a Galway, coinvolgendo musicisti tradizionali col bouzouki, le fisarmoniche, il mandolino, violini, le chitarre acustiche. Il ruolo di trombe e tastiere che aveva marchiato il sound maestoso di This Is The Sea e A Pagan Place viene ridimensionato in favore di un suono più spartano e ruvido, via di mezzo tra folk, rock e musica celtica, dove Irlanda e America si fondono in una nazione sonora unica portando a galla spirito epico, romanticismo, senso della storia, lirismo da brividi (si senta a proposito We Will Not Be Lovers in tutte le sue versioni). Musica orizzontale tra le due sponde di uno stesso oceano, luogo di incontro tra genti e culture, musica da capogiro e da delirio d'amore, oggi resa nella sua veste definitiva da questo Box Set di 6CD  dove tra prototipi, ripetizioni, abbozzi, stesure definitive, out-takes, jam alla Guinness, deliri improvvisi, canzoni finite, strumentali, cover, tante cover ( Dylan, Hank Williams, Woody Guthrie, Beatles, Van Morrison, Ray Charles, Carter Family, traditionals,Merle Haggard), viene documentato l'intero processo creativo di Fisherman's Blues iniziato nel gennaio del 1986 e concluso nel giugno del 1988, comprese le inedite session americane a Berkeley in California con John Patitucci al basso e Jim Keltner alla batteria.
 
Fisherman's Box non è l'ennesima  ristampa e nemmeno una furba operazione commerciale ( tra l'altro costa "solo" 26 euro) bollata come deluxe edition, ma l'iter completo in tutte le sue parti e sfaccettature di un'opera magnifica dedicata ad uno dei dischi più illuminanti degli ultimi venticinque anni. Dopo quel disco gli Waterboys non saranno più gli stessi, Mike Scott terrà insieme il "marchio" ma i dischi seguenti saranno un pallido ricordo di quella sinfonia di musica, visioni e cuore.
 
MAURO ZAMBELLINI