mercoledì 31 dicembre 2008

La banda dei fratelli Allman



L’avventura musicale della Allman Brothers Band si sviluppa in quattro periodi di tempo: l’inizio degli anni ‘70 contrassegnati dalla leadership del chitarrista Duane Allman, gli anni della raggiunta popolarità sotto la guida di Dickey Betts e Gregg Allman, il ritorno, dopo lo scioglimento degli anni ‘80, con Betts e Gregg Allman ancora timonieri e la recente rivoluzione dovuta all’allontanamento di Betts, con la front line di chitarre  affidata a Warren Haynes e Derek Trucks, un tandem bluesistico che ha riportato la band sulle orme di Duane Allman.

Negli anni ’70 la ABB costituisce una delle espressioni più influenti e originali del rock americano. La miscela di rock e blues che essa interpreta è un superamento dei codici impressi al genere dai musicisti del british blues (in particolare Cream e Fleetwood Mac) e di fatto costituisce una vera e propria rivoluzione in campo musicale. Se di fatto la base da cui partono gli Allman è la stessa di quella dei musicisti inglesi ovvero il classico blues americano di Willie Dixon, Muddy Waters e Sonny Boy Williamson, il loro atteggiamento è molto più progressivo perché incamera gli esperimenti jazzistici di Miles Davis e John Coltrane ed espande il linguaggio blues con una strategia basata sull’improvvisazione e su una dinamica doppia sezione ritmica costituita da due batterie ed un basso. Davanti alla sezione ritmica operano due chitarre quasi complementari, le Gibson di Duane Allman e di Dickey Betts che incrociano coi loro assoli blues, rock psichedelico e country-rock in quello che verrà sbrigativamente definito southern rock. 
Duane Allman è l’anima blues della band,  non usa il plettro ma il pollice e due dita della mano destra e suona la slide usando una boccetta  vuota di aspirina Corycidine, che grazie  a lui farà epoca tra i chitarristi. Il suo stile ispirato al blues si vena di influenze diverse (viene soprannominato skydog per il suono stellare della sua Gibson) e si contrappone in modo creativo a quello di Dickey Betts il cui fraseggio estrapolato dal blues e dal rock n’roll ma anche dal country definisce perfettamente l’archetipo dell’assolo southern rock. Voce della band è Gregg Allman, il soulman della ABB, il cui organo Hammond e le cui tonalità vocali colorano di soul e gospel l’incendiaria miscela blues-rock del gruppo. Duane Allman, Gregg Allman, Dickey Betts, i batteristi Jaimoe e Butch Trucks e il bassista Berry Oakley sono le pedine di questa straordinaria blues-band dalle venature psichedeliche e jazzistiche che raggiunge la sua massima espressione  nel doppio album Live At Fillmore East , uno degli album dal vivo essenziali di tutta la storia del rock. 



Un disco che concentra idee e perfezione stilistica,  energia e  improvvisazione, un disco capace di emanare un feeling impressionante che afferma la rivincita delle blues band americane rispetto a quelle inglesi del british blues. 
La band aveva debuttato discograficamente due anni prima con l’omonimo The Allman Brothers Band,  a cui era seguito Idlewild South, quello che contiene l’originale versione di Midnight Rider, la ballata più amata da  Gregg Allman e  specchio del suo stile deep soul ma è con Fillmore East che la ABB si impone all’attenzione generale del mondo rock. 
Una recente pubblicazione intitolata Live At Atlanta International Pop Festival  costituisce un’altra grande testimonianza live di quel periodo. Registrato nel 1970 poco prima del Fillmore East, comprende la performance di Dreams, un brano etereo e notturno dalle implicazioni psichedeliche molto amato dai fans della band.
Irrinunciabile, per completare il periodo con la leadership di Duane Allman, è il doppio Eat A Peach del 1972, altro capolavoro che assembla materiale lasciato fuori dal Fillmore East, incisioni in studio con Duane e la prima versione di Mountain Jam (nell’originario vinile del Fillmore East non c’era), 35 minuti di psichedelia e improvvisazioni allo stato puro basate sul tema di There Is A Mountain di Donovan. Ma la cosa più bella di Eat A Peach è la presenza di tre tra le migliori ballate del catalogo Allman : la delicata Little Martha suonata con le chitarre acustiche da Duane e Betts, la dolce Melissa e la romantica e “panoramica “Blue Sky, che già nel titolo coglie quell’amore tutto sudista per gli spazi aperti a perdita d’occhio , per il cielo, per la natura, per la vita comunitaria nella natura, per le strade che si perdono all’orizzonte, un ode agli anni settanta e alle grandi utopie di quegli anni. Un disco apprezzato da Jimmy Carter nel suo periodo presidenziale.

Brothers and Sisters
Il 21 ottobre  1971,  a Macon in Georgia, Duane Allman muore sbattendo con la sua Harley Sportser contro un camion che gli aveva tagliato la strada. Poco prima aveva inciso il celebre assolo di chitarra di Layla, per diverso tempo attribuito a Clapton. Un anno dopo in simili circostanze muore anche il bassista Berry Oakley, il più affezionato a Duane tra i membri della band. La tragedia incombe con tutto il suo carico sinistro, sembra una novella di Flannery O’Connor ma è la maledizione che incombe sul southern rock (leggasi le biografie di Lynyrd Skynyrd e Marshall Tucker Band). 
La Allman Bros. Band  prosegue  col fratello Gregg e con il chitarrista Dickey Betts che  sposta il baricentro musicale  verso un fluido country-blues-rock dal fraseggio jazzistico, uno stile che diventa il marchio di fabbrica del southern rock della ABB. Con l’inserimento del versatile tastierista Chuck Leavell (oggi con gli Stones) e del bassista Lamar Williams per la band si apre un nuovo capitolo, meno segnato dal blues ma ugualmente brillante.
L’album del 1973 Brothers and Sisters suona più rurale e country dei precedenti ma raccoglie il seguito che la band si era conquistato sul campo. Raggiunge immediatamente il primo posto delle vendite di Billboard e ci rimane per sei settimane consecutive. E’ l’apoteosi del gruppo di Macon ed è un altro fondamentale capitolo della loro avventura. Il nuovo corso è sintetizzato dallo strumentale Jessica e da Ramblin’ Man , brani di Dickey Betts in cui lineari geometrie alla Django Reinhardt si sposano con gli umori dell’ honky tonk e con entusiasmanti cavalcate di Gibson Les Paul.

 

C’è anche l’apporto del chitarrista aggiunto Les Dudek ed il sound è arioso, frizzante e sognante, in perfetta sintonia con lo stile di vita degli hippies del sud, tutto funghi e cieli blu. 
Il seguente Win, Lose and Draw  insiste sullo stesso modello ma è una copia sbiadita di Brothers and Sisters nonostante ci sia una grande rivisitazione di un pezzo di Muddy Waters (Can’t Lose What You Never Had ) e la lunga High Falls costituisca uno degli strumentali migliori di Betts.
Wipe The Windows, Check The Oil, Dollar Gas ovvero pulisci i finestrini, controlla l’olio e fai benzina mette a nudo la filosofia on the road del gruppo ma in consolle non ci sono né Tom Dowd né Johnny Sandlin i produttori che avevano firmato i loro dischi migliori e allora questo doppio album dal vivo scompare se confrontato con quelli dell’era Duane.
Fermo restando che Live at Fillmore East  e Brothers and Sisters sono album imprescindibili nella storia della Allman Brothers Band, esiste una splendida antologia che sintetizza la storia della band fino a Win, Lose and Draw. Trattasi di The Road Goes On Forever, originariamente un doppio album che raccoglieva brani fino a Brothers and Sisters ma che la ristampa in doppio cd ha arricchito di tracce live e di altro materiale del periodo.
Il clima famigliare e lo spirito comunitario che avevano  caratterizzato la loro comune-hippie subisce un duro colpo per sporche storie di droga e delazione. Gregg Allman vittima di tanti anni di tossicodipendenza testimonia contro il roadie Scooter Herring per un traffico di droga, la crisi è inevitabile ed ognuno va per la propria strada. A poco serve la reunion del 1978, titoli come Enlightened Rogues, Reach Of The  Sky  e Brothers Of The Road sono la pallida copia dell’ antico splendore, lo scioglimento del 1982 più che lacrime porta un sospiro di liberazione.

Back Where It All Begins
Ma un nuovo interessante capitolo si apre negli anni ’90 quando agli originali Gregg Allman, Dickey Betts, Jaimoe e Butch Trucks si aggregano il chitarrista Warren Haynes, il bassista Allen Woody e il tastierista Johnny Neel. La ABB prima si imbarca in un tour che fa il tutto esaurito poi con l’aiuto del fido Tom Dowd alla consolle registra ai Criteria Studios di Miami il potente Seven Turns,  un album bluesato che si avvale dell’apporto fondamentale di Haynes e di Woody, un bassista cresciuto nel mito di Berry Oakley.
I sintomi sono quelli di un ritorno prepotente al rock-blues dell’era Duane ma l’evoluzione sarà graduale perché tra Seven Turns  e Hittin’ The Road, un disco che cerca di ristabilire una connotazione prettamente blues, ci sono di mezzo tredici anni e un bel po’ di dischi. Un periodo che ha visto crescere a dismisura il peso di Warren Haynes, una vera potenza in campo chitarristico (e vocale) che con la sua slide ha marchiato di blues uno stile che con Dicley Betts aveva altre sfumature. Anche Gregg Allman è sembrato rinascere dopo anni di dipendenza da droghe e alcol, la sua voce è ritornata pulita e franca ed un nuovo entusiasmo lo ha investito dopo la rottura con Dickey Betts, grande musicista ma ormai assorto da progetti individuali e non più in sintonia con il resto della band. 

Dopo i Seven Turns  escono Shades Of The Two Worlds (1991) e Where It All Begins ( 1994), due buoni lavori che insistono su una fusione di rock, blues e jazz ma se il sound non si discute sono le composizioni che non sono sempre all’altezza della loro fama. Manca quel quid che aveva fatto grandi i dischi del passato. Il livello è buono ma gli anni sembrano pesare nonostante brani apprezzabili come End Of The Line, un brano in cui Gregg si erge in tutta la sua grandezza e Kind Of Bird,  improvvisazione jam di alta scuola. 

Interessanti sono comunque An Evening With ABB e 2nd Set  due live in cui la band passa in rassegna materiale vecchio e nuovo e dimostra l’attitudine jam blues che gli è propria. Di sicuro non c’è  la straripante energia di una volta ma la musica scorre fluida, la ritmica è possente, rinvigorita dall’aggiunta del percussionista Marc Quinones  e alcune cose come la versione unplugged di In Memory Of The Elizabeth Reed e la riproposizione del classico di Willie Cobbs You Don’t Love Me depongono per una band che ha solo bisogno di una sferzata di vitalità.
Il punto più basso della nuova vita della ABB è Peakin’ At The Beacon, un molle live del 2000 che sancisce lo stato di crisi e i cambiamenti prossimi a venire. Nella primavera di quell’anno Dickey Betts viene allontanato per incomprensioni e scorrettezze con gli altri a causa del suo continuo delirio alcolico e Gregg trova naturale suonare con Warren Haynes, meno invadente ed egocentrico di Betts. Con Haynes e la grande promessa di Derek Trucks, un chitarrista a 360 gradi che darà il meglio di sé nel suo album Songlines. e Otel Burbridge  che riempie il posto lasciato vuoto dal bassista Allen Woody, la nuova line up a sette affronta le registrazioni a Hoboken di Hittin’ The Note, un disco solido come una roccia, ricco di buone composizioni  che tuona potente come da tempo non succedeva. Un disco all’insegna del blues con l’eco dei Gov’t Mule, la creazione personale di Haynes, Gregg  e con quell’inimitabile voce soul con cui Gregg Allman rende meravigliose le ballate che canta. La sezione ritmica è una tempesta perfetta, la musica è complessa e fluida al tempo stesso e le canzoni, dalla splendida Desdemona a High Cost Of  Low Living, dallo strumentale alla Gov’t Mule di Instrumental Illness al country-blues acustico di Old Friend fino alle esaltanti cover di Woman Across The River  e Heart Of Stone (Rolling Stones) sono di prima scelta. Ma gli Allman di Hittin’The Note non sono quelli dell’era Duane Allman nonostante il blues e nemmeno quelli pastorali e southern rock con Dickey Betts. C’è qualcosa che manca nella loro alchimia, sono di nuovo una delle migliori rock-blues band che io conosca ma il Live At Beacon Theatre ,annuale appuntamento a New York per una settimana di concerti tutti esauriti che ormai li vede protagonisti da parecchi anni. e i tanti Instant Records che li celebrano in ogni parte d’America come un fenomeno paragonabile solo ai Grateful Dead non riescono a ricostruire quell’incommensurabile grandezza e genialità che fu degli Allman anni settanta. Ciò non esclude che se finalmente venissero in Italia o anche solo in Europa (dopo tanti anni di assenza) noi saremmo gli uomini più felici di questa terra. 

Mauro Zambellini 

mercoledì 24 dicembre 2008

Crocodile Rock


“L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore quel venerdi di marzo che ho già citato prima avevamo cenato ad un ristorante di pesce sulla Jupiter Inlet. Non ricordo nulla della cena o della conversazione, che significa che la serata era andata benone. Poi abbiamo preso la supesratrada fino al mio appartamento, dove accadde l’imprevisto: sullo stereo, quando lo accesi, c’era Exile On Main Street. Questo provocò un lamento di disapprovazione da parte di Karen, che si trovava già in reggiseno e mutandine. Ne seguì una poco adatta discussione sulle reciproche preferenze musicali, che terminò con la mia ingrugnita capitolazione. I Rolling Stones furono sostituiti da Natalie Marchant, che è splendida a meno che non siate in vena di ascoltare Ventilator Blues, che era esattamente quello che desideravo io.
Non c’è bisogno di aggiungere che il sesso non fu esattamente sublime, per entrambi. Ho un nitido ricordo di Karen sopra che si dimenava piuttosto svogliatamente al tempo di una melodica ballata, mentre io fremevo sotto di lei, bramoso di percussioni incalzanti. Il suo orgasmo simulato era così poco convincente che scambiai il blando brivido che la percorse per una reazione gastrica ritardata alla frittura di cozze, che era stata condita con generosità criminale. Era un segno scoraggiante della fine della nostra storia e mi fece dimenticare per qualche tempo i piaceri della carne.”

Crocodile Rock non ha niente a che vedere con Elton John ma è il più esilarante noir che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. Ci sono una valanga di riferimenti musicali e si racconta di che fine abbia veramente fatto Jimmy Stoma, leader del gruppo rock degli Slut Puppies scomparso alle Bahamas durante un immersione subacquea. In un groviglio di personaggi tra cui spicca il grande amore di Stoma, la cantante Cleo, una sorta di Courtney Love dalla gola profonda, Jack, giornalista dell’Union Register specializzato in necrologi dopo essere stato un cronista d’assalto della Florida, indaga con il disincanto di un Grande Lebowski del giornalismo. Il divertimento è assicurato e così anche la colonna sonora. Lo scrive Carl Hiaasen grande amico ed estimatore degli Stones già autore di un fosco ed irriverente noir ambientato nel giro delle pesche sportive della Florida. Siamo in presenza di uno che ha fantasia da vendere anche se la sua scrittura non è lirica e profonda come quella del vicino James Lee Burke. Ma se volete sapere come scompare una rockstar leggetevi questa irresistibile commedia nera.

Crocodile Rock è edito dalla Meridiano Zero.

Mauro Zambellini 

mercoledì 26 novembre 2008

The Gabe Dixon Band


Ecco un piccolo grande disco passato inosservato in questo autunno pieno di novità discografiche. Non è il tiro delle chitarre o la verve rocknrollistica a conquistare in questo disco ma l’intrigante appeal melodico che scaturisce dalla maggior parte delle canzoni. Fautore di una attitudine melodica così spiccata e brillante è il cantante  Gabe Dixon la cui abilità al piano e alle tastiere gli ha valso una attiva collaborazione con Paul McCartney. Forte di una personalità e sensibilità artistica  non comuni, Gabe Dixon è in grado di caratterizzare in maniera unica  un trio la cui musica vivace e ispirata riporta alla mente episodi illustri del songwriting anni ’70 come il Jackson Browne di For Everyman , l’Elton John di Tumbleweed Connection, la Carole King di Tapestry e Joni Mitchell oltre a fornire scampoli di soul  nello stile Stevie Wonder.
Lontano dai gesti rudi dei gruppi di americana e dal rock chitarroso di tante giovani band americane, Gabe Dixon ha scelto di percorrere una via meno spettacolare e diretta affidandosi alle melodie, alle ballate, alla voce armoniosa, al piano e ad alcuni arrangiamenti che non tradiscono la sua educazione classica e la sua curiosità verso il jazz. Con questi strumenti e con l’aiuto del valido bassista Winston Harrison e del batterista Jano Rix, Gabe Dixon  arriva al cuore con la dolcezza e con una musica ben congeniata mai noiosa ma ricca di  aperture luminose. 
Gabe Dixon è un musicista di talento, tecnicamente dotato e con un buon songwriting, qualità che riversa in canzoni ricche di dettagli e di potenti metafore,  storie romantiche e spirituali che parlano di viaggi e di stati mentali come fossero punti di una mappa esistenziale. Dall’ispirata Disappear, alla splendida Further The Sky, cantata con Mindy Smith fino a Find My Way,  un r&b ritmato  e  nervoso e  a Far From Home ovvero Steve Wonder meets Ben Folds, il disco emana una  atmosfera positiva e un aria ottimista anche se sono le ballate non rinunciano ad andare sottopelle e scavare nelle emozioni nascoste. Sono queste il traino della musica della Gabe Dixon Bande non potrebbe essere diversamente visto che le chitarre stanno a guardare un pianoforte che la fa da padrone.
La bella foto di copertina di suggestione southern è di Henry Diltz i cui scatti hanno reso celebri  Neil Young, i Doors e Crosby, Stills & Nash ovvero alcuni degli eroi del nostro.  Che sia di augurio?

MAURO ZAMBELLINI          SETTEMBRE 2008

giovedì 20 novembre 2008

Paul Weller Live at the BBC


Uno strepitoso box formato libro con quattro cd racconta la storia delle registrazioni per la BBC di Paul Weller. Come nella migliore tradizione dei grandi artisti inglesi anche per Paul Weller è arrivato il momento degli archivi della BBC e mai come questa volta l’operazione appare superba, ricca, magnifica, varia: quattro CD con tanto di booklet e splendide fotografie raccontano la storia delle registrazioni di Paul Weller per la famosa emittente inglese  dal 1990 al 2008 attraverso 74 tracce, alcune acustiche in solitario con la chitarra e col piano, qualcuna unplugged con la band generalmente effettuata live in studio , tante in elettrico con la band al completo ricavate da concerti  registrati dalla BBC al Town and Country Club, a  Finsbury Park, alla Royal Albert Hall e  al Phoenix Festival. C’è tutto Weller in questi quattro CD, brani che ricordano il duro e tagliente punk-mod act dei Jam e brani risalenti al Cappuccino Kid degli Style Council,  ballate pastorali ispirate dai Traffic come Wild Wood  ed il brillante brit-pop-rock del vendutissimo Stanley Road, autentiche frecce spezzacuori come Broken Stones  e gemme di soul puro risalenti all’album Studio 150 , un crudo rock chitarristico da club londinese ed il trasognato e contorto crossover di funky, jazz e avanguardia esplorato nel recentissimo 22 Dreams. L’artista Paul Weller è sezionato  in tutti i suoi aspetti con registrazioni che mantengono la spontaneità e l’immediatezza delle sessions e delle prove uniche,  atti non ripetibili proprio perché la seduta radiofonica non concede ripetizioni anche se regala la possibilità di fare qualcosa che  non apparirà mai in un disco o nella programmazione di un tour. Ecco quindi rarità come la cover di The Poacher di Ronnie Lane, la versione acustica di Clues (era sul suo omonimo primo disco solista del 1992) e la rilettura di un minor hit dei sixties quale Pretty Flamingo dei Manfred Mann.
Paul Weller si conferma artista  flessibile, poliedrico, ricco di sfaccettature, bravo come autore, cantante e musicista, capace di tenere la prova acustica con sola voce e chitarra, spesso una trappola per artisti non troppo dotati e nello stesso tempo sfoderare una carica elettrica da vero rocker quando con la band infila una serie di pezzi che dalle terre inglesi battute dai Kinks, Who e Beatles arrivano ai lidi americani del soul, di Curtis Mayfield, di Dylan, di Dr.John di cui viene ripresa in strepitosa chiave psichedelica di Walk On Gilded Splinters. 
Live At BBC appare come la migliore retrospettiva in presa diretta di Weller  ed uno dei box  rivelazione dell’anno, con belle versioni acustiche di Fly On The Wall, Pink On White Halls , Among Butterflies, una Wild Wood semplicemente strepitosa e spigolose versioni di Whirlpool’s End, Out Of The Sinking, Broken Stones, The Changimen, Mermaids dove affiora l’inossidabile urgenza mod del personaggio. Molte anche le ballate tra cui una Time Passes da lacrime agli occhi con quel giro di chitarre che è una poesia. 
Contemporaneamente all’uscita del cofanetto quadruplo viene pubblicato anche il DVD con lo stesso titolo Live At BBC che comprende le esibizioni di Paul Weller tratte dalle trasmissioni televisive Later With Jools Holland, BBC In Concert e Top Of The Pops più vari video clip promozionali. 
Chi non avesse paura del british rock qui può trovare pane per i suoi denti. 

MAURO  ZAMBELLINI


martedì 18 novembre 2008

Fleet Foxes in concerto


MILANO (MAGAZZINI GENERALI ) SABATO 15 NOVEMBRE

Non so perché mi piacciono visto che la mia formazione rock è più rootsy e più esposta verso quel mondo di strade blue che incrociano gli Stones con Springsteen e Dylan ma i Fleet Foxes visti nel precario spazio dei Magazzini Generali hanno risvegliato in me l’amore verso quel folk underground che negli anni ’60 accompagnava certe esperienze eclettiche e fuori pista. 
Già per come si abbigliano e per come portano i capelli, Robin Pecknold e soci sembrano usciti da una cantina o da un club di San Francisco del 1967 ed anche il loro approccio verso lo show e verso il pubblico trasmette quella informale spontaneità che caratterizzava la prima stagione del rock quando le esibizioni non erano così impacchettate ed ingessate come quelle di oggi. 
I cinque ragazzi di Seattle soffiano l’aria fresca della north-west coast americana proponendo una musica che è rock negli strumenti e folk nelle liriche e nelle voci. Il concerto dimostra quanto siano fuori corrente anche se lontanamente imparentati con il freak folk: una selezione di brani, in pratica il loro album omonimo al completo, basati su una armonia vocale sorprendente, spesso ardua nei toni alti alquanto vertiginosi e su  una intelaiatura strumentale tra l’acustico e l’elettrico dove la fanno da padrone il suono delle chitarre, l’accompagnamento di una tastiera o di un mandolino. 
Il loro è uno strano folk/rock di natura  underground che non nasce nella tradizione di Dylan e simili, piuttosto rimanda al folk inglese dei Fotheringay e dei Renaissance e ad un coraggioso quanto mai improbabile connubio di  Beach Boys e canto gregoriano. C’è un che di liturgico nell’unisono delle voce dei Fleet Foxes, un’atmosfera che ammalia e affascina e coinvolge emotivamente al di là delle incertezze strumentali che ancora rigano il loro set e a qualche comprensibile caduta vocale del loro cantante leader, scivolato su un paio di vette davvero ardite. Dal vivo appaiono meno immacolati che su disco, tengono  la scena con la leggerezza e l’incoscienza degli esordienti, spargono spontaneità e benessere con canzoni dall’aria candida e con armonie vocali che sembrano uscite da una chiesa gaelica. Fanno funzionare bene i titoli più conosciuti come Sun It Rises, Ragged Wood, Quiet Houses, la sontuosa ed epica Your Protector strimpellano le chitarre con caustica convinzione come fossero una trasposizione di qualche gruppo underground  dei sixties senza però lasciarsi trasportare dai watt e dagli assoli,  scherzano col pubblico, numeroso e soddisfatto, come si trattasse di una esibizione tra amici e si perdono nei paradisi artificiali delle loro armonie con fare trasognato. 
Sono completamente originali, freschi e luminosi e che siano bravi anche nel songwriting lo si vede quando il frontman Pecknold si cimenta da solo con la chitarra acustica evocando gesti di una lontano poetico ed innocente Greenwich Village. Che sia una nuova primavera del folk ?
 
Mauro Zambellini

venerdì 14 novembre 2008

Il tempo è dalla nostra parte


45 anni con i Rolling Stones, a cura di Mauro Zambellini 

Chi l’ha detto che i Beatles sono stati i migliori ? Dalle cifre sembrerebbe di no. A differenza degli illustri Fab Four, i Rolling Stones sono ancora in scena oggi, vivi e pimpanti più che mai, dopo quarantacinque anni di musica, concerti, dischi, tour, film, video, droga, alcol, donne, morti, dollari e tutto quanto fa spettacolo. Dopo 60 album ed una valanga di dischi singoli, Ep, box antologici e raccolte, i Rolling Stones fanno ancora parlare di sé e sono ancora il simbolo di quell’ eccitante  rock n’roll nato dal blues e dalla insoddisfazione giovanile, basta vedere le immagini dello splendido film di Martin Scorsese , Shine A Light,  che li ha ripresi dal vivo durante un concerto dell’ultima tournè al Beacon Theatre di New York. Come hanno fatto a resistere così a lungo? Semplice, primo hanno venduto l’anima al diavolo, la ricordate Sympathy For The Devil ?, secondo non hanno mai venduto il loro cuore, che è sempre stato innamorato del blues dei grandi vecchi (Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Elmore James, Jimmy Reed) e dello sprizzante rock n’roll degli anni cinquanta, in particolar modo quello di Chuck Berry. In 45 anni di storia sono rimasti fedeli ai loro primi amori (musicali) e proprio per questo hanno resistito al tempo, al cambio delle mode, degli scenari e delle generazioni, forgiando un rock tinto di soul e di blues tanto imitato quanto ineguagliato, uno stile che è diventato il classico dei classici.
Il Tempo è dalla Nostra Parte, un testo di 120 pagine con annessa discografia completa e videografia essenziale, scritto da Mauro Zambellini racconta la storia dei Rolling Stones non dalla parte dei pettegolezzi e degli eccessi ma dalla parte della musica e dei dischi tracciando un vero e proprio viaggio che inizia con le radici dei musicisti e finisce con il loro film con Scorsese. L’ultimo capitolo del libro, opera della penna di Marco Denti, ricompone il rapporto tra gli Stones ed il cinema ma prima di arrivare a Shine A Light  il libro racconta la lunga avventura musicale della band inglese attraverso Stonesville ed In Esilio sulla Costa Azzurra  dove viene analizzato il loro periodo più creativo e decadente, quello che porterà alla genesi di un album così importante, per loro e fondamentale, per il rock n’roll, come  Exile On Main Street.
Avvincente, scorrevole, ricco di informazioni e scritto senza le deformazioni del fan tout court ma col ritmo delle canzoni degli Stones,  Il Tempo è dalla Nostra Parte, che esce annesso al DVD Shine A Light per la collana Real Cinema della Feltrinelli, è un viaggio in 45 anni di luci e ombre ed un sincero atto d’amore verso la più grande rock n’roll band della storia.. 

giovedì 16 ottobre 2008

Graziano Romani > Between Trains


Chi conosce il lavoro di Graziano Romani sa quanto il rocker emiliano sia stato influenzato dalle canzoni di altri artisti e altri autori. Non lo ha mai nascosto, Romani non è uno di quei musicisti che si reputano unici ed originali o peggio ancora fingono di ignorare che prima di loro ci sono stati altri e più bravi da cui loro hanno preso ed ereditato qualcosa. 

Romani, in questo, è un artista molto americano e poco italiano, non è spocchioso e non ha mai nascosto che la sua musica e le sue canzoni "discendano" da qualcos' altro, mai negando le influenze subite, sia quelle più esplicite come quella di Springsteen, sia quelle più nascoste che solo un attento conoscitore della musica rock e soul come lui è in grado di citare. Dice l'autore sulla copertina di Between Trains "ho sempre amato le cover, interpretare il lavoro di altri aggiungendo il mio personale punto di vista e i miei sentimenti. Ho sempre cercato di imparare le canzoni dei cantautori che ammiravo e di tutti quei grandi artisti che mi hanno influenzato. Quando ancora suonavo coi Rocking Chairs e non pensavo di scrivere canzoni mie, mi piaceva fare le cover dal vivo e qualcuna di queste l'ho messa nel miei dischi. Questo album significa molto per me."
La ragione è che Between Trains raccoglie tredici canzoni che hanno dato l'ispirazione e l'anima alla musica di Graziano ed in generale gli hanno offerto la possibilità di raccontare, ognuna, una storia. Non sono canzoni minori ma solo rare e appannaggio di un fine conoscitore musicale come lui, alcune sono note, altre no, qualcuno è stato un hit e qualcun altro è semplicemente un piccolo poema in musica, tutte concorrono però a creare l'universo dentro cui Romani si è mosso in questi anni attraversando con la sua musica, i suoi dischi, le sue canzoni e le sue cover il rock, il soul, il blues, il folk e la canzone d'autore in generale. Che un artista italiano riesca con gusto, sentimento, giusta umiltà ed una intensa interpretazione vocale a "coprire" canzoni di Robbie Robertson, Joni Mitchell, Bob Dylan, Jimmy Webb, Peter Gabriel, Van Morrison, Warren Zevon, Richard Thompson è un successo che premia sia la sua bravura sia la tenacia di chi crede che queste non siano solo canzonette ma il tratto profondo di una cultura che da noi è ignorata se non addirittura bistrattata.
Come si può non rimanere allibiti davanti ad un artista che nel mare della idiozia e della superficialità culturale nazionale, sceglie di intitolare un disco con una canzone assolutamente fuori quota come Between Trains di Robbie Robertson, contenuta nel film Re per una Notte di Martin Scorsese la cui colonna sonora non è certo stata un successo di vendite, per di più pubblicata solo in vinile. Bisogna essere dei topi da negozi di dischi, certosini ricercatori di cose "innominabili"oltre che sognatori di un mondo parallelo dove la bellezza è una struggente ballad tra rock e soul cantata col cuore in mano. Ma le meraviglie non finiscono con la canzone di Robertson perché ci vuole un temperamento da incallito appassionato di oscuri songwriters per spingersi a riproporre The Living End, una dolorosa canzone (tanto per cambiare tratta da un lost third album) di una artista misconosciuta e controversa (si esaurì con l'eroina dopo un paio di dischi ed una conversione al folk cristiano) come Judee Sill oppure andare a rovistare in soffitta e ridare aria a Sound Of Free, una canzone di Dennis Wilson apparsa in un 45 giri del 1969. O dare voce ai dimenticati Strawbs con una Grace Darling estratta dal loro Ghosts del 1975 in cui si racconta di questa eroina settecentesca inglese, figlia di un guardiano del faro che salvò un intero equipaggio dal naufragio.
Sebbene siano note le sue connessioni col rock americano, Graziano Romani non ha mai negato che quando una canzone ha anima ed una storia da raccontare non importa la sua origine. Così dal patrimonio dal reggae arriva una tribolata Strugglin' Man di Jimmy Cliff trasformata a ballata e ancora in campo inglese l'amato Van Morrison viene omaggiato con una intensa e personale versione di Brand New Day (da Moondance) dove si apprezza l'arrangiamento di violino di Giulia Nuti e Peter Gabriel, altra vecchia passione di Romani, è riesumato attraverso White Shadow, titolo estratto dal suo lontano secondo disco solista.
Poi c'è Richard Thompson di cui è offerta una versione coi fiocchi (tra le cose migliori dell'intero Between Trains) di Genesis Hall dal repertorio dei Fairport Convention, impreziosita dalle chitarre di Tede Tedeschini e dal piano di Chris Gianfranceschi.
Decisamente innovative sono le rielaborazioni di Last Chance Lost di Joni Mitchell, nell'originale un brano dipinto a tinte jazz che qui si trasforma in un esperimento ai confini del folk con il misurato lavoro delle chitarre acustiche (Romani e Giacomo Baldelli), della viola di Giulia Nuti, del contrabbasso di Massimo Ghiacci e delle percussioni di Gigi Cavalli Cocchi. Non poteva mancare Springsteen presente con la "negroide" Real World e Dylan, la cui già meravigliosa Don't Fall Apart On Me Tonight qui brilla come uno degli highlights del disco con Graziano che dà fondo a tutto il suo cuore di vocalist arrochito e passionale e la band (i fidi Max Ori e Pat Bonan alla sezione ritmica), Gianfranceschi all'organo e Cristiano Marmotti alla chitarra, che suona alla grande creando un commovente pathos da rock ballad. Altre perle del disco sono l'intima e riflessiva interpretazione di Mutineer di Warren Zevon dove Erik Montanari si fa notare con la chitarra e una struggente Wichita Lineman di Jimmy Webb, autore molto stimato da Romani, il cui tema viene immalinconito ancora di più dalla voce scura e bluesata di Romani mentre un bell'inciso del chitarrista Max Cottafavi aggiunge una componente di rock disperato e romantico estraneo alla versione di Webb.
Prodotto dallo stesso Romani, Between Trains si avvale della partecipazione di un nutrito stuolo di amici e musicisti che offrono solidità al generale umore soul-folk-rock del disco e contribuiscono ad arrangiamenti asciutti ed essenziali, in linea con la visione personale che l'artista ha voluto dare a queste canzoni, tredici perle grandi e piccole che sono il cuore e l'anima di una avventura musicale che merita rispetto e attenzione anche se nata dalle nostre parti.
Uno dei dischi migliori della sua carriera.

Mauro Zambellini
Buscadero - settembre 2008

mercoledì 8 ottobre 2008

Lou Reed > Live At St.Ann's Wharehouse


(Matador)


Dopo il criptico tentativo di mettere in musica Edgar Allan Poe con The Raven, il cantore di New York torna ad una delle sue opere più difficili, contraddittorie ed osteggiate, quel Berlin che nel 1973, anno della sua pubblicazione, fece scrivere a Rolling Stone: un album palesemente offensivo, la fine della carriera di Lou Reed.

La storia  non è andata come prevedeva l’illustre rivista americana, Lou Reed si è conquistato a pieno merito un posto di primo piano nella storia del rock e a trentacinque anni dalla sua pubblicazione Berlin è considerato uno dei capolavori della sua discografia. Un opera non facile, ieri e oggi, che descrive  la disperata  e devastante storia di un violento junkie (Jim) e della sua fidanzata prostituta (Caroline), due americani che vivono in una Berlino sfigurata dalla guerra, dall’iniziale stato di euforia dovuto all’uso delle anfetamine fino all’inevitabile caduta in una spirale di dipendenza, violenza, schizofrenia  e degrado che porta Caroline a suicidarsi dopo che le autorità le hanno tolto l’affidamento dei figli. Opera cupa e malata, ambientata in una plumbea atmosfera mittleuropea, orchestrata come se si trattasse di una specie di cabaret tedesco, con un massiccio uso del piano (Bob Ezrin, collaboratore di Lou Reed), con partiture di viola e violoncello e impregnato delle sonorità metalliche delle chitarre di Steve Hunter e Dick Wagner, Berlin  è una coraggiosa rappresentazione del clima di decadenza estetica e morale che pervase un certo ambiente rock degli anni ’70, storie, come ha suggerito lo stesso autore, di gente che esisteva negli anni settanta non solo a Berlino ma dovunque. Una storia  violenta e angosciante che Lou Reed con l’aiuto di Bob Ezrin  tradusse in musica e come un freddo narratore raccontò momenti agghiaccianti come The Kids, scosso dallo straziante pianto dei bambini che vengono tolti alla madre e come l’epilogo di The Bed Sad Song  dove Caroline si uccide tagliandosi le vene e Jim vaga stranito nella casa come un relitto, prigioniero del ricordo di lei ed incapace di comprendere quanto sia successo.

Più volte nel corso degli anni è stato proposto a Lou Reed di eseguire dal vivo l’intero Berlin, cosa che non aveva mai fatto e finalmente e dopo innumerevoli tentativi, grazie alle pressioni del direttore del piccolo St.Ann’s Warehouse di New York, il progetto è andato in porto e nel dicembre del 2006 per quattro serate Berlin è stato suonato davanti al pubblico. Da lì è nato anche un mini tour che ha riscosso riconoscimenti e consensi in giro per il mondo. 

I concerti del St.Ann’s Warehouse sono stati filmati dal regista Julian Schnabel (Basquiat), amico di Reed e grande estimatore di Berlin, e la storica performance sarà disponibile in un Dvd in uscita contemporanea con il disco live.

Prodotto da Bob Ezrin con Hal Willner e musicato da alcuni degli stretti collaboratori di Lou Reed (Fernando Saunders, Antony, Steve HunterRob Wassermann, Rupert Christie e Sharon Jones) Berlin Live  subisce una importante rilettura in termini di intensità sonora ed arrangiamenti orchestrali che ne mantiene inalterata l’originalità e non stravolge lo spirito del tempo. Pur arricchitoo da una orchestra di sette elementi e dal Brooklyn Youth Chorus, il nuovo Berlin  non è opera tronfia e ridondante nonostante la teatralità del tema e l’atmosfera  scabrosamente melodrammatica dell’opera prima ma al contrario il cantato di Lou Reed e l’essenziale efficacia dei musicisti mantengono  l’enfasi dentro delle solide coordinate di rock metropolitano.  Berlin Live  è una sinfonia elettrica nei torbidi anfratti dell’animo umano che tocca il suo apice nell’esecuzione lancinante di Sad Song, nelle fustigate chitarristiche di Lady Day (sia lodato Steve Hunter) nel rumore al calor bianco di Men of Good Fortune, nell’assordante impasto chitarre/fiati di  How Do You Think It Feels, nelle chitarre nervose e schizoidi di Oh Jim dove Lou Reed canta come fosse ancora in Take No Prisoners.

Uniche eccezioni all’intento concept dell’opera l’aggiunta di tre encore: la velvettiana Candy Says, una gelida e perfetta Rock Minute ed una Sweet Jane abbastanza trascurabile.


MAURO  ZAMBELLINI      SETTEMBRE 2008


JJ Grey & Mofro > Orange Blossoms



(Alligator Records)



Segnalatisi l’anno scorso con Country Ghetto JJ Grey & Mofro rincarano la dose con un disco di scoppiettante freschezza dove le loro radici sudiste si fondono in un soul venato di gospel e funky ed in un blues che sa di paludi e acquitrini. Basta far partire il cd e
Orange Blossoms ci catapulta in quel sud dove il tempo scorre lento e il dolce far niente fa molti meno danni di Wall Street. Che JJ Grey sia del sud, precisamente 40 miglia fuori Jacksonville, Florida, lo si percepisce subito, nel modo in cui il suo storytelling vagabondo, brioso e a ruota libera, che ama comunque fornire una descrizione appassionata e devota dei suoi luoghi natali e di vita, si mischia con gli umori caldi di una musica che ora è un blues delle paludi, ora un soul carico di gospel, ora un groove che fa ballare scatenando sax e trombe, ora è un funk in agrodolce con qualche visione psichedelica che si placa solo quando un rock rurale che parla di fuoco, diavoli e alla fine, malvolentieri, anche di redenzione fa capolino portando con sé il solito fardello di letteratura sudista.

JJ Grey evoca complesse emozioni con il minimo uso di parole e con una musica che nel suo essere tutto e niente affascina, seduce, rallegra e mette addosso voglia di vivere e sognare. Le sue influenze sono molteplici ma Tony Joe White col suo swamp-rock, John Lee Hooker col suo boogie, Dan Penn col suo down-home soul e Sly & Family Stone col suo lazy funky sembrano aver regalato qualcosa in più di una semplice idea alla sua musica, che per intenderci non è solo ritmo e groove ma possiede un appeal melodico “svaccatamente contagioso” oltre che divertente che la colloca sulla stessa strada di Anders Osborne, Clarence Bucaro, Eric Lindell, Grayson Capps, Ramsey Midwood, giovani outsiders la cui filosofia esistenziale per il mercato e la morale americana (e non solo quella) è peggio del comunismo.

Musica per dreamers, losers and ramblers che ruota ipnotica e leggermente drogata attorno al ritmo sornione di Move It On, un po’ il centro gravitazionale di tutto il disco dove i Mofro, un ensemble allargato comprendente anche fiati, cori e violini, rivela una attitudine da jam band e dove l’Hammond di Adam Scone scomoda paragoni con There’s A Riot Goin’ On di Sly and Family Stone.

JJ Grey si occupa di un gran numero di strumenti tra i quali chitarre ritmiche e soliste, basso, percussioni, tastiere e armonica mentre Daryl Hance, l’altro storico nome dei Mofro, contribuisce a creare con la sua chitarra e i suoi arrangiamenti atmosfere di soul psichedelico alla Curtis Mayfield. Ballate melodiche, peraltro molto ironiche, come I Believe (In Everything) si accompagnano con titoli altrettanto sarcastici, Everything Good is Bad, che mettono in risalto una voce da soulman alla Redding mentre la misteriosa She Don’t Know evoca incontri notturni e sfodera una carica sensuale da brivido caldo. JJ Grey & Mofro potrebbero essere il mezzo di riscaldamento più economico per l’autunno prossimo a venire e Orange Blossoms è un disco che risponde ad unica prerogativa: la musica per essere tale deve avere anima. Qui di soul ce n’è quanto volete, basta far girare il cd e stappare una birra, il resto viene da sè.


MAURO ZAMBELLINI



lunedì 29 settembre 2008

Lucinda Williams > Little Honey


Da dieci anni, dall’uscita dello straordinario Car Wheels on a Gravel Road, Lucinda Williams ha conosciuto una ascesa artistica senza precedenti inanellando album sempre belli e diversi l’uno dall’altro e assurgendo al ruolo di migliore rockeuse/songwriter della musica americana di oggi. Una ascesa che continua con Little Honey, disco che segue solo di un anno l’acclamato West  ma non si limita a cavalcarne il successo perché introduce una serie di  cambiamenti che lo rendono diverso pur in una logica prosecuzione stilistica. Rispetto a West  il produttore non è più il rinomato Hal Willner ma l’ingegnere del suono di quel disco, Eric Liljestrand, il suono poi sterza verso  un mix di country, blues e rock n’roll suonato  con un atteggiamento disincantato e libero, un roots-rock  meno elegante rispetto al precedente lavoro ma spartano e diretto, con decise puntate hard-rocking che richiamano lo stile senza fronzoli di World Without Tears. Affiora il rumore di una band che sembra la quintessenza di quelle strade impolverate del sud  tanto decantate dalla Williams, poco avvezza alle raffinatezze ma in sintonia con quel misto di folk, blues e rock che costituiscono le radici dell’artista : Bob Dylan e Lightin Hopkins, i Cream e i Rolling Stones, Robert Johnson e Memphis Minnie. 

Per la prima volta, inoltre, la Williams sembra aver lasciato da parte quelle sue  ballate di oscura introspezione che l’hanno resa famosa, per rivolgersi all’esterno, ai temi delle relazioni umane e dell’amore con un ottimismo mai provato prima. L’insieme di questo aspetto e l’appoggio sempre più determinato della sua band, i Buick 6 con il bassista David Sutton, il batterista Butch Norton e i chitarristi Chet Lyster ( ex Eels) e soprattutto il riconoscibilissimo Doug Pettibone,  fanno si che Little Honey  suoni differente da West  e riporti una fresca aria roots nella carriera dell’artista della Louisiana. Aggiungete inoltre l’uso di una sezione fiati (cosa mai avvenuta prima) nella soffice ed epica Rarity, il brano che più strettamente ripropone  l’ombrosità delle sue vecchie ballate, un duetto con Elvis Costello nel mini dramma in salsa country di Jailhouse Tears e la presenza di una leggenda come Charlie Louvin e avrete un album che riesce ancora una volta ad entusiasmare senza essere la copia del disco precedente riassumendo al contempo tutti gli elementi che hanno reso la Williams una delle più celebrate songwriter viventi. Presenti nel disco anche Susanna Hoffs e Matthew Sweet, la quale aiuta ad arrangiare con un potente wall of sound la prorompente Little Rock Star.

Come afferma la stessa autrice, Little Honey è più luminoso rispetto ad altri suoi lavori “ perché mi trovo in una differente fase della mia vita e quindi ci sono più momenti felici. Questa volta ho voluto cercare più al di fuori di me stessa che dentro il mio animo”.  Ecco perché Little Honey è più rockato, a cominciare dalla sferzante Real Love  che apre il disco con con un riff di chitarra stoppato e poi invoca con decisione e passione rollingstoniana un real love sensuale e a tutto ritmo. Gli fanno immediatamente eco  Circles And X’s, scritta nel lontano 1985, strimpellata come un arruffato country-blues di scuola Keith Richards e sottolineata dal sapiente organo di Rob Burger e la lenta Tears Of Joy,, anche qui il blues ad indicare come i paesaggi dell’anima più volte descritti dalla Williams in modo cerebrale e triste  siano adesso illuminati da una luce diversa. Ciò non toglie che l’introspezione e le ballate siano nel dna della sua musica, basta aspettare la rarefatta  e visionaria Rarity, il gorgheggio melodico di Wishes Were Horses, la lenta e notturna The Knowing per trovare riscontro ma è l’intenso e crudo potere del rock n’roll in Honey Bee ed il crescendo spectoriano di Little Rock Star a marchiare il disco con un rock da  strada chitarristico e senza piagnistei. La vivace Long Way To The Top  chiude il disco sui ritmi di un rock n’roll spregiudicato e molto rollingstoniano e fotografa alla perfezione la Lucinda Williams di Little Honey..


Mauro Zambellini     Settembre   2008


venerdì 26 settembre 2008

Black Crowes > Warpoint


Sette anni dopo il mediocre Lions i Black Crowes tornano alle origini ripristinando un tumultuoso e sporco rock-blues sudista, così come ce lo hanno fatto amare nei loro dischi migliori, i primi tre tanto per intenderci. Abbandonate le infatuazioni glam e il ricorso ad un rock spettacolare da Mtv, perso definitivamente il bravo chitarrista Marc Ford, i Corvi Neri hanno ingaggiato il tastierista Adam McDougall e messo Luther Dickinson dei North Mississippi All Stars al posto di Ford. Di nuovo in sei con Chris e Rich Robinson, il batterista Steve Gorman ed il bassista Sven Pipien hanno lavorato duro, scegliendo Paul Stacey come produttore e infilandosi negli Allaire Studios, stato di New York ai piedi della Catskills Mountains, non molto lontano da Woodstock, per portare a termine un disco che non sconfessa le loro influenze e rimette in pista un rock n’roll vintage intriso di blues e R&B. Finiti i tempi delle major i Black Crowes hanno ideato una loro etichetta, la Silver Arrow e con la spavalderia ed il coraggio che li ha sempre contraddistinti sono tornati alle origini, al rock impiastrato di blues, di soul e di R&B con cui avevano aperto le danze, sciorinando chitarre e suoni sporchi, tastiere anni settanta ed una ritmica sordida da cantina che sembra direttamente estrapolata da Exile On Main Street. Il sound è quello anche se le canzoni non risultano ugualmente brillanti, manca loro un quid per essere veramente memorabili.
Nuova linfa al gruppo l’hanno portata le tastiere sotterranee ed honky-tonk di McDougall che in Goodbye Daughters Of The Revolution e in Wee Who See The Deep sembra fare il verso al lavoro fatto da Ian Stewart con gli Stones e la cinetica slide di Luther Dickinson, sempre più decisiva nel riversare sulle canzoni una copiosa dose di fango del Mississippi. Il risultato è un sound da juke joint che sa terribilmente di blues e di Faces, che occhieggia ai Led Zeppelin primo periodo in Movin’On Down The Line e che nell’iniziale Goodbye Daughters Of The Revolution col suo carico di ribellismo rispolvera il rock barricadiero di Street Fightin’ Man.
Gli Stones early seventies sono dappertutto in Warpoint, soprattutto nella abrasiva cover di God’s Got It di Reverend Charlie Jackson ma il dato che più risalta è la nuova vocazione balladiera dei Crowes che si consuma in splendide ballad quali Oh Josephine dal finale epico, nel semi folk di Locust Street e nella conclusiva Whoa Mule che con tabla, sitar e chitarre acustiche riprende la strada di un rock avulso da condizionamenti commerciali e solo rivolto ad un messaggio di fratellanza universale. Pacifisti, libertari e antiproibizionisti i Black Crowes sono una band fuori dal tempo e dalle mode, suonano come fossero nel 1971 e cantano con l’innocenza di Volunteers chiamando i loro sostenitori brothers and sisters. C’è bisogno di altro per amarli?

Mauro Zambellini (16 mar 2008)

giovedì 25 settembre 2008

Willy DeVile a Trezzo sull'Adda


(14 marzo 2008) Sono passate due settimane ma il ricordo è ancora vivo e pulsante. Pensavo di trovarmi un DeVille acciaccato e stanco, seduto sullo sgabello a cantare i suoi dolenti Delta blues sporchi di Messico ed ecco invece il concerto che non ti aspetti, un concerto che nessuno osava prevedere alla vigilia, che ha riportato in auge il sound eccitante e sporco di Mink deVille. Un concerto ad alto tasso elettrico con il rock sugli scudi che ha riproposto lo stile spavaldo e i modi crudi del DeVille newyorchese degli anni ’70 e primi ’80, con tanto di Gibson alla Chuck Berry e la voce affilata che canta  Spanish Stroll,  Savoir Faire,  Venus Of Avenue D,  White Trash Girl,  Cadillac Walk e Italian Shoes con una determinazione ed una forza che era da parecchio tempo che mancava negli show del gitano.

Quello al Live Club di Trezzo è stato un concerto che ha rammentato il DeVille velenoso e duro del CBGB’s, pur con le differenze d’età e di un fisico ormai ridotto all’osso. Alto, magnetico, pallidissimo e magro da morire, Willy è apparso però più forma che nelle precedenti esibizioni italiane quando seduto sullo sgabello con la chitarra acustica incantava i presenti con commoventi ballad che traevano spunto dai suoi amori per il soul, il blues, New Orleans ed il vecchio jazz di Bourbon Street. Questo lato intimo di DeVille non è andato perso perché anche a Trezzo Willy ha alternato ai momenti più lancinanti e rock alcuni siparietti in cui ha fatto il bluesman di razza con una fangosa Muddy Waters Rose Out Of The Mississippi Mud oppure strizzando il cuore dei presenti con le struggenti Trouble In Mind, Heart and Soul  e Let It Be Me o spingendosi nei quartieri dello spanglish con la sua personale versione di Hey Joe e con l’ormai classica  Demiasado Corazon.

Ha anche avuto il tempo di “promozionare” Pistola alla sua maniera ovvero con soli due brani, So So Real e Been There Done That, dando ulteriore conferma della sua totale indipendenza verso i modi e i calcoli dello show business  e poi ha evocato da vero sciamano gli spiriti del bayou con la cantilenante Cheva. Ma gli highlights  dello show sono arrivati dal Mink De Ville tagliabudella delle notti newyorchesi, quando era di casa al Cbgb e il suo pachuco rock era la cosa più pericolosa della città almeno in termini di contaminazioni tra rock bianco e i suoni dei “negri” e degli ispanici. Così al pubblico più stagionato è sembrata magia riascoltare intense riproposizioni di  Mixed Up Shook Up Girl e Venus Of Avenue D recuperate dal primo album Cabretta e la devastante versione di Steady Drivin’ Man, punto sintesi tra Phil Spector, NY sound e i Rolling Stones, felice eredità di quel capolavoro che risponde al nome di Return To Magenta.

Vestito di nero con una palandrana da pirata dei bassifondi di Parigi più che dei Caraibi, imponente sul palco nonostante la sua magrezza, Willy ha fumato solo una sigaretta, bevuto succo di frutta e lanciato rose bianche ai presenti ma la sua musica è apparsa sconvolgente e stordente come quando si imbottiva di droghe e metteva paura a chiunque lo incontrasse nella notte e nelle stradine della Lower East Side di New York.

A dividere il palco con lui una Mink De Ville Band assemblata attorno a due vecchie conoscenze, il bassista Bob Curiano ed il batterista Shawn Murray, con Willy negli anni 80 e 90. Oltre a loro il chitarrista Mark Newman, non certo al livello del grande Fred Koella ma volonteroso ed efficace, il percussionista Boris Kinberg, il bravo Davin Brown al piano e le imponenti presenze femminili di Dorene e Madonna Wise, due vocalist che hanno tinto di gospel i brani di più recente scrittura. Una band non virtuosa ma compatta, energica, essenziale allo stiletto-rock di un DeVille che ha dimostrato una volta di più la sua imprevedibilità . Grande, unico, meraviglioso ed immortale. L’ultima delle rockstar. 


Mauro Zambellini

mercoledì 24 settembre 2008

John Fogerty a Milano 12 giugno 2008


Strepitoso. Una festa del rock n’roll. E’ arrivato in treno alla stazione Centrale di Milano alle 20.45 come un lavoratore qualsiasi e alle 21.35 era sul palco pronto con Travelin’ Band ad incendiare l’aria dell’ Alcatraz  con il migliore canzoniere del rock n’roll esistente, facendo cantare 2800 persone con una musica gioiosa, coinvolgente, trascinante e senza tempo. 

John Fogerty è un miracolo della natura, la sua voce non ha subito negli anni la minima scalfittura, è bella, potente, espressiva e la sua musica è calda e solare come un pomeriggio estivo californiano. Se qualcuno pensava di trovare un residuato dei sixties è rimasto seccamente smentito, quello di Milano è stato uno show memorabile con un John Fogerty da favola. Il miglior concerto rock di questa prima metà del 2008. Commovente, esaltante, vario, duro e tenero, con tante, tantissime canzoni dei Creedence in pista, specie nella prima parte dello show (Bad Moon Rising, Green River, Who’ll Stop The Rain, Susie Q, Born On The Bayou, Looking Out My Backdoor, Midnight Special) e nell’ultima (Swett Hitch-Hiker, Down On The Corner, Up Around The Bend, Hey Tonight, Fortunate Son) , una parte centrale in cui si sono sentiti echi di musica country e cajun con tanto di violino e fisarmonica e alcuni estratti del recente Revival (Don’t You Wish It Was True, Gunslinger, Broken Down Cowboy) ed infine un bis all’insegna del sing along collettivo con tanto di  Rockin’ All Over The World e Proud Mary. Unico neo della serata la mancanza della struggente Deja Vu (All Over Again)  ma glielo si può perdonare a questo “Beatles dei poveri” che nel magico biennio 1969/1970 con i suoi Creedence Clearwater Revival superò gli stessi baronetti in quanto a 45 giri nelle top ten. 

Con lui sul palco dell’Alcatraz c’era un fenomenale band di sette elementi, una armata che in certi momenti aveva cinque, dico cinque, chitarristi e poi basso (Dave Santos) e batteria, e che batteria perché Kenny Aronoff è un monumento del drumming, un picchiatore dinamico e versatile che ti fa vedere le stelle solo guardarlo. Imponente, muscoloso, energico, dominante ma anche appartato quando è necessario (in pezzi come Midnight Special. Cotton Fields, Broken Down Cowboy), è il miglior batterista rock che mi sia capitato di vedere, assieme a Charlie Watts. Poi, quando i chitarristi rimanevano “solo” in tre (Fogerty, il rockabilly cat Billy Burnette e lo scatenato barbuto Hunter Perrin), Matt Dolan si piazzava all’organo e Jason Mowery (ex Keith Urban band) prendeva il violino. Una band a geometria variabile, pronta ai cambi di scenario delle canzoni del leader, perfetta nei suoni e potente come poche ad esprimere il miglior suono del rock n’roll americano. Ma è John Fogerty il mattatore, l’working class hero, il rocker dalle cento energie, capace di stregare una intera platea con la sua camicia a scacchi e il suo bandana rosso attorno al collo (stesso look di Cosmo’s Factory anno 1970), i suoi modi schietti, le sue canzoni semplici, la sua voce squillante e la spontaneità dei gesti, come quando all’inizio di ogni brano confabulava coi musicisti quasi a scegliere lì per lì il pezzo da eseguire. Una vitalità da far invidia ad un ventenne, mobile sul palco, sicuro col microfono, pronto ad ogni brano a cambiare chitarra, dalla Fender alla Gibson all’acustiche e a cambiare velocità e umori passando dal rock n’roll alla Berry, al country-rock, dalle ballate (poche in verità) al R&B, dalla musica cajun  a quello strambo connubio di pop, roots e swamp-rock che sono le sue inconfondibili canzoni. Un vero artista del rock n’roll, popolare e sincero come la sua musica, capace di entusiasmarsi e gioire come il pubblico che si è trovato di fronte, un pubblico magnifico che ha cantato, applaudito, osannato, partecipato e gli ha strappato più di una volta un sentito i loooove youuuu e “non dimenticherò mai questa serata”..

Quello di Milano è stato uno show speciale per tante ragioni, per la vitalità del leader e la bravura della sua band, per il pubblico, per lo splendido e immortale spettacolo del rock n’roll, perché il 12 giugno del 2008 era la prima volta che questo artista si esibiva in Italia. 

Un evento eccezionale che non ha avuto nessun momento retorico e celebrativo ma solo tanti momenti musicalmente memorabili, dall’inizio al fulmicotone di Travelin’Band a quella  Who’ll Stop The Rain che arriva sempre puntuale nei giorni di pioggia, da una pregnante e scura versione di I Heard It Through The Grapevine con un il grande  lavoro di Hammond da parte di Dolan alle dureKeep On Chooglin’ e Ramble Tamble trattate alla maniera psichedelica ampliando i tempi con lancinanti assoli di chitarra, da quella specie di autobiografia che è Old Man Down The Road alle note di speranza di Have You Ever Seen The Rain  capace di far cantare anche l’ultimo degli stonati, fino alla micidiale Fortunate Son. C’è stato spazio anche per una scalpitante versione di Night Time Is Right Time di Ry Charles (la fanno anche gli Stones nelle ultime tournee) e un inedito, Comin’ Down The Road che, come ha detto Fogerty, è stata tenuta per tanto tempo nel cassetto e stasera la voglio dedicare a voi.

Una serata magica quella del 12 giugno all’Alcatraz. 


MAURO ZAMBELLINI     GIUGNO   2008


lunedì 8 settembre 2008

BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND MILANO SAN SIRO 25 GIUGNO 08



È stato un concerto memorabile per l’entusiasmo di tutti, in primis Bruce ed il pubblico ma anche della E Street Band che è apparsa un po’ meno “legata” rispetto al concerto milanese del 28 novembre. Non sono d’accordo con chi dice che questo è stato il concerto di Bruce migliore di sempre ma certo la gioia e la commozione e l’entusiasmo che hanno avvolto San Siro sono stati un evento biblico tanto che ad un certo punto, prima del finale con Twist and Shout, Bruce ha guardato negli occhi Little Steven e ha proferito unbelievable! Incredibile in tutti i sensi, uno show in cui Bruce è stato tutto, rocker e giullare, entertainer e songwriter, soulman e bluesman, capace di essere contemporaneamente Bo Diddley ed Elvis Presley, Bob Dylan e James Brown, Eddie Cochran e the saint of the city. Peccato non ci fosse nella scaletta a richiesta It’s Hard to Be A Saint of The City ed invece la bella ragazza delle prime fila preferisse una piuttosto anonima None But The Brave, degna solo di essere abbastanza rara ma non certo emotivamente storica. Ma i gusti non si discutono, visto che se avessero chiesto a me avrei suggerito Roulette visto che Scajola è in fregola col nucleare e magari ricordare cosa sia successo a Three Miles Island non fa male oppure Candy’s Room che Bruce ha prontamente letto nel mio pensiero e l’ha fatta senza battere ciglio. Peccato fosse nella prima parte dello show quando mi trovavo nel prato abbastanza a ridosso del palco e l’audio sembrava quello di uno scadente bootleg dei primi anni ottanta. Basso pompato, chitarre impiastrate, distorsioni a palla e la voce che si faceva fatica a sentire. Ho temuto il peggio e quasi mi mettevo a piangere, ho solo avvertito l’onda d’urto di Summertime Blues, ho fatto finta di gioire con Spirit of The Night, uno dei miei pezzi preferiti e ho cercato un rimedio all’ incapacità tutta italiana di offrire un suono come si deve rifugiandomi nelle note di Darkness. Poi ho deciso di allontanarmi e di spostarmi sulla destra del palco, più o meno nella zone delle birre ed è stato un altro concerto, il sound è migliorato, la notte è scesa, Bruce si è illuminato e San Siro si è incendiato. Libero da vincoli, da resse, dall’impegno di ricordarmi per forza tutti i passaggi del concerto, tutti i trucchi e gli assoli, cose tipiche di un recensore attento e responsabile, mi sono liberato e ho vissuto la musica di Bruce e della E Street Band come fosse stata la prima volta che la vedevo e la vivevo dal vivo.

È stata una epifania, sono nato di nuovo come springsteeniano, ho gioito come un bambino, ho ballato come uno sballato, mi sono emozionato come un innamorato, ho abbracciato e baciato la mia ragazza su I’M On Fire, ho suonato la chitarra con Because Of The Night come fossi stato al Bottom Line di New York nel ’78, sono salito in cielo quando è arrivato il sontuoso, imponente, mistico e sublime finale di Racing In The Street, roba mai sentita prima in una versione di così tanto lirismo anche se sono un veterano della Zurigo del ’81, ho scambiato la mia birra col primo che passava perché entrambi avevamo il sorriso e la felicità addosso quando Bruce cantava Long Walk Home. Mi è perfino sembrata bella Last To Die e ho goduto sia nel sentire un’altra volta, l’ennesima, l’asfalto bruciante Born To Run sia nel non sentire Thunder Road che come ho confidato ad Antonio e Matteo, lì vicini, ebbri di birra e kilometri (otto ore per venire da Portogruaro a Milano su quella infernale autostrada che non è assolutamente fatta per correre) a costo di essere lapidato da uno stadio intero, non ne posso più di sentirla, con quel coro oh oh oh thunder road oh thunder road che mi fa venire in mente l’ ecumenismo dei papa boys . Non abbiatemene a male ma preferisco il rock laico. Ho sudato l’ultima goccia di una giornata torrida con la Detroit Medley ricordandomi di tutti quei bootleg comprati negli anni settanta quando Springsteen era una cosa da carbonari ma quei carbonari sapevano già che fantastico come lui nel rock non ci sarebbe stato nessuno, nemmeno Elvis e Dylan, Young e Van the Man e poi ad un certo punto mi è venuto il magone perché quando è arrivata Bobby Jean mi ha assalito la paura, una malinconia infinita, una stretta al cuore, quasi una certezza vedendo quell’uomo così generoso e forte ma non più giovane e quegli amici ormai un po’ malconci e stanchi che facevano di tutto per sembrare quelli di sempre, che quella fosse l’ultima volta che avremmo visto Bruce con la E Street Band. Mi sono fatto coraggio dicendomi che se i Rolling Stones erano ancora in giro avrebbero potuto esserlo anche loro ma quelli hanno fatto il patto col diavolo ed invece questi sono come noi, umani, mortali, vulnerabili. Quasi uno sconforto mi ha preso, uno sconforto felice perché intanto la musica andava avanti e American Land batteva come una danza celtica di orgoglio e amore universale ma nel mio intimo sapevo che quegli uomini che stavano sul palco e avevano reso la mia vita e quella degli ottantamila presenti migliore di come era stata programmata, una volta che non ci sarebbero stati più ci avrebbero resi orfani di una delle cose più belle che l’esistenza ci ha regalato. Una volta andati avrebbero portato con sé una parte importante della nostra vita.

Che Dio o il rock n’roll renda eterni Bruce Springsteen e la E Street Band. Non è possibile vivere senza.


MAURO ZAMBELLINI