martedì 30 ottobre 2018

CARTOLINE DAL SUD. 1: SAMANTHA FISH AL BLUES & BBQ FESTIVAL



 

Sta costruendosi una reputazione di performer scatenata e viscerale la bella Samantha Fish, una gavetta in giro per gli States e concerti che ogni volta seducono il pubblico non per la bellezza delle sue gambe o la malizia delle sue mise ma per la musica, la voce, la sua infuocata chitarra. Ne ho avuto una dimostrazione al Blues and BBQ Festival, manifestazione gratuita che ogni anno a Lafayette Square a New Orleans per tre giorni mette in campo il meglio della musica locale e artisti ormai di fama nazionale. Come headliner dell'edizione 2018 è stata scelta proprio Samantha Fish con la sua band di sei elementi, un ritorno acclamato dopo la trionfale esibizione dello scorso anno e la scelta per la ventinovenne ragazza di Kansas City di trasferirsi a vivere proprio nella Crescent City. Anche quest'anno la Fish non ha deluso, anzi ha moltiplicato pubblico ed effetto tanto che lo spigliato e brillante presentatore del festival ha definito il suo show uno dei più eccitanti ed intensi di tutte le edizioni.
 
 

Lafayette Square è una piazza col giardino circondata dai grattacieli del Business District, tutto attorno è un pullulare di  posti ristoro con  la declinazione completa del fast food made in Usa,  dagli hamburger alle costine, dalle salsicce ai fagioli, dalla carne col chili al pollo fritto, presenti pure gli ormai immancabili involtini veggie, una coreografia di odori e sapori da mettere a dura prova la golosità di chiunque, nonché stomaco e fegato. Naturalmente non mancano birra ed un fornito banchetto di dischi della Louisiana Music Factory, il negozio di dischi più grande della città che ha resistito all'assalto di internet, e poi banchi di quadri di artisti locali,  poster, fotografie, artigianato vario, cappelli e t-shirts. L'atmosfera è rilassata ed il pubblico, numeroso visto la gratuità dell'evento, rispettoso dello spazio pubblico tanto che durante e alla fine del concerto è quasi impossibile trovare rifiuti, carte, bicchieri, piatti,  lattine o quant'altro. Una cosa che mi ha sorpreso pensando invece a quanto succede nei nostri open festival. Il cartello della rassegna è ampio e variegato, nei tre giorni si succederanno il bluesman  Walter Wolfman Washington (piacevole ed elegante il suo set), Jimmie Vaughan (deludente), John Papa Gros (divertente), Shemekia Copeland (calda e rockata ma inferiore alle mie attese), Papa Mali ( pindarico), Reverend John Wilkins (tra soul e gospel) e altri nomi come Kenny Brown, Washboard Chaz, Don Bryant,  Henry Gray con Terrance Simien e Lil Buick Singegal e Cookie McGee. Ma l'apertura venerdì 12 ottobre  la fa Samantha Fish, anzi Little Freddie King un bluesman locale molto popolare a New Orleans che scalda gli animi con un set in verità non memorabile dove, oltre all' abbigliamento sgargiante e alla età venerabile del musicista, spicca un blues non accademico ma lento, sintonizzato sull'ozioso groove di New Orleans con tracce di Bo Diddley  che si mischiano a qualche classico tipo Baby Please Don't Go. La voce del piccolo Freddie King sa di vecchie bettole di Bourbon Street, la band, discreta, annovera  un armonicista che riempie gli spazi lasciati dalla voce del leader, un bassista ed un batterista. Sono applausi di stima quelli che arrivano alla fine della sua esibizione, Little Freddie King è quello che si dice un eroe locale ed il suo nuovo lavoro Fried Rice and Chicken lo si trova in ogni negozio della città. Ma è quando sale sul palco Samantha Fish che Lafayette Square si infiamma. Memore del suo show la passata edizione del 2017 del Blues&BBQ Festival, il pubblico è accorso numeroso e la piazza è praticamente piena. Sinceramente conoscevo la Fish solo per l'ultimo CD Belle of the West e per i video su you tube dove non può passare inosservata una bella ragazza che canta un grintoso rock intinto nel blues, impugna una Telecaster e si presenta con mise accattivanti, minigonne vertiginose e tacchi a spillo. Sono curioso di capire se le sue qualità sono un esclusivo effetto dal fattore estetico oppure se dietro quelle mise e a quei vaporosi capelli biondi che fanno venire in mente Marilyn  c'è una cantante e musicista che vale.

 Non passa molto tempo per capire che la tesi giusta è la seconda,  Samantha Fish è oggi una delle migliori rockeuse in circolazione in terra americana, un concentrato di energia, determinazione, grinta, malizia artistica, una capace a  trascinare  il pubblico dentro le sue canzoni e a farlo vivere con l'entusiasmo di chi le interpreta, canzoni che magari non posseggono la profondità dei grandi cantautori ma sono lo specchio di una ragazza di provincia  che usa la musica per combattere luoghi comuni, intolleranza, una vita altrimenti destinata all'anonimato e alla desolazione. Una musica che è un arrembaggio sonoro fatto di rock graffiante e chitarristico, spesso venato dal blues della strada maestra e da qualche soffio di R&B, che si apre talvolta, quando la Fish impugna la chitarra acustica, a melodie country che configurano paesaggi provinciali e storie di amori perduti. Samantha Fish ha una bella voce che usa con padronanza di modulazioni, traspaiono le inflessioni del country americano ma è potente quando alza il tiro e strapazza ora la Telecaster ora la Gibson "diavoletto" immortalandosi in pose che complice il suo look, per l'occasione un top scollato, leggins e scarpe con tacco a spillo turchesi in contrasto col total black,  comunicano l'immagine di quei rocker delle backstreets che non fanno prigionieri. Ha voce, tecnica, attitudine, feeling e canzoni, ed è circondata da una band solida dove il sassofono e la tromba ( Christopher Spies, Harry Morter)sembrano in contrasto coi loro sapori R&B alle melodie della violinista (Rebecca Crenshaw), un batterista scarmigliato (Scott Graves) picchia duro, più composto è il bassista (Christopher Alexander) mentre il più anziano del lotto, il tastierista,(Phil Breen) si scioglie in disinvolte divagazioni con l' Hammond e il piano. Ma è lei  la star che non si risparmia e comunica divertimento ed emozioni necessarie per guadagnarsi un posto al sole nel rock che conta. La scaletta è costruita sui brani del recente Belle of the West  ma dal vivo questi sono rivoltati completamente, allungati e potenziati con improvvisazioni, così che  la sensazione che Samantha Fish in concerto sia altra cosa rispetto ai suoi dischi è netta e incontrovertibile. Si sta costruendo con una serie di tour interminabili la reputazione di artista live e lo si vede, il concerto è di una forza incredibile e il pubblico se ne accorge tributandole continuamente urla e applausi. Un rock e qualche blues potenti e spavaldi, graffi chitarristici laceranti che in qualche momento si attorcigliano al suono del violino, una voce che dopo l'urlo sa anche essere dolce e tenera. Passano i titoli del suo ultimo album, American Dream, Blood on the Water, Cowtown, Don't Say You Love Me, No Angels ma anche qualche brano di Chills & Fever disco registrato a Detroit con musicisti di New Orleans molto influenzato dal soul e dal R&B, e qualche ricordo di un passato più lontano come l'applauditissima e corale Bitch On The Run . La lunga Somebody's Always Trying è uno degli highlights dello show, parte R&B ma poi si innestano assoli, rallenty e ripartenze, la Fish si inginocchia davanti alla "spia" e tutto diventa un assordante rumore psichedelico. Samantha Fish non si risparmia e ci mette l'impegno e la verve di chi ancora deve arrivare alle porte dell''olimpo ma nel frattempo regala un concerto brillante e sanguigno dove non c'è un attimo di pausa. Nemmeno nelle uniche cover della serata, Crow Jane  di Skip James suonato con la cigar box e You'll Never Change di Bettye Lavette.
 

Dopo un'ora e quaranta di concerto è un tripudio, Lafayette Square è esaltata come lo è il sottoscritto, mai mi sarei aspettato uno show del genere ma  New Orleans è the big easy dove tutto è possibile. Samantha Fish non è il futuro del rock n'roll ma un luminoso presente che appaga orecchie, occhi e cuore. Non perdetevela il prossimo maggio a Milano.

MAURO  ZAMBELLINI     OTTOBRE 2018





sabato 27 ottobre 2018

GRETA VAN FLEET ANTHEM OF THE PEACEFUL ARMY




Scelgono una copertina di sapore cosmico pscichedelico, ricorda gli Hawkwind, la giovane band dei Greta Van Fleet per il loro terzo disco, in realtà i primi due erano dei mini CD. Anthem of the Peaceful Army non cambia l'impressione avuta con Black Smoke Rising e From The Fires ovvero i tre fratelli Kiszka, cantante, chitarrista e bassista ed il batterista Daniel Wagner, aspirano ad essere una copia aggiornata dei Led Zeppelin e ci mettono tutto il loro impegno e la loro buona tecnica per assomigliare agli illustri genitori. Riffoni di chitarre elettriche, impennate ritmiche, la voce in falsetto alla Robert Plant (ma che differenza), un massiccio martellamento in nome dell'hard-rock più granitico, distorsioni prese di sana pianta da Jimmy Page, qualche ballata epica come sanno fare (bene) i gruppi metal, questo è il loro menu, ribadito con una produzione più accurata anche nel terzo lavoro. Quindi nulla da dire, i vecchi del rock sorrideranno e magari ritireranno fuori dagli scaffali il secondo e terzo dei Led Zep, nel primo c'era il blues che i Greta Van Fleet non hanno, oppure In Rock e Firefall dei Deep Purple, tanto per non spendere euro inutili, mentre i giovani, e speriamo, si scalderanno per aver trovato un gruppo che suona nudo e crudo come una volta, come nei dischi del padre. Ma al di là delle diverse reazioni generazionali si tratta ora di capire se ricalcando queste tracce, ad un certo punto, una volta riconosciuta la strada, i ragazzi in partenza da Frankenmuth nel Michigan, città americana che più tedesca non si può, famosa per il  suo pollo fritto, la musica polacca e Babbo Natale, saranno in grado di proseguire da soli attraverso un orientamento esclusivamente personale, perché una strada battuta e conosciuta è sempre difficile da abbandonare. Poteva sembrare così all'inizio anche per i Black Crowes, quando venivano definiti degli imitatori di Stones e Faces ma poi i corvacci si sono ritagliati una loro via, hanno acquistato stile e scritto grandi canzoni e sono diventati una delle migliori rock n'roll band dello scorso fine secolo.

Le correnti di pensiero, intorno ai Greta Van Fleet, estroso nome preso in prestito da una vicina di casa, si orientano su due direzioni: da un lato c'è chi li etichetta come band derivativa e poco originale con quei parallelismi innegabili, e dall’altro c'è chi li osanna come i profeti della rinascita dell’hard-rock. Dalla loro parte c'è che vengono dal Michigan, una terra che ha dato molto all'hard-rock, basti pensare a MC5, a Stooges, al primo Bob Seger, a Ted Nugent tanto per fare i nomi più conosciuti, quindi sono cresciuti su un terreno fertile e le prerogative per una loro maturazione e personalizzazione  ci sono tutte. Aspettiamo e godiamoci, se possibile, questo Anthem of the Peaceful Army con tutte le sue ingenuità ma con l'indubbio entusiasmo che traspare da questi solchi e da questi ragazzi.
Non che il talento sia manchevole, e come spesso accade, a notarlo per primi, in un’intuizione dal sapore di dollari, sono produttori e major che, una volta adocchiato il soggetto, mettono in moto tutto quello che sta attorno al dispositivo per creare the next big thing. I Greta Van Fleet sono una macchina dall'ottima resa, anche perché costruita da ingegneri del calibro di Marlon Young, Al Sutton e Hershel Boone (già produttori di Kid Rock, Pop Evil, Sponge) e dalla Republic Records ovvero affiliazione Universal. Il rischio è che le accelerazioni esagerate su un motore non ancora messo a punto, soprattutto se a condurre il mezzo ci sono dei neopatentati, lo brucino. Giovani poco sopra l’età consentita per gli alcolici ma già in grado di confezionare un hard-rock di buona fattura con acuti spacca-vetri. Il quartetto composto dai tre fratelli Kiszka, di cui Joshua alla voce, il suo gemello Jacob alla chitarra e Samuel al basso, e dall’amico di scuola il batterista Daniel Wagner, dimostra in questo disco di avere sufficiente energia per zittire, almeno in parte, le malelingue. La suggestiva Age Of Man, descrivendoci meraviglie del ghiaccio e della neve, inizia morbida, cupa, fluttuante, prima di lanciarsi in una progressione epica con la voce su alti registri ed  un mellotron di altri tempi, The Cold Wind è vento freddo del Michigan e Joshua Kiszka rimane ancorato a quel provocante falsetto, orgasmico e appassionato che fu di Robert Plant. Lover Leaver (Take Believer) spicca accattivante con la sua lunatica parte centrale fatta di contrappunti tra la potente chitarra e la voce urlante, la linea di basso pompa a livelli massimi,spingendo la sezione ritmica fino all’ipnosi, mentre in un mix psichedelico e furioso il cantante dipinge l'immagine vivida di una tentatrice che ha usurpato la sua anima. Ma i Greta Van Fleet son capaci anche di affascinare con quella tenerezza che trasuda dall’incantevole ballata You’re The One, che scompensa un equilibrio ormai livellato su suoni crudi e duri, e ci mostra quel lato romantico che spesso le band metal e hard-rock, col loro approccio epico, riescono ad esprimere con intensità, tra chitarre acustiche e intrecci vocali. Così come colpisce la leggerezza della successiva The New Day, scanzonata e limpida  mentre in Mountain Of The Sun fa capolino una slide di sporco southern rock.  Brave New World è invece una composizione che strizza l'occhio  al prog e al rock sinfonico con quell' atmosfera ombrosa e cupa, quasi gotica, mentre il riff acustico e nostalgico della title track cavalca un sound alla Rainbow  e mostra tutta la spavalderia dei Greta Van Fleet una band che può fare breccia come fecero anni fa i Guns and Roses. Chi vivrà, vedrà.
MAURO ZAMBELLINI   OTTOBRE 2018