mercoledì 24 settembre 2008

John Fogerty a Milano 12 giugno 2008


Strepitoso. Una festa del rock n’roll. E’ arrivato in treno alla stazione Centrale di Milano alle 20.45 come un lavoratore qualsiasi e alle 21.35 era sul palco pronto con Travelin’ Band ad incendiare l’aria dell’ Alcatraz  con il migliore canzoniere del rock n’roll esistente, facendo cantare 2800 persone con una musica gioiosa, coinvolgente, trascinante e senza tempo. 

John Fogerty è un miracolo della natura, la sua voce non ha subito negli anni la minima scalfittura, è bella, potente, espressiva e la sua musica è calda e solare come un pomeriggio estivo californiano. Se qualcuno pensava di trovare un residuato dei sixties è rimasto seccamente smentito, quello di Milano è stato uno show memorabile con un John Fogerty da favola. Il miglior concerto rock di questa prima metà del 2008. Commovente, esaltante, vario, duro e tenero, con tante, tantissime canzoni dei Creedence in pista, specie nella prima parte dello show (Bad Moon Rising, Green River, Who’ll Stop The Rain, Susie Q, Born On The Bayou, Looking Out My Backdoor, Midnight Special) e nell’ultima (Swett Hitch-Hiker, Down On The Corner, Up Around The Bend, Hey Tonight, Fortunate Son) , una parte centrale in cui si sono sentiti echi di musica country e cajun con tanto di violino e fisarmonica e alcuni estratti del recente Revival (Don’t You Wish It Was True, Gunslinger, Broken Down Cowboy) ed infine un bis all’insegna del sing along collettivo con tanto di  Rockin’ All Over The World e Proud Mary. Unico neo della serata la mancanza della struggente Deja Vu (All Over Again)  ma glielo si può perdonare a questo “Beatles dei poveri” che nel magico biennio 1969/1970 con i suoi Creedence Clearwater Revival superò gli stessi baronetti in quanto a 45 giri nelle top ten. 

Con lui sul palco dell’Alcatraz c’era un fenomenale band di sette elementi, una armata che in certi momenti aveva cinque, dico cinque, chitarristi e poi basso (Dave Santos) e batteria, e che batteria perché Kenny Aronoff è un monumento del drumming, un picchiatore dinamico e versatile che ti fa vedere le stelle solo guardarlo. Imponente, muscoloso, energico, dominante ma anche appartato quando è necessario (in pezzi come Midnight Special. Cotton Fields, Broken Down Cowboy), è il miglior batterista rock che mi sia capitato di vedere, assieme a Charlie Watts. Poi, quando i chitarristi rimanevano “solo” in tre (Fogerty, il rockabilly cat Billy Burnette e lo scatenato barbuto Hunter Perrin), Matt Dolan si piazzava all’organo e Jason Mowery (ex Keith Urban band) prendeva il violino. Una band a geometria variabile, pronta ai cambi di scenario delle canzoni del leader, perfetta nei suoni e potente come poche ad esprimere il miglior suono del rock n’roll americano. Ma è John Fogerty il mattatore, l’working class hero, il rocker dalle cento energie, capace di stregare una intera platea con la sua camicia a scacchi e il suo bandana rosso attorno al collo (stesso look di Cosmo’s Factory anno 1970), i suoi modi schietti, le sue canzoni semplici, la sua voce squillante e la spontaneità dei gesti, come quando all’inizio di ogni brano confabulava coi musicisti quasi a scegliere lì per lì il pezzo da eseguire. Una vitalità da far invidia ad un ventenne, mobile sul palco, sicuro col microfono, pronto ad ogni brano a cambiare chitarra, dalla Fender alla Gibson all’acustiche e a cambiare velocità e umori passando dal rock n’roll alla Berry, al country-rock, dalle ballate (poche in verità) al R&B, dalla musica cajun  a quello strambo connubio di pop, roots e swamp-rock che sono le sue inconfondibili canzoni. Un vero artista del rock n’roll, popolare e sincero come la sua musica, capace di entusiasmarsi e gioire come il pubblico che si è trovato di fronte, un pubblico magnifico che ha cantato, applaudito, osannato, partecipato e gli ha strappato più di una volta un sentito i loooove youuuu e “non dimenticherò mai questa serata”..

Quello di Milano è stato uno show speciale per tante ragioni, per la vitalità del leader e la bravura della sua band, per il pubblico, per lo splendido e immortale spettacolo del rock n’roll, perché il 12 giugno del 2008 era la prima volta che questo artista si esibiva in Italia. 

Un evento eccezionale che non ha avuto nessun momento retorico e celebrativo ma solo tanti momenti musicalmente memorabili, dall’inizio al fulmicotone di Travelin’Band a quella  Who’ll Stop The Rain che arriva sempre puntuale nei giorni di pioggia, da una pregnante e scura versione di I Heard It Through The Grapevine con un il grande  lavoro di Hammond da parte di Dolan alle dureKeep On Chooglin’ e Ramble Tamble trattate alla maniera psichedelica ampliando i tempi con lancinanti assoli di chitarra, da quella specie di autobiografia che è Old Man Down The Road alle note di speranza di Have You Ever Seen The Rain  capace di far cantare anche l’ultimo degli stonati, fino alla micidiale Fortunate Son. C’è stato spazio anche per una scalpitante versione di Night Time Is Right Time di Ry Charles (la fanno anche gli Stones nelle ultime tournee) e un inedito, Comin’ Down The Road che, come ha detto Fogerty, è stata tenuta per tanto tempo nel cassetto e stasera la voglio dedicare a voi.

Una serata magica quella del 12 giugno all’Alcatraz. 


MAURO ZAMBELLINI     GIUGNO   2008


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