sabato 25 dicembre 2010

2010 in Rock


Top Ten

1) Mojo > Tom Petty & the Heartbreakers
2) Croweology > The Black Crowes
3) Midnight Souvenirs > Peter Wolf
4) The Open Road > John Hiatt
5) God Willin’ & the Creek don’t Rise > Ray LaMontagne
6) Street Songs of Love > Alejandro Escovedo
7) Leave Your Sleep > Natalie Merchant
8) 7 Walkers > 7 Walkers
9) Band of Joy > Robert Plant
10) Tin Can Trust > Los Lobos

Ristampa
The Promise: The Darkness on the Edge of Town > Bruce Springsteen

Dvd
London Calling Live in Hyde Park > Bruce Springsteen & The E Street Band

Italian Shoes
Cheap Wine > Stay Alive!

Altri suoni
Evasio Muraro > O tutto o l’amore

Drunk n’ beat
Pills and Ummo > Southside Johnny & The Asbury Jukes

Live Album
Gov’t Mule > Mulennium

Concerti
John Hiatt and The Combo : Milano 25/10/2010

Delusioni
John Mellencamp > No Better Than This
Deer Tick > The Black Dirt Session

Rock Books
Life > Keith Richards

mercoledì 22 dicembre 2010

7 Walkers


Non finisce di sorprendere New Orleans nonostante in questi ultimi anni non sia stata risparmiata dalla sfiga. La musica continua a pulsare dentro il cuore della città ed è per questo che la Big Easy ha sette vite. Sette come i 7 Walkers che in realtà sono in quattro e si sono formati nel 2009 quando il chitarrista, autore e cantante Malcom “Papa Mali” Welbourne ha radunato attorno a sé il batterista dei Grateful Dead Bill Kreutzmann, il bassista dei Meters George Porter Jr ed il multistrumentista Matt Hubbard. Ne è nata una strana creatura, di quelle che hanno alimentato le leggende e le dicerie scure della città. Una specie di jam-band che mischia un background inconfondibilmente New Orleans con schegge di minimalismo sperimentale degne dei Latin Playboys, ballate ipnotiche e bluesy da assolati pomeriggi nel Delta, ne è esempio la splendida King Cotton Blues con la partecipazione di Willie Nelson con dondolanti nenie che paiono figlie del Gris Gris di Dr.John. Insomma un altro rito voodoo con cui festeggiare degnamente il santo Natale visto che il disco è uscito in questi giorni . Un mondo sfuggente e oscuro esce da 7 Walkers fatto di intrugli magici e di piogge scroscianti nel bayou, di strambi personaggi che rispondono ai nomi di Chingo, Mr.Okra e lady Sue di Bogalusa e di tipastri che piacerebbero tanto al compianto DeVille, lui che in queistiluoghi ci ha vissuto come un lupo mannaro. L’universo dei 7 Walkers è fosco, intrigante e la musica sgorga sinuosa, quasi improvvisata secondo una danza che evoca antichi spiriti, figure misteriose, segreti primordiali.
Un disco non collocabile in nessuna categoria di genere se non figlio di quell’immenso crogiolo di suoni e umori che è New Orleans, un lavoro affascinante che vede la voce roca e vetrosa (e un po’ Ted Hawkins) di Papa Mali innestare sghembe cantilene da Tom Waits dell’officina (Chingo) o rovistare negli armadi del classicismo americana per ricavare deviate versioni di Hey Bo Diddley ribattezzata Hey Bo Diddle o ancora sincopare con il reggae che gli è rimasto nell’ugola e nel sangue dopo l’esperienza con i Killer Bees brani che si contorcono attorno ad un briciolo di ritmo e si piazzano nella testa senza più uscirne.
Papa Mali è la voce e la chitarra di questo rito ma funzionali al suo gris gris sono il basso funky di George Porter, la batteria poliritmica di Bill Kreutzmann e i diversi strumenti usati da Matt Hubbard, le tastiere, l’armonica e il trombone. Un ruolo importante lo gioca anche Robert Hunter con le liriche, l’uomo che ha firmato tante canzoni dei Grateful Dead e ha lavorato recentemente con Bob Dylan. Ma è l’atmosfera del disco a stregare più delle presenze e delle tecniche, una musica che si insinua sotto pelle e vi rapisce in un mondo distante da quello in cui è la luce a dare vita. Blues dell’oscurità, con tutto il fascino che ne segue.

Mauro Zambellini

venerdì 17 dicembre 2010

Mauro Ferrarese > Wounds, Wine & Words


Wounds, Wine & Words letteralmente ferite, vino e parole, è un disco di blues acustico di sofferenza, euforia e parole. Ne è autore Mauro Ferrarese un tipo che sembra uscito da un festival di musica acustica della California post-psichedelica, capelli lunghi ingrigiti, pizzetto, look da montanaro, sguardo arguto e faccia simpatica. Abita nel Sud Tirolo ma ha fatto la gavetta a New Orleans dove ha imparato l’arte di arrangiarsi facendo il busker ed ha imparato la legge del blues. “La strada è il miglior palcoscenico per un uomo di blues” dice Ferrarese a chi gli chiede in quali festival ha suonato e così aiutandosi con la chitarra e con il dobro Ferrarese canta un blues spartano e felicemente parco che trae origine dal Delta (Son House è il suo maestro) e poi sconfina nel vicino Texas. Un blues scheletrico e primitivo ma non scolastico con una esecuzione pulsante e viva nonostante la strumentazione ridotta all’osso ed un allargamento verso il ragtime, il gospel, il di folk di Woody Guthrie e il country di Hank Williams.
Wounds, Wine & Words è un affresco di musica americana della strada che spazia dal fantasioso stompin blues di Frontdoor Blues, brano legato allo stile di Son House al più oscuro SoulTrain dove Ferrarese mette in luce il suo slidin’ ed una voce chiara, pulita, autorevole. Ipnotico come può esserlo un blues del deep south, SoulTrain è l’esempio delle molteplici facce mostrate da Ferrarese. Come scrive lo stesso sulla copertina del disco “il grande Son House raccontava nei suoi blues di una donna e di un uomo….io non ho molte parole se non in queste dodici tracce. 1 Thing nasce come elaborazione di un vecchio canto di lavoro che chiamavano Rosie, Earthquake e We’re All Alive sono nate nell’aprile del 2009 dopo una visita agli amici di L’Aquila. Le altre sono storie più o meno recenti che hanno attraversato la mia strada e dove ho incontrato anche voi”.
Parla la musica in Wounds, Wine & Words e i testi si fanno carico di un’ironia hanno che trasmette positive sensazione anche quando sono di scena l’abbandono, la sofferenza, la malinconia. Ma Mauro Ferrarese con la sua voce convincente, la sua pregevole tecnica col dobro ed il suo spirito sa essere un nostrano Leon Redbone che diverte con una musica dei vecchi tempi più di quanto non riescano tante moderne rock n’roll band.
Blues, folk, country di montagna ed una salutare ventata di old-time music, la stessa che Ferrarese sviluppa quando si esibisce con i Red Wine Serenaders (vederli assolutamente dal vivo), un concentrato di swing e buon umore con Ferrarese coadiuvato dall’ottimo chitarrista Max De Bernardi e dalle frizzanti Veronica Sbergia e Alessandra Cecala due musiciste e cantanti che con washboard ukulele e contrabbasso riempiono la scena più di un’orchestra. Se li trovate in giro dalle vostre parti non perdete il loro set.

MAURO ZAMBELLINI

giovedì 2 dicembre 2010

Bruce Springsteen > The Promise: The Darkness On The Edge Of Town Story


The Promise: Darknes on The Edge of Town Story racconta con 3CD e 3 DVD la registrazione al Record Plant di New York di quell’album ed il successivo tour del 1978, considerato dagli appassionati il più esplosivo della lunga carriera live di Bruce Springsteen.
Il primo DVD intitolato The Making of Darkness of Edge of Town ricostruisce la genesi del disco, quello che successe al Record Plant , le difficoltà nel trovare il suono giusto (fu fondamentale l’arrivo del tecnico del suono Chuck Plotkin), le tensioni e la stanchezza, il cameratismo tra i musicisti e i tecnici Jimmy Iovine e Thom Panunzio, le motivazioni e la rabbia che Springsteen si portava addosso dopo che la causa legale col suo ex manager Mike Appel gli avevano impedito di lavorare in studio per più di un anno. Il film è una sorta di viaggio nella creazione artistica di quel disco, il regista Thom Zimny ha ricostruito con le immagini e le riprese dell’epoca intercalandole con interviste di oggi dove i protagonisti, a cominciare da Springsteen, parlano di Darkness e di quel periodo tanto importante per lo sviluppo del rock n’roll.
“Quel disco fu una svolta, una riflessione, una nuova maturità. Fu una sorte di grande resa di conti con il mondo degli adulti, con una vita di limiti e compromessi ma anche una esistenza con capacità di ripresa ed impegno verso la vita. Mi chiedevo come potevo rimanere leale verso le cose con cui ero cresciuto, la mia famiglia, i miei luoghi, i miei amici, il lavoro, la comunità, Born To Run mi aveva portato dappertutto, mi aveva portato il successo e la notorietà ed era stata una grande tentazione ma io non volevo tradire la mia vita interiore. Darkness fu il disco in cui volevo cercare di capire come farlo”. (B.S)

Springsteen aveva cominciato a scrivere le canzoni dell’ album in una casa a Holmdel nel New Jersey, avrebbero dovuto costituire l’ossatura del suo quarto album se la causa con Appel non gli avesse impedito di registrare, in realtà le outtakes messe a disposizione da questa ristampa dimostrano come Darkness sia contiguo in un senso a Born To Run e nell’altro a The River e molte canzoni potevano appartenere al disco che doveva esserci tra Born To Run e Darkness.
Darkness non nasce come reazione ai problemi legali sofferti da Bruce piuttosto è una reazione al successo che gli aveva procurato Born To Run e alla paura di sentirsi inghiottire in un mondo distante dalle sue origini. Il nuovo album matura difatti in un microcosmo provinciale e suburbano, nella vita della gente delle piccole cittadine del New Jersey e proprio la comprensione verso la gente comune generalmente tagliata fuori dalla vita americana ( e non solo) è l’immagine dominante del disco, quella working- class nelle cui case non c’erano libri, non c’era musica, non c’era nient’altro ed il rock n’roll si infiltrò per cambiare scenario, visioni, aspettative. Springsteen ha una visione ed è in cerca di una visione, scrive della gente che cerca di rompere queste catene, Darkness on the Edge Of Town è uno dei dischi più complessi e lucidamente rivelatori mai realizzati, una grandiosa opera di folk urbano suonato rock che aiuta a sopravvivere e non mollare mai.
Per rendere esplicito il carattere realistico dell’opera andava ridimensionata l’esuberante speranza espressa in Born To Run, necessitava un suono più scarno, più essenziale, più rado ed è proprio qui che Bruce, Jon Landau, Jimmy Iovine e Thom Panunzio lavorarono fino all’ossessione per creare un suono aspro dai colori netti, un bianco e nero cinematografico dove le chitarre e la batteria fossero preminenti rispetto alle melodie del sassofono e alla maestosità orchestrale del precedente album.
“Volevamo ridimensionare la portata, il sound di Born To Run era una specie di tecnica wall of sound, ora c’era invece questo vasto campo cinematografico. C’era questa atmosfera sinistra e speranzosa, il termine che usavamo per descrivere il sound del disco era film sonoro, volevamo un sound solitario, disincantato per mischiare terminologia audio e video, volevamo dare alle canzoni più durezza e meno dolcezza, un grande senso di implacabilità. Volevamo un disco nero come il caffè. Per Born To Run l’ispirazione era stata il Brill Buliding e Phil Spector, per Darkness l’idea era più interiore e rurale”. (Jon Landau)

Il risultato è un’opera d’arte che unisce il realismo urbano americano con le suggestioni noir dei film in bianco e nero. Un sound livido e urbano diventa la poesia della gente comune, esseri dimenticati nelle tante smalltown della provincia americana e nelle periferie metropolitane. Il cambio è netto rispetto al passato, radicale, non appena si ha in mano la copertina di Darkness. E’ questione di tonalità, mai foto (Frank Stefanko) sono risultate così rivelatrici rispetto ad un contenuto, c’è quella faccia da operaio che si immagina identica a quella dei personaggi delle canzoni, c’è immedesimazione tra artista e protagonisti della storia, come se Springsteen dicesse “sì, questa è la mia storia ed è anche quella dei personaggi delle mie canzoni”.

Già dalle battute iniziali di Badlands si capisce che questa è musica arrabbiata e ribelle ma anche adulta. La chitarra urla, l’organo ulula, le voci ruggiscono, il basso pulsa , la batteria è uno schianto, il suono è fresco e implacabile, nell’oscurità ai margini della città puoi trovare la forza per resistere. Patti Scialfa, solitamente parca di commenti, sintetizza con lucido candore nel DVD “adoro l’immagine del lupo solitario e scaltro che vedo quando ascolto questo disco”.
Fu però l’intervento decisivo di Chuck Plotkin, un tecnico del suono di Los Angeles, a togliere le castagne dal fuoco e a porre fine a quelle massacranti settimane di registrazioni. Fu il salvatore del disco, colui che seppe ridurre l’ enfasi delle canzoni con un mixaggio più stringato e moderno alzando i livelli di chitarra e batteria e trasformando Darkness in un ideale di rock n’roll da strada, “un sound elettrico evoluto da Highway 61 e condensato a livelli esplosivi destinato a diventare standard per un ‘intera generazione a seguire”. (Marco Denti)

Darkness on the Edge of Town venne pubblicato il 6 giugno 1978 in un anno in cui si contano almeno una quindicina di dischi imperdibili. Originariamente avrebbe dovuto intitolarsi The Promise in onore di una delle più belle ballate scritte e poi accantonate, oggi The Promise è il titolo dell’ intera ristampa, tre CD e tre DVD raccolti dentro il mitico block notes su cui Bruce scriveva appunti, titoli, testi di canzoni, minutaggio dei brani e scalette che offrono il materiale originale e le outtakes, gli estratti del tour del ’78 ed il concerto a porte chiuse tenuto ad Asbury Park nel 2009 con l’intero Darkness. Un’opera sontuosa e completa all’altezza di un grande avvenimento discografico e culturale.

Sono ventuno le outtakes incluse nei due CD delle Lost Sessions di Darkness on the Edgle of Town. C ‘è una Racing In The Street monca del colossale crescendo piano/organo nel finale ma con un violino in più e una Factory sotto mentite spoglie ovvero Come On (Let’s Go Tonight), una Talk To Me finita in Heart of Stone di Southside and The Asbury Jukes e altre “sconosciute” già bootlegate. Niente di tutto ciò avrebbe però arricchito il disco originario anche se eliminare Rendezvous, Because the Night e soprattutto The Promise non deve essere stato facile ma tutto quanto poteva allentare la tensione dell’album e diluire i toni cupi e amari da blue-collar record doveva essere lasciato fuori. “Scarti” come Gotta Get That Feeling, brano che risuona dello stile di Born To Run con tanto di assolo di sax, cori newyorchesi doo-wop e scampoli di monumentale wall of sound spectoriano, Oustide Looking In già orientata invece verso The River con Bruce che urla alla Jackson Cage sugli schiamazzi R&B di Clemons e la mollacciona Someday (We’ll Be Together) non rientrano nella sceneggiatura di Darkness.
Meno facile magari rinunciare a One Way Street, lento ed intimista brano da songwriter, con un misurato lavoro di Roy Bittan al pianoforte ed una entrata di Clemons dai toni romantici e Wrong Side Of The Street, la parte sbagliata della strada con quel carico di rock n’roll da guappi che farà da base a mezzo The River.
Ovvio fare a meno invece di The Brokenhearted, love-song spezzacuori e zuccherosa cantata con il pathos dell’Elvis di Can’t Help Falling In Love mentre in Candy’s Boy si affaccia la crepuscolare malinconia delle periferie con Federici che suona il glockenspiel e la nebbia che ingrigisce l’orizzonte.
E’ difficile credere che Save My Love sia un prodotto di quel periodo ma dall’archivio del 1976-1978 presentato nel DVD c’è una delle prime stesure della canzone così come veniva suonata a Holmdel. Nel CD la versione è un’altra, ha una brillante e squillante veste sonora e induce a credere che sia stata reincisa dallo Springsteen di oggi, cosa che spiega la sua diffusione via rete e via radio. Ain’t Good Enough For You va molto addietro, a quelle sarabande soul-rock che richiamano lo stile da festa del quartiere di The Wild The Innocent and the E Street Shuffle mentre Spanish Eyes grazie al titolo sembrerebbe una soul-ballad del De Ville con la rosa in mano e It’s a Shame è materia da Asbury Jukes con massiccio dispiego di trombe e sassofoni. Del tutto anonima è The Little Things (My Baby Does) il cui falsetto sta a Darkness come la simpatia sta a Gasparri, Breakaway è del genere ballatona col pianoforte e struggimento interiore e City Of Night un talking sinuoso che chiude le Lost Sessions prima della ghost song The Way, prodromo di quello che diventerà Drive All Night.

Ci sono altre outtakes nel secondo DVD riportante sia il concerto che la E-Street Band originaria con l’eccezione di Charlie Giordano al posto di Danny Federici e l’esclusione di Nils Lofgren ha tenuto il 13 dicembre 2009 al Paramount Theatre di Asbury Park per “commemorare” Darkness. Queste outtakes sono estratte dagli archivi del biennio 76/78 e regalano un ispirato e riccioluto Bruce a dorso nudo ad Holmdel con una band parecchio scarmigliata impegnata in una versione ancora primitiva di Save My Love, in una scheletrica Candy’s Boy con Little Steven alle prese con maracas e campanacci. Da Red Bank arriva invece Something In The Night solo piano e voce e dagli studi di New York City un bianco e nero suggestivo con Don’t Look Back, Ain’t Good Enough For You, Candy’s Room solo per pianoforte e una sofferta The Promise, qui rauca e meno rifinita.
Da antologia gli ultimi cinque brani di questi Thrill Vaul 1976-1978. Siamo a Phoenix nel 1978 nel tour di Darkness, sono passati solo due anni da Holmdel ma sembrano dieci. Magro, spiritato, capelli corti, giacca, jeans e stivali scuri, abbigliato come un bad boy della new wave, Springsteen è un punk che comunica un rock n’roll di devastante energia che stordisce il pubblico di Phoenix con una sequenza mozzafiato di Badlands, The Promised Land, Prove It All Night, Born To Run e Rosalita. E’ solo una parte di concerto ma basta per far capire cosa stia succedendo quell’anno nel rock e chi sia il santo arrivato in città. Lo show è incandescente, una colata di adrenalina, le fans assaltano il palco travolgendo letteralmente Bruce e avvinghiandolo in un bacio appassionato. E’ solo un assaggio dello show riportato dal terzo DVD ovvero Bruce Springsteen and The E Street Band a Houston, Texas ill 12 dicembre 1978.
Era la seconda volta che la E-Street Band passava da Houston quell’anno ma il 12 dicembre rimane una data che i texani si ricorderanno a lungo perché uno del nord così scatenato non l’avevano mai visto. C’è il quasi debutto di Indipendence Day e di You Can’t Sit Down ma al di la della scaletta basata su Darkness ma con tanti titoli del passato (It’s Hard To Be A Saint In The City, Spirit In The Night, Rosalita, Fever) e qualcuno del futuro (The Ties That Bind, Point Blank) questo show è un’ esplosione atomica, Bruce è un punk tarantolato che ha deciso di rifondare il rock n’roll e la E Street Band una macchina da guerra che non fa prigionieri. Le riprese video sono tipiche dell’epoca, poche luci, poche camere, tutto molto semplice ma l’atmosfera è eccitatissima e lo show una dimostrazione di vitalità, irruenza, entusiasmo, urgente comunicativa fuori dall’ordinario. Non c’è ancora la perfezione che subentrerà dopo il tour di The River ma questo è un bene perché i concerti di questo tour e Houston non si discosta sono una questione di vita o di morte. Chi è sempre stato freddo o indifferente a Springsteen dovrebbe vedere questo show, uno dei tanti di quel tour del 1978 diventato leggenda, un tour iniziato il 23 maggio allo Shea Theatre di Buffalo e terminato il primo gennaio del ’79 a Cleveland, un tour che ha reso epico il gesto di Bruce Springsteen con la E-Street Band. Tre ore e mezzo di show più altre tre ore mezzo di soundcheck, un tour de force portato all’estremo della resistenza fisica e psicologica che al tempo venne immortalato da alcuni bootleg leggendari come Live In The Promised Land e Piece de Resistence, documenti preziosi che alimentarono la mitologia dello Springsteen live e portarono centinaia di italiani a Zurigo in quel fatidico 11 aprile del 1981.
Dopo trentadue anni ci viene consegnata la cronaca di quel tour, un modo per ritornare indietro (con una certa nostalgia) a quell’epoca, a quella giovinezza (nostra e di Bruce) dove sembrava che il rock n’roll dovesse cambiare il mondo e la vita. Forse non è stato così ma Bruce la sua promessa l’ha mantenuta.

MAURO ZAMBELLINI NOVEMBRE 2010

mercoledì 24 novembre 2010

Cheap Wine > Stay Alive!


Centinaia di concerti, migliaia di chilometri, decine di corde rotte, di bacchette spezzate, fiumi di birra, abbracci stritolanti, risate incontrollate, personaggi pazzeschi, follia in libertà nel cuore della notte, esplosioni di adrenalina, energia a tonnellate, diluvi di sudore….. che cosa si nasconde dentro un concerto rock?”
I Cheap Wine tentano di spiegarcelo con questo doppio CD intitolato semplicemente ed eloquentemente Stay Alive! due ore di rock senza tregua con le chitarre a palla e i ritmi pazzeschi che ricrea la magia di un loro show con tanto di set acustico, ballate al neon e rock n’roll al serramanico. Registrato in tre location differenti nell’aprile del 2010 al Fuzz di Pesaro, allo Spazio Musica di Pavia e al Teatro Zeppilli di Pieve di Cento Stay Alive! è la dimostrazione che anche in Italia pulsa un cuore rock, basta cercarlo fuori dai circuiti ufficiali e nelle strade secondarie.
Nonostante il gruppo pesarese non possa contare su un budget da major e su amici che contano, con i mezzi tecnici adeguati alle possibilità e una produzione in proprio i Cheap Wine ce l’hanno fatta e ci consegnano un live che rimarrà nella storia del rock in Italia. Un live ben fatto, registrato come si deve, che trasmette a pieno la carica di un loro show ed esplicita con la ricchezza degli arrangiamenti i lavori ancora in corso nel gruppo che qui, con l’aggiunta del pianista e tastierista Alessio Raffaelli, raggiunge uno status di rock n’roll band internazionale. Stay Alive! non è solo il classico live che un gruppo mette in cantiere per coronare una carriera, e i Cheap Wine se lo meritano visto la lunga e difficoltosa strada percorsa ma più specificatamente è la misura di quanto questa band è maturata, migliorandosi e aprendosi verso temi e suoni che hanno allargato il loro range espressivo ed il loro set.
Due CD, più di un’ora ciascuno. Si comincia con una parte elettroacustica come nei recenti show del gruppo. Spirits ha lasciato il segno e ha portato nuova linfa al loro scenario musicale, le ballate sono avvolgenti e gli intrecci di chitarre acustiche una delizia. Just Like Animals, The Sea Is Down, Circus Of Fools, A Pig On A Lead, le riletture di Murderer Song e Among The Stones, una Nothing Left To Say che con piano e armonica si apre alla Jungleland e la rincorsa delle chitarre di Among The Stones creano uno stato di palpabile attesa con atmosfere sospese tra folk, blues, ballads e melodie avvincenti. Poi arrivano le chitarre elettriche e la storia cambia. Michele Diamantini sale in cattedra e i Cheap Wine sciorinano un rock crudo, folgorante, psichedelico a tratti, underground. Marco Diamantini tiene ferma la barra delle ballate ma è duro timonare una barca che è ormai una ciurma inebriata di rock n’roll. Sono sventolate elettriche in un vento di burrasca, Evil Ghost e poi Shakin’The Cage, un semi-punk lanciato a mille, Youngstown di Springsteen che parte riflessiva e lenta per poi trasformarsi in un urlo di ribellione con un crescendo ad hoc, ottima cover per un gruppo che non ha mai nascosto una sincera sensibilità sociale.
Devastante il secondo CD, qui i Cheap Wine non fanno prigionieri, sono duri, rabbiosi e metropolitani,figli dei giorni del vino e delle rose. Il pianoforte di Raffaelli è il valore aggiunto, un po’ lirico e un po’ honky tonk, le chitarre distorcono, basso e batteria martellano cattive, una dopo l’altro arrivano i classici del loro live set, da Dance Over Troubles, Time For Action e Freak Show presi dall’omonimo album a Snakes, Move Along e City Lights (il consueto ed esaltante piece de resistence chitarristico) presi da Moving, da Leave Me A Drain fino all’irrinunciabile finale corale di Rockin’ In The Free World. Un grande Live.

MAURO ZAMBELLINI NOVEMBRE 2010

mercoledì 10 novembre 2010

Mississippi blues #2

(continua)

Bastano pochi blocchi per scendere all’inferno e i quartieri residenziali si trasformano in quartieri fatiscenti dove miseria e degrado balzano subito all’occhio. Sono gli all black blocks dove si vive con poco ed il rap ha sostituito il blues. Quando passi con la macchina provi un certo disagio, ti senti osservato, quasi minacciato con gli sguardi. Forse è solo una sensazione o la coda di paglia di noi bianchi ma è meglio stare in campana quando si sconfina. E’ una città nera Memphis, interessante anche se non bella e oggi un po’ depressa ma se si esce dalla città sulla highway # 69 che va a sud vi imbatterete nella gigantesca scritta (e magione) di Graceland. Che è da vedere comunque perché Elvis è Elvis. Ultimo simbolo di un Tennessee che diventa Mississippi, di un rock n’roll che diventa blues. Se seguite la 61 e siete nel periodo giusto ovvero nei primi giorni di ottobre troverete caldo meraviglioso ed un festival, il King Biscuit Blues Festival che è una festa per occhi, orecchie, cervello e palato. Meno per le arterie. Ad Helena, una cittadina dell’Arkansas appena al di là del grande fiume, ogni anno va in scena uno dei festival americani di blues più celebri e rinomati. Ci viene gente da tutto il mondo e per tre giorni questa cittadina oggi messa in ginocchio dalla crisi ma un tempo cruciale snodo commerciale della produzione cotoniera si riempie di un pubblico variopinto di ogni colore, età e ceto sociale alla ricerca del blues, del divertimento e del soul-food. Pittoresco è dire poco ma l’Arkansas Heritage&Blues Festival, così si chiama oggi, sa offrire uno grande scenario musicale proprio in mezzo al nulla di una regione povera e dimenticata. Quest’anno le teste di serie si chiamavano B.B King, Dr.John e Taj Mahal ma altrettanti chicche sono stati i set di Paul Thorn, una rivelazione per me che non conoscevo questo rocker, il rovente chitarrista Smokin’Joe Kubeck con il cantante Bnois King, quei simpatici tamarri southern rockers dei Kentucky Headhunters, il potente e sanguigno Michael Burks e la signorile Marcia Ball pianista di classe alle prese con un band da leccarsi i baffi.
Ma il Mississippi non è solo Delta, ci sono cittadine deliziose e amene come Natchez al confine con la Louisiana, una piccola New Orleans con l’architettura del French Quarter che trasuda tutto il fascino e l’ eleganza del Sud. Fu città portuale ed un centro per il commercio del cotone ma attorno al suo porto sul fiume si sviluppò una città secondaria, la Natchez under-the-hill , uno dei luoghi più torbidi, pericolosi e turbolenti di tutto il Mississippi che attirò giocatori d’azzardo, ladri, prostitute e maneschi di ogni genere. Mi è venuto in mente Willy De Ville passeggiando per le sue strade e difatti il nostro soulman preferito dopo aver lasciato New Orleans prese casa o meglio fattoria con cavalli non troppo distante da qui, nella zona boschiva e collinare che si estende ad est.
Anche nella parte settentrionale del Mississippi ci sono colline, boschi e blues.
Oxford, ridente cittadina sede della famosa Ole Miss, una delle storiche università pubbliche degli Stati Uniti dove nel 1962 dopo diciotto mesi tra dispute legali e politiche le autorità federali concessero il diritto a iscriversi a James Meredith, primo studente di colore, è popolata di studenti e pub dove la buona musica corre a fiumi. Al Larry’s Proud ci hanno suonato tutti, da Warren Zevon a Elvis Costello, dai più stagionati bluesmen ai Drive By Truckers e nel campus universitario il Blues Archiv ospita centinaia di registrazioni. A Oxford ci visse William Faulkner il che spiega la presenza di belle e comode librerie dove ci si può accomodare sulle poltrone e leggere quello che si vuole senza l’obbligo dell’acquisto. Ma Oxford è anche la sede della Fat Possum Records l’etichetta che ha tenuto a battesimo quel blues denominato Hill Country Blues che si è sviluppato in questa regione collinare, tra Oxford e Holly Springs. Un blues spartano, agro ed elettrico, molto ritmato e basato su pochi accordi, un blues ipnotico che ha avuto come antecedenti Mississippi Fred Mc Dowell e conseguenti J.R Burnside e Junior Kimbaugh ma che ha finito con l’influenzare anche i North Mississippi AllStars, Jon Spencer Blues Explosion, gli White Stripes e i Black Keys ovvero parte del miglior rock americano di oggi. E qui il cerchio si chiude ed il viaggio finisce.
Alla prossima.

Mauro Zambellini Ottobre 2010





(2 - continua)

mercoledì 3 novembre 2010

Mississippi blues

Me l’ero promesso, quando compio 60 anni me ne vado a vedere il blues, là dove è nato. Nel mio percorso musicale ho sempre distinto tra pop e rock e da sempre ho preferito quest’ultimo, per questo mi piacciono di più i Rolling Stones dei Beatles. Il rock è musica popolare nel senso che proviene dai linguaggi base del blues, del country e del R&B, il pop è fruizione popolare non necessariamente legato agli idiomi della musica popolare. Lady Gaga è pop, Madonna è pop, anche i Beatles sono pop pur su un piano diverso, colto, articolato, raffinato ed intelligente. I Rolling Stones non sono pop, sono rock perché derivano dal blues e dal R&B mentre i Beatles hanno avuto un rapporto solo marginale col rock n’roll degli anni ’50 e col folk europeo. Così, con l’ amico Roberto Neri, organizzatore dell’Ameno Blues Festival sono andato alla sorgente, alle mie radici o meglio alle radici della musica che amo. Sono andato al blues, sono andato nel Delta del Mississippi che non è un delta come quello del Po(p) ovvero tanti rivoli di acqua che scaturiscono dal corso principale del fiume, quello succede più in giù in Louisiana verso New Orleans dove ci sono i bayou e le paludi, nel Mississippi invece è una regione costituita da una pianura alluvionale dove la terra è resa fertile dalle acque e dove è un continuo susseguirsi di campi di cotone e coltivazioni. Un paesaggio piatto ed un enorme spazio (solo 2,5 milioni di abitanti in un’area sei volte il Massacchusetts) attraversato da strade dritte come la scia di un aeroplano delimitate ai lati dai numeri delle Interstate, da un numero inverosimile di procioni morti e da storti pali della luce e punteggiato da desolate e spiritate cittadine che in pratica si riducono ad un crossroad con intorno qualche casa e quando va bene un drugstore. Ogni tanto, in qualche villaggio dalla storia blues si incontra un sopravvissuto juke joint con le insegne scrostate e gli assi cadenti, più in là in mezzo alla campagna a fianco di qualche bianca chiesetta metodista o battista c’è la tomba di qualche bluesman e di Robert Johnson qui ce ne è più di uno. Non tutti i juke joint sembrano catapecchie come il Blue Front Cafè a Bentonia e non tutti i negozi di dischi sono come l’Aikei Pro’s Records Shop ad Holly Springs in realtà un rigattiere che assembla in maniera caotica tutto l’hardware usato rintracciabile nella regione delle North Hills , qualcuno è ancora arzillo e programma musica costantemente come ad esempio il Ground Zero di Clarksdale, una cittadina che nel suo nulla è un luogo dell’anima e dello spirito. La città non è grande ma ha una storia che da sola riempirebbe un libro di blues. Possiede un bellissimo ed eloquente Delta Blues Museum, una stazione ferroviaria rimessa in quadro ed una libreria-record store, il Cat Head che è il sogno di quanti arrivano fino a lì e vogliono comprarsi dischi dei musicisti locali e libri fotografici. Ma è l’atmosfera di Clarksdale a stregare, un atmosfera sonnolente, assolutamente silenziosa nel caldo del pomeriggio, con strade vuote, qualche auto americana degli anni ‘50/60 che si ferma al semaforo e lascia intravedere il conducente che sta trasportando un amplificatore vintage (mi è capitato anche questo), un cinema chiuso che fa tanto Ultimo Spettacolo con l’insegna che avvisa di un film sui Piranha, tanti negozi chiusi, parecchi definitivamente altri perchè forse è sabato pomeriggio, uno store di strumenti musicali con una Fender rossa appesa ed edifici che una volta erano magazzini o uffici e adesso hanno l’aspetto di un’archeologico modernariato urbano. Clarksdale, come l’ho vista io, sembra una città cadente e sospesa nel tempo, un reperto degli anni cinquanta se qualcuno avesse spento i colori ed il bianco e nero avesse avvolto il tutto. Di cose da vedere ce ne sono comunque parecchie e non starò qui ad elencarle ma citare il Riverside Hotel è doveroso perché dopo lo sconcerto iniziale davanti ad una facciata talmente fatiscente da credere ad un rudere inagibile c’è la sorpresa di trovarsi l’allampanato e simpatico Mr.Rat che vi accoglie nelle sue romantiche stanze e vi racconta tutto quanto è passato in quell’hotel dalla morte di Bestie Smith fino all’attivo interessamento di un tale (dice lui) Bill Wyman che ha messo lui e la storia dell’hotel nel libro Blues Odyssey, Journey To Music’s Heart and Soul pubblicato in Inghilterra.
A Clarksdale la vita arriva quando cala il sole e soprattutto nel fine settimana perché sono in molti, ragazzi universitari e gente di ogni tipo e colore a riempire il Ground Zero e sudare e divertirsi al suono del il blues perché lì è ancora storia, passione, amicizia, pulsazione, sesso e alcol.
Il Ground Zero è di proprietà dell’attore Morgan Freeman che gli ha dato una bella spinta propulsiva. E’ un edificio ampio dentro corredato da una veranda in legno dove sono sistemati una vecchia stufa arrugginita e quattro o cinque vecchi divani che vengono presi d’assalto da chi vuole fumare (ma nel Delta si può fumare dappertutto) o solo chiacchierare o per smaltire la sbronza quando le birre sono troppe. Dentro il soffitto è alto, c’è la cucina, il banco per le t-shirt, i tavoli ed il lungo bancone per bere, il tutto attorniato da un pullulare di manifesti, scritte, fotografie e da un palco che diventa ribollente appena Super Chickan e le sue tre Fightin’ Cocks salgono ed iniziano a rollare un aspro ed eccitante Delta blues elettrico che va avanti per più di tre ore coinvolgendo ragazze, donne e uomini in una sfrenata danza del sabato sera. Ci si riempie con hamburger e soul food, si beve birra e tequila ma quello che fa la differenza è l’attitudine delle persone che in barba alla crisi ballano, ridono, scherzano, cantano, fraternizzano in modo spontaneo come da noi è orami impossibile vedere. Persone di tutti i colori, di tutte le età e di tutti i ceti sociali (c’era anche Morgan Freeman il 9 ottobre) in virtù di trasversalismo che fa la differenza e non erige barriere.
La crisi negli Stati Uniti è molto più evidente che da noi (senza ammortizzatori sociali e con la carta di credito sempre in mano i danni sono enormi) e non dico solo nella zona del Delta dove la povertà è sempre esistita ed i neri hanno sputato sangue da sempre. Anche a Memphis tappa iniziale del mio viaggio al contrario ovvero dal rock n’roll al blues e non viceversa come la storia insegna, la crisi la vedi perfino nel centro città, a downtown, a pochi metri da Beale Street, una volta malfamato quartiere nero e oggi via turistica ( ma c’erano solo americani) dove si va a bere e a sentire il blues ed il rock n’roll suonato da piccole e gagliarde formazioni locali che riempiono locali come il Blues Hall, il B.B King Blues Club, il Blues City Cafè e altri juke joint disseminati lungo i suoi marciapiedi. Basta svoltare l’angolo e le luci al neon scompaiono, il downtown diventa semideserto anche di giorno, poche le persone che passeggiano, tanti i negozi sbarrati o in vendita, un’aria desolata investe il centro anche se non ci sono sensazioni di pericolo, piuttosto sembra che la popolazione sia drasticamente diminuita ed anche il traffico automobilistico scarso. Si vedono persone solo nelle tavole calde per impiegati ed in qualche ristorante annesso agli alberghi o nei Val-Mart a formato ridotto che vendono di tutto, dai calzini ai farmaci. Tra downtown e midtown, dove ci sono i quartieri residenziali dei bianchi, la situazione è ancora più triste, non-luoghi affiancati a palazzi e grattacieli in acciaio e vetro dallo stile hi-tech sono occupati da squallide sterrate che servono a parcheggio o aree dimesse che in un futuro più florido potrebbero ospitare altri palazzi. In questa terra di confine nessuno passeggia tranne alcuni homeless che camminano guardando fissi a terra senza la forza di chiedere qualcosa nemmeno quando le auto si fermano al semaforo. Il traffico urbano è irrisorio se confrontato a quello delle nostre città, si gira in macchina potendo guardare attorno con agio e cambiando stazione radio, una vera goduria dell’andare in macchina perché oltre le community radio in A.M che trasmettono in certi orari della giornata del fantastico blues ci sono le FM divise per decadi (dalla musica degli quaranta fino agli anni novanta) oltre a Elvis 24 ore su 24 e alla E-Street Radio con all Bruce live e in studio.
Oasi di vita sono i tanti musei dedicati alla musica, splendido quello della Stax in un quartiere che è meglio arrivarci in macchina e di giorno, il Sun Studios che è sulla Union una delle arterie che tagliano la città da est a ovest, il Rock and Soul Museum vicino alla fabbrica e allo store della Gibson che sono nei pressi di Beale St. ed il commovente e curato Museo dei Diritti Civili in Mulberry St. ritagliato dentro il Lorraine Motel dove il 4 aprile del 1968 nella room 306 fu assassinato Martin Luther King. Il Lorraine è ubicato vicino ad una delle zone più trendy (ma prendete questo aggettivo per quello che può valere a Memphis, nulla a che vedere con le zone alla moda milanesi e italiote) ovvero il South Main Arts District popolato da cafè, qualche libreria, negozietti di abbigliamento e ristoranti tra cui l’ Arcade, una folkloristica tavola calda autenticamente vintage sopravvissuta agli anni 50 dove fu girato il film Mystery Train di Jim Jarmusch.
I quartieri residenziali a Memphis sono a midtown, belle case unifamiliari della borghesia bianca con annesso verdi e rigogliosi giardini senza steccati e station wagon parcheggiata e ampi parchi ( tra cui l’Overton cantato dai Lucero) nelle vicinanze di centri di cura e università. Poplar Avenue è un’altra delle lunghe vie che tagliano in senso orizzontale Memphis, al numero 1931 c’è l’Hi-Tone, un rock-club frequentato da studenti che bevono birra in quantità industriale e appassionati di ogni età (a contrario dell’ Italia nei posti dove si ascolta musica c’è spesso un pubblico trasversale che non ti fa sentire come l’ultimo dei mohicani)dove mi è capitato vedere uno scoppiettante show di J.J Grey and Mofro introdotto da un gruppo texano di rock-soul psichedelico chiamato Jonathan Tyler and The Northern Lights molto sorpresi di trovare degli italiani in quel posto. All’esterno ho capito la gerarchia delle band: i texani che facevano da supporter avevano un piccolo van, J.J Grey un vero autobus con tanto di Tv e toilette.





(1 - continua)

mercoledì 27 ottobre 2010

John Hiatt Auditorium di Milano 25 ottobre 2010


Magistrale, straordinario, sono i due aggettivi che mi vengono in mente dopo aver assistito al concerto di John Hiatt and the Combo all’Auditorium, una venue finalmente all’altezza delle esigenze acustiche degli appassionati e dei paganti, un teatro completamente rivestito di pannelli di legno dove le onde acustiche trovano la loro collocazione migliore sovrapponendosi, interferendo e riflettendo nel più armonico dei modi. Ci voleva un ambiente simile per premiare un set eccellente come quello di John Hiatt che col bassista Patrick O’Hearn, il bravissimo chitarrista Doung Lancio e l’amico di cordata, il batterista Kenneth Blevins ha dato vita ad un concerto intenso e romanticamente old time valorizzando con un sound asciutto e chitarristico il suo ricco songbook. Titoli ormai diventati dei classici estratti dai suoi album del passato (in particolare Bring The Family, Slow Turning e Walk On) e brani recenti, quelli dell’acclamato The Open Road hanno beneficiato di arrangiamenti che li hanno rivitalizzanti secondo una veste ora semiacustica con tanto di chitarra del leader e mandolino da parte di Lancio (ad esempio una Crossing Muddy Waters pregna di umori country-blues ed una Tennessee Plates tirata country-rock) oppure sono stati macerati in un denso schiumare di blues come nella scura Like A Freight Train e nella delirante Memphis in the Meantime, uno degli assoluti highlights dello show. Un suono bluesato ha caratterizzato l’esibizione di Hiatt reso ancor più evidente dalla sua voce negroide ma anche uno sferragliare di chitarre rock quando si è assistito ad autentiche improvvisazioni strumentali come il lungo alla U2 di Real Fine Love o il finale jammatissimo di una colossale Riding With The King dove sembrava di avere di fronte (look permettendo) gli Stones dell’era Sticky Fingers.
Hiatt e si suoi soci hanno saputo stravolgere le canzoni in senso positivo offrendo loro quella dimensione live che è poi quella che si chiede quando si va ad un concerto e non ci si accomoda in poltrona ad ascoltare il disco in studio. Fenomenale l’intreccio delle chitarre, l’ acustica e la Telecaster di Hiatt e le numerose usate da Doug Lancio, un vero mago delle sei corde che si è sbizzarrito ora con le Gibson, ora con le Fender, ora con anonime e colorate cheap guitars, ora con una meravigliosa Gretsch di color arancio dal suono fifties, ogni volta aggiungendo sapori e delizie a canzoni che già di per sé sono dei capolavori. Perché la bravura di Hiatt al di là della sua voce forte, profonda, espressiva che si alza e abbassa di tonalità in un gioco di chiaro scuri sorprendenti che consente di passare dalle confidenza da crooner all’urlo del R&B e poi alle profondità del blues e della sua capacità di stare in scena come performer è proprio la ricchezza del suo scrivere, una serie impressionanti di storie, immagini e personaggi che da sole potrebbero raccontare l’avventura dell’animo umano. Canzoni diverse l’una dall’altra, ognuna riconoscibile, memorizzabile, tutte ricche di anima e sentimento. Sia che siano ballate del cuore come l’uggiosa Feels Like Rain, come la forte Cry Love, come la bucolica Walk On e come una riveduta Have A Little Faith con la chitarra, sia che siano quelle scoppiettanti cavalcate di Drive South, Perfectly Good Guitar, The Open Road, Slow Turning che offrono il lato più selvaggio e stradaiolo di Hiatt.
Tanti gli applausi ricevuti dall’artista e dal suo combo e tanti i ringraziamenti dell’artista verso un pubblico niente affatto numeroso, unico neo di una serata indimenticabile.

Mauro Zambellini Ottobre 2010

lunedì 11 ottobre 2010

John Fogerty > Centerfield


Se dovessimo valutare come è stata assemblata la riedizione del 25th Anniversary di Centerfield lasceremmo subito perdere perché con un disco simile era gioco forza aggiungere materiale ben più succulento delle due uniche bonus tracks, un brano di influenza cajun di Sidney Simien My Toot Toot, più volte esibito in concerto nei recenti tour ed uno di derivazione gospel, I Confess amato dal Fogerty giovane e proveniente dai misconosciuti Four Rivers. Per fortuna c’è l’album originario che è ancora un buon disco nonostante siano passati 25 anni dalla sua pubblicazione.
Centerfield è il secondo disco solista di John Fogerty dopo l’omonimo del 1975 e dopo l’escursione bluegrass del 1973 coi Blue Ridge Rangers. Un disco che ebbe una gestazione lunga e travagliata perché Fogerty ancora alle prese col boss della Fantasy Saul Zaentz con cui l’ex Creedence ebbe un lungo contenzioso riguardo il possesso, i diritti e l’ utilizzazione del proprio materiale. A Zaentz è dedicata una sarcastica e graffiante canzone, peraltro piuttosto scadente per via di una ritmica electro-dance che centra come cavolo a merenda, dal titolo Vanz Kant Danz titolo mutato dall’originale Zanz Kant Danz per questioni di querele. E’ l’unico episodio debole di un disco che presenta almeno tre grandi titoli del songbook di Fogerty ovvero The Old Man Down The Road una sorta di rinnovata Run Through The Jungle e poi Rock and Roll Girls con tanto di sassofono alla Clemons e Centerfield rutilante pop-rock che inizia come fosse La Bamba. E’ la canzone che titola l’album e sottintende alla passione di Fogerty verso il baseball, centerfield è difatti colui che nel baseball gioca in difesa al centro dell’area denominata campo esterno tra l’esterno sinistro e l’esterno destro. Ma centerfield è il centro del campo della carriera di Fogerty, simbolicamente indica il lavoro che sta a metà della sua avventura artistica e discografica, tra l’era Creedence degli anni ’70 ed il ritorno alle scene discografiche degli anni novanta con Blue Moon Swamp.
I legami coi Creedence in Centerfield sono marcati da Big Train (From Memphis) che potrebbe appartenere a Willie and The Poorboys, da I Saw It On T.V è una ballata nostalgica che ha qualche vaga relazione con Have You Seen The Rain e Mr.Greed un focoso R&B urlato a squarciagola, oltre a Searchlight uno swamp-rock di origine born on the bayou.
Fogerty nel disco fa tutto da solo, scrive le canzoni, le canta, suona tutti gli strumenti e produce. Il nuovo contratto con la Warner Bros. gli aveva dato nuova energia e motivazioni, aveva finalmente il pieno controllo sulla propria musica e nonostante l’iniziale diffidenza verso la nascente Mtv acconsentì anche alla realizzazione di un video promozionale. I risultati furono immediati: sebbene fosse lontano da dieci anni dal mercato Centerfield andò immediatamente in cima alle classifiche di Billboard.
Purtroppo la ristampa si limita a proporre il materiale originario con sole due bonus tracks , la simpatica My Toot Toot registrata in Louisiana con il fisarmonicista Rockin’ Sydney e altri luminari della musica cajun e la pregnante I Confess, uno sconvolgente brano gospel registrato con l’ausilio del sassofonista Steve Douglas e le voci di Bobby King, Terry Evans, Willie Green.

MAURO ZAMBELLINI

lunedì 4 ottobre 2010

Southside Johnny and The Asbury Jukes > Pills and Ammo


Southside Johnny and The Asbury Jukes > Pills and Ammo Floating World Records

Era da Better Days del 1991 che Southside Johnny non faceva un disco così forte, determinato, diretto. Un disco che lo riporta agli antichi splendori quando con i Jukes rappresentava il lato sguaiato, focoso e R&B della musica del Jersey Shore. Better Days prodotto da Little Steven con la partecipazione attiva di Springsteen e di alcuni E-Streeters lo si ricorda ancora oggi come un disco di rock tosto e ricco di belle canzoni e l’affondo nel blues dell’ora tardi di Messin’ With The Blues del 2000 prodotto da Garry Tallent aveva il pregio di mostrare una faccia più intima e notturna del soulman del New Jersey. Pills and Ammo sintetizza con maestria e modernità quei due album, da un lato il rock-soul esuberante ed arrembante di Lyon urlato con l’ugola arsa dall’whiskey e amplificato da una sezione fiati che unisce Stax sound e Muscle Shoals horns, dall’altro lato le venature blues e le chitarre di Bobby Bandiera e Andy York ( il chitarrista di Mellencamp) abili nell’infilarsi negli spazi vuoti lasciati dalla sarabanda fiatistica degli Asbury Jukes. Il risultato è una miscela incandescente di rock, soul e blues al servizio di canzoni perfettamente riuscite nel loro intento ovvero far divertire, bere, ballare, sudare, intenerire come in una revue di qualche big band degli anni quaranta e cinquanta.
Mirabile la produzione di Lyon e del pianista Jeff Kazee che con oculata misura ed eleganza riescono a fare di Pills and Ammo un disco ridondante di suoni e stringato di arrangiamenti, niente bolse coreografie quindi ma la prova che si può realizzare un disco con undici musicisti più coristi e coriste, tra cui la prorompente Lisa Fischer (Stones e Tina Turner) senza soffocare le canzoni. Le quali sono tutte di ottima fattura, frutto del sodalizio tra Lyon e Kazee.

Harder Than It Looks apre la festa ed è subito chiaro che frizioni non ne esistono e l’insieme tra l’imponente suono delle trombe e dei sax, la voce di Southside, una sezione ritmica che si sente e le chitarre, è impressionante e travolgente.
Soul-rock di prima classe come Cross That Line dove le chitarre e le coriste urlano la volgarità degli Stones ed il piano è un orgia memphisiana.
Meno orchestra e più combo in Woke Up This Morning un blues cha sa di Chess Records con Southside che soffia nell’armonica il vento di Chicago e Andy York che gli risponde slidando il Delta blues. Quello che Southside aveva imparato in Messin’ With The Blues qui è messo in mostra in tutta la sua caustica bellezza. Se Lead Me On mette a nudo l’arrendevolezza dell’uomo che chiede alla propria amata un'altra chance ed è una canzone d’amore dai toni dolci, Heartbreak City è puro, sporco, elettrico R&B con un riff di chitarra assassino alla Primal Scream e voci in preda alla follia della città. Dollari, donne, strade e peccati. Punk-R&B rabbioso e duro prima della calda e malinconica Strange Strange Feeling. Qui gi strumenti sono puliti, mixati con grande amore e cura, la voce è confidenziale mentre è istrionica nella ironica Umbrella In My Drink dove c’è un duetto con Gary U.S Bonds e il mood è quello di uno sbilenco, allegro e bislacco New Orleans sound shakerato dixieland.
One More Night To Rock è un rockaccio diretto e tirato a mille, con i fiati indemoniati e l’armonica che si sposa con la voce di Lisa Fisher in un torrido R&B che piacerebbe sia a Jagger che a Richards.
Chiudono le danze A Place Where I Can’t Be Found una ballata stile Van Morrison, il pirotecnico Keep On Moving un salto negli anni ’50 tra Jerry Lee Lewis e Chuck Berry e Thank You ideale e delicata conclusione del disco.
Pills and Ammo è un disco tatuato dentro il DNA di Southside Johnny e i suoi Asbury Jukes ma non per questo è rivolto nostalgicamente al passato pur rispettando la completa genealogia del rock n’roll e del R&B, piuttosto dimostra come Southside Johnny sappia ancora inaspettatamente sorprendere in quel confine tra soul e rock che ormai conta pochi adepti.

Mauro Zambellini Ottobre 2010

martedì 28 settembre 2010

Old Rockers Never Die


Come succede nella cinematografia anche nel rock è venuta a mancare quella che in un lontano passato definii come la Serie B ma col coltello tra i denti. Escono tanti film grandi e grossi, in genere di produzione hollywoodiana, alcuni belli altre sonore bufale o semplici blockbuster per gonzi e giovinetti ma quei filmetti di serie B, molti noir, altri road-movie, qualche commedia ed un paio di western fuori tempo massimo, mancano all’appello se si eccettua qualche film di James Gray (Little Odessa, Two Lovers, I Padroni della notte) oppure il recente State of Play di Kevin McDonald o qualche altro mohicano fuggito all’eccidio. Perché di eccidio si tratta, i produttori non investono più sui film di mezzo, quelli che con un budget ridotto possono dare risultati sorprendenti (l’archetipo è Easy Rider) probabilmente perché non esiste più un pubblico disponibile e recettivo per un tale prodotto o meglio opera artistica. Quei film che si vedono senza mangiare popcorn e bere Coca Cola, che in genere si da soli al cinema a vederli perché nemmeno la fidanzata sa dell’esistenza e che non possono permettersi il tormentone televisivo con cui vengono lanciati, niente spot o strillo in siti internet. Roba da cinephiles ma anche questo tipo di fauna è cambiata perché al vecchio, caro filmetto americano indipendente o semi-indipendente questi preferiscono l’ultima palla di qualche staterello africano o il dramma neo-realistico di una storia asiatica che in Italia è stata raccontata 50 anni fa. Li facessero uscire i B-movie in DVD un modo per salvarsi ci sarebbe ma questo sembra succedere solo in parte negli Usa perché da noi gli scaffali dei vari noleggiatori sono spietatamente invasi sempre e solo dagli stessi titoli e dagli stessi attori e anche se si ha l’intrepido coraggio di stare svegli fino alle 3 e 45 anche la Tv non aiuta.
Per il rock è più o meno la stessa cosa, pur non in modo così radicale. Passati gli anni o anche i decenni in cui si viveva con una sana, splendida ed esaltante serie B adesso si è nel baratro ed il salvagente sembra lanciarlo qualche sopravvissuto degli anni 60 che in barba alla propria età ancora fa musica. E meno male che ci sono loro.
Per più di un decennio, a parte qualche nome da novanta come Springsteen, Dylan, Mellencamp, Petty, si è vissuto soprattutto coi gregari che non erano gli avanzi del sistema ma bensì quelli che in termini di creatività, feeling, autenticità offrivano linguaggi, modi, attitudine e stimoli al rock che da loro prendeva la benzina per poter continuare la propria corsa. Negli anni ottanta ci furono i Dream Syndicate, i Blasters, i Green On Red, i Beat Farmers, Joe Ely, Steve Earle, i Los Lobos, i Del Fuegos, i Del Lords, tanto per citarne qualcuno e negli anni novanta i Gin Blossoms, gli Uncle Tupelo, Wilco, i Son Volt , Slobberbone, Todd Snider, i Jayhawks, Whiskeytown, Alejandro Escovedo, Joe Henry, James McMurtry, Blue Mountain, Black Crowes ancora per citarne qualcuno e tuuti questi riempivano i nostri ascolti senza che si sentisse il bisogno di ricorrere alla seria A o almeno facevano da base continua, permanente, assidua, insistente a quello che era il verso sentire del rock, il suo cuore, il suo sangue, salvo poi ubriacarsi con Springsteen quando veniva in tour o appassionarsi a qualche album degli U2 o sperare che Dylan fosse di luna buona.
Adesso non è più così, consumata l’ondata che è andata a rimorchio dell’alternative country e del roots-rock da cui per fortuna sono usciti gli unici che tengono ancora a galla l’eroica Serie B col coltello tra i denti ovvero Drive By Truckers, Lucero, Ryan Adams, Calexico, Ray LaMontagne, Cracker più qualche jam.band come Dave Matthews e Gov’t Mule (oltre naturalmente agli inossidabili Black Crowes che hanno saputo rinnovarsi senza perdere l’anima), di outsider in grado di dare linfa al nuovo/vecchio rock n’roll o almeno di segnalare una possibile strada secondaria in cui vivere qualche sogno di rock n’roll non se ne vede neanche l’ombra e così per riflusso e riflesso si è tornati a ridare fiducia a vecchi rockers che per fortuna non sono morti e continuano l’onesto loro lavoro. Probabilmente fossimo ancora negli novanta gli ultimi dischi di Robert Plant, in particolare Band Of Joy e il Clapton omonimo di questi giorni nemmeno li avrei comperati tanto avevo di altro per sollazzarmi. Avrei avuto di meglio da sentire e altri titoli su cui investire il mio tempo e i miei soldi, dischi e artisti con grinta da vendere, fame di arrivare, energia da spendere, idee da mostrare, passione da condividere.
Serie B insomma ma col coltello tra i denti.
Ed invece nella penuria di squadre agguerrite, giovani e pimpanti come quelle offerte da una battagliera serie minore mi tocca tornare genufletto al tempio del rock e godere, in realtà piuttosto freddamente e con un orgasmo ridicolo, di gente che preferivo quando urlavano l’hard-rock o facevano il blues dei crossroads o cantavano di Zuma.
Plant, Clapton e Young sono solo un esempio, perché sono gli ultimi in ordine di apparizione e i loro dischi poi non sono affatto male, anzi, forse un po’ troppo eleganti, formali e pensionistici per i miei gusti (per il Neil Young di Le Noise il discorso è diverso e lui dovrebbe prendere esempio da Dylan, fare meno dischi e gestire meglio l’ispirazione) ma i tempi sono cambiati e visto l’aria che tira in tutti campi specie in quello politico, è forse meglio avere qualche vecchio saggio che sa cosa fare che qualche rampante che si crede il futuro del rock n’roll o il salvatore della patria.
Certo è una vita che al massimo si sorride ma non si ride più.

Mauro Zambellini

giovedì 23 settembre 2010

Ron Wood > I Feel Like Playing


Il ragazzaccio è tornato a fare dischi, il suo settimo come solista, il primo dal 2001
e ha invitato alla sua festa Slash, Flea dei Red Hot Chili Peppers, Billy Gibbons degli ZZ Top, Ian Mc Lagan e i maestri del country e del soul Kris Kristofferson e Bobby Womack. Non ha mai fatto dischi memorabili Ron Wood e nemmeno questo lo è ma c’è una onestà nella sua musica che contrasta col suo essere rockstar, con la sua vita dissipata e glamour, con la sua sovraesposizione mediatica. E’ quell’amore verso il rock n’roll originario, verso le radici blues e la passione soul che anima le sue canzoni e la sua musica e si traduce in un allegra rappresentazione del rock come l’ hanno inventata i Faces e portata al successo gli Stones. Un disco di Wood non è poi così diverso da uno degli Stones, solo che manca la band ed è come togliere il pecorino dalla carbonara. Manca il quid che rende unico ed originalo il piatto anche se, come accade qui, il menù non è certo scadente, anzi si lascia gustare con estremo piacere, non è una cosa da grandi chef parigini ma se la trattoria è questa ci torno anche domani.
I Feel Like Playing è divertente e onesto, un disco da corsaro del rock con tutto quello che comporta in termini di it’s only rock n’roll but we like it. Basta accontentarsi di divertirsi, ballare, sorridere e qualche volte pensare, come accade nella bellissima ballata iniziale Why You Wanna Go and Do A Thing Like That For una ballata romantica e crepuscolare, cantata alla Dylan e suonata come facevano gli Stones in Tattoo You, una ballata che scivola addosso sulla pelle e scalda come il sole del sud. Ci sono altre ballate nel disco ma questa è veramente super, roba che nemmeno gli Stones fanno più. Ma oltre il cuore è il Ron Wood gaglioffo e smargiasso a tenere banco, quello di Thing About You un rockaccio un po’ glam scelto come singolo o quello aromatizzato reggae di Sweetness My Weakness, imitazione delle giamaicate di Keith Richards oppure di Lucky Man altro pezzo da novanta e ancora quello blues di una sincopata e funky Spoonful e del più tradizionale I Gotta See che altro non è che una trasposizione di I Got The Blues dei Rolling Stones. Torrido il finale con la sarabanda elettrica di 100%, punteggiata dalle venature blues dell’armonica e con i suoni acidi della rovente Fancy Pants misto di Pearl Jam e BoDiddley prima del romantico film da strada di Tell Me Something che chiude il disco con un bel assolo di chitarra.
Dodici le tracce di I Feel Like Playing ognuna con un Ron Wood diverso e divertito e con un paio di ballate che ricordano da vicino il Peter Wolf di Midnight Souvenirs. L’artwork di copertina è dello stesso Wood.
Uno di quei dischi fatti per infilare in macchina e guidare contenti magari pensando a quel nasone, a quell’improbabile taglio di capelli e a quella simpatica faccia da schiaffi che è Ronnie, uno dei pirati del rock n’roll ancora in circolazione.

Mauro Zambellini Settembre 2010

mercoledì 22 settembre 2010

vintage: i più selvaggi del 1979


Da Il Mucchio Selvaggio degli ani settanta: i più selvaggi del 1979, di Mauro Zambellini

Bop Till You Drop - Ry Cooder
Lubbock - Terry Allen
Lost In Austin - Marc Benno
Dancing In Dragon's Jaws - Bruce Cockburn
Farewell To Winterland - Grateful Dead
Live In The Promised Land - Bruce Springsteen
Live In Philadelphia - Dire Straits
Tom Verlaine
Down On The Farm - Little Feat
Mingus - Joni Mitchell
Fretless - Chris Darrow
How Cruel - Joan Armatrading
I'm The Man - Joe Jackson
Specials
Reggatta de Blanc - Police

lunedì 30 agosto 2010

25 Southern Songs (vol. 1)


Down South Jukin’ : Lynyrd Skynyrd
Call Me The Breeze : Lynyrd Skynyrd
Simple Man : Lynyrd Skynyrd
That Smell : Lynyrd Skynyrd
Midnight Rider : Gregg Allman

The Devil Went Down to Georgia : Charlie Daniels Band
Spooky : Atlanta Rhythm Section
Blue Sky : Allman Bros Band
Southbound : Allman Bros Band
Jessica : Allman Bros Band

Bougainvillea : Dickey Betts and Great Southern
Can You See : Marshall Tucker Band
This Ol’Cowboy : Marshall Tucker Band
Dixie Chicken : Little Feat / featuring Mandolin Brothers
Hot Nights In Georgia : Jason and The Scorchers

Hotel Illness : Black Crowes
Wiser Time : Black Crowes
All Over But The Cryin’ : Georgia Satellites
Drive South : John Hiatt

Angry Southern : Gentlemen Terrell
The Day John Henry Died : Drive By Truckers
Easy Money : Todd Snider
Shake Em On Down : North Mississippi Allstar
Sweet Virginia : Rolling Stones

martedì 17 agosto 2010

The Black Crowes > Croweology


I Black Crowes festeggiano il ventesimo anniversario del loro debutto, Shake Your MoneyMaker risale al 1990, con Croweology un doppio album nel quale il gruppo sudista rivede il proprio songbook in chiave acustica. Brani storici come Jealous Again, Remedy, Hotel Illness, Ballad In Urgency, Wiser Time, She Talks To Angels, Morning Song, Thorn In My Pride, Non-Fiction provenienti dagli album migliori della loro discografia ( Money Maker, The Southern Armony and Musical Comapnion, Amorica) ma ci sono anche tracce di Three Snakes And One Charm (Under A Mountain , Good Friday, Girl From A Pawnshop ) e Lions (Soul Singin)sono rivisti in una veste acustica che mette in rilievo l’anima roots ed il loro profondo legame con la tradizione della musica del sud.
Anima roots che sembra essere predominante nelle ultime prove del gruppo della Georgia visto quello che i Crowes hanno fatto con lo splendido Before The Frost… Until The Freeze e nel DVD Cabin Fever Winter Winter 2008 dove nello studio di Levon Helm in mezzo alle innevate montagne di Woodstock la band si è immersa in una atmosfera che a tanti ha ricordato quella della Band di Music From a Big Pink e dei Traffic della campagne del Berkshire. Ancora una volta il rock mischiato alle radici della musica americana, al blues, al country, al bluegrass, al folk con un approccio di basso profilo molto diverso da quello che aveva accompagnato i Black Crowes agli esordi, quando addirittura venivano messi in cartellone nelle adunate e nei festival metal.
Il tempo è stato dalla loro parte, i Black Crowes si sono rivelati una potente rock n’roll band e poi, dopo un periodo di silenzio, hanno avuto il coraggio di cambiare e con l’innesto del chitarrista Luther Dickinson al posto di Marc Ford hanno maturato un sound dalle forti implicazioni roots, un sound con tante sfumature, legato alle radici della musica americana senza per questo venir meno a quella verve rock che si sente nel modo in cui compongono le canzoni e le interpretano.
Per certi versi assomigliano ai migliori Stones di fine anni 60/inizio anni 70, a loro dire i punti di riferimenti di questa evoluzione sono stati Beggar’s Banquet ed il terzo album dei Led Zeppelin, quello delle connessioni con il folk, ma il batterista Steve Gorman cita anche Every Picture Tells a Story di Rod Stewart e personalmente ci trovo molto di The Band e di Delaney and Bonnie and Friends oltre agli Allman Brothers più pastorali, quelli per intenderci degli episodi acustici di Eat A Peach, come sembra testimoniare il meraviglioso arrangiamento della magnifica Wiser Time un brano di Amorica che mi ha sempre trasmesso un senso di pace, di rilassatezza, di bucolica contemplazione, di sognante road movie anni ’70.
Croweolgy è un bellissimo disco, un doppio album (come d’altra parte Before The Frost… Until The Freeze) nello stile dell’epoca d’oro del rock frutto di una registrazione sbrigativa effettuata in soli cinque giorni ai Sunset Studios di Los Angelus suonando in diretta come fossero dal vivo. L’idea di tale progetto era venuta ai Black Crowes dopo un doppio show acustico tenuto nel 2008 alla New York Town Hall. La riuscita degli show, il coinvolgimento del pubblico e la sfida con sé stessi aveva indotto il gruppo a concretizzare quell’idea così che oggi abbiamo a disposizione una performance eccelsa che dimostra la bravura dei singoli musicisti e la loro versatilità nel ridare nuova vita a vecchi brani, nel riarrangiarli e nell’offrire con strumenti acustici (splendide le chitarre e favoloso il pianoforte) un appeal davvero coinvolgente, sebbene privo della febbricitante urgenza elettrica di Robinson e soci. Un operazione che conferma la grandezza di questa band, secondo chi scrive il miglior gruppo rock in senso classico uscito dagli anni novanta, ritornato alla ribalta negli ultimi anni dopo un periodo di stallo e oggi in grado di far rivivere il grande rock degli anni settanta tra liberatorie esplosioni di cruda elettricità, sprazzi di psichedelia e intense ballate calde come un camino d’inverno. Croweology è il disco che ci vuole per affrontare l’autunno, quest’anno purtroppo in netto anticipo .

Mauro Zambellini Agosto 2010

venerdì 6 agosto 2010

Piece of My Heart: Willy DeVille 1950-2009


Il 6 agosto di un anno fa se ne andava definitivamente il più grande soulman esistito dopo la morte di Otis Redding. Una perdita colossale per quanti, come me, avevano amato la sua musica, il suo charme sinistro e gaglioffo ed il suo essere originale, scomodo, coraggioso, pericoloso, controcorrente, vero. Un anno senza Willy De Ville è come un anno senza campionato di calcio, manca qualcosa, anche a quelli che il calcio non lo seguono. Ci sono rimasti i suoi dischi e le sue registrazioni a consolarci, pur rattristati dal sapere che l’avventura è finita per sempre, documenti immortali di un artista che è stato tanto amato quanto ignorato. Nessuno nei dodici mesi trascorsi, tra i suoi colleghi e nel mondo musicale, ha speso parole per lui e per la sua musica, magari solo ricordandolo o dedicandogli qualche tributo (ne meriterebbe più di uno) come si fa attualmente per l’ultimo dei bovari degli Appalachi travolto da un trattore o per qualche misconosciuto “maudit” del rock alternativo morto per overdose. Si sono scritti fiumi di inchiostro su Michael Jackson ma su Willy niente, zero. Una vergogna, la dimostrazione di cosa sia diventato il mondo in cui viviamo. Uno schifo. Una eccezione c’è ed è una grande eccezione, Peter Wolf ex cantante della J.Geils Band, un signore, un nobile, un personaggio di altri tempi e di altri cuori, oltre che grande cantante e indomabile rocker, ha scritto una splendida e romantica ballata, The Night Comes Down (for Willy DeVille) sulla falsariga di quelle gemme che Willy cantava in Return To Magenta o Le Chat Bleu ovvero luci capaci di rischiarare un umida e buia notte newyorchese. Fa parte del menù di Midnight Souvenirs un disco che è un delitto non avere, uno dei migliori CD di questo 2010, un disco che è una stretta al cuore e rende giustizia sia alla bravura di Wolf che all’arte di Willy.
Questo che segue è un lungo articolo che scrissi dopo la morte del gitano, già pubblicato sul numero di ottobre 2009 del Buscadero. Mi è sembrato opportuno rimetterlo in circolazione ad un anno da quel funesto giorno, magari a qualcuno farà piacere.


Quando lo vidi da vicino la prima volta nel 1981, intervistato nella room 329 del Chelsea Hotel di New York oltre alla soggezione provai vera paura. Ci aveva aperto la porta della stanza Toots, una tipa a piedi scalzi con un trucco pesantissimo ed un turbante di capelli tipo Ronettes, labbra rossissime e denti d’oro su tutta l’arcata. Uno shock. Lui era seduto su una poltrona, magro, vestito di nero, con un ciuffo alto e sporgente, gli orecchini e qualche dente da 22 carati. Anche nell’intimità di una camera aveva un magnetismo ed un carisma straordinario, le sue movenze lente e raffinate intimidivano, la sua voce bassa, profonda, rotta solo da qualche rancida risata, mi ipnotizzava, il suo savoir faire aveva qualcosa di principesco. Si vedeva che era “fatto” ma era lo stesso magnifico e signorile, era una star nel vero senso del termine, aveva i modi di una diva del cinema, un personaggio da romanzo ottocentesco. Sembrava un moschettiere cresciuto in una improbabile corte di Salvador Dalì, non era ancora un gitano. Era pericoloso, lo si vedeva al volo. Ad un certo punto, dopo che Toots lo aveva irrorato di profumi, spruzzati da una boccetta presa da un comò, Willy si era alzato, aveva impugnato un bastone intarsiato col manico d’avorio, ne aveva sfilato una parte e ne aveva mostrato la sottile spada e con una mossa repentina aveva mimato “il tocco”. Questo è il Coup de Grace, aveva detto, con quella sua risata sarcastica, acida, inquietante, è l’esecuzione con cui la mafia mette a tacere i suoi delatori, voi che siete italiani dovreste saperlo bene.
Era il 27 agosto del 1981, una giornata di afa bestiale a New York, pioveva ma era la pioggia estiva dei condizionatori d’aria impazziti, la condensa di una città morsa dal caldo. Due mesi dopo, nell’ottobre dello stesso anno, quando l’estate (e New York) erano ormai un ricordo lontano, nei negozi di tutto il mondo usciva Coup De Grace uno degli album più rock di Willy DeVille allora ancora sotto il nome Mink DeVille, un album fortemente influenzato dal sound del Jersey Shore di Bruce Springsteen e Southside Johnny.
Nel corso degli anni ho visto, incontrato e parlato numerose volte con William Paul Borsey Jr. alias Willy De Ville ma quell’incontro mi è rimasto stampato nella memoria, come se fosse avvenuto ieri. Quando il 7 agosto di quest’ anno ho saputo della sua morte ho sentito una stretta al cuore, un senso di vuoto mi ha lasciato attonito. E’stato il primo artista che ho intervistato, era un artista che, non qualche difficoltà, gli si poteva arrivare vicino, non viveva circondato da una barriera di addetti ai lavori che ne impediva il contatto. A volte era sfuggente, infastidito, assorto nei suoi problemi ma, al di là dei suoi look pittoreschi e teatrali e dei suoi modi da diva, quando era di umore giusto parlava a briglia sciolta di qualsiasi cosa, dalla musica all’arte, dall’ architettura ai cavalli, dai vestiti alle città. L’ho seguito sempre e comunque, attraverso i suoi concerti, i suoi dischi, le sue interviste e conferenze stampe. E’stata una parte importante del mio cammino nel rock n’roll. Willy De Ville è stato un personaggio senza eguali oltre che un grande cantante, un grande performer ed un grande autore e attore. Per molti di noi, sebbene non fossimo musicisti, è stato una sorta di maestro, nessuno come lui ci ha insegnato a catturare le emozioni con la musica e a dare bellezza ad una sporca storia di strada o ad una tormentata vicenda d’amore. Lui ci ha portato nell’inferno della Lower East Side facendoci capire di quanta umanità fosse possibile il ghetto e ci ha catapultato nel cuore di New Orleans, immergendoci nei suoi misteri e nei suoi ritmi. Ci ha insegnato che per essere un cantante soul ci vuole l’anima e non il colore della pelle e che una voce, seppur aspra, ed una canzone in certi momenti possono essere la migliore consolazione contro la solitudine, la mancanza di denaro e il dolore. Ci ha insegnato che il rock n’roll è come la vita, puoi avere talento ma non è detto che avrai successo.
Di talento Willy ne aveva da vendere. Coup de Grace segnò il rientro a New York di DeVille ed un nuovo contratto discografico con la Atlantic voluto da Ahmet Ertegun, uno degli uomini più importanti di tutta la storia del r&b in America. Dopo due dischi nudi e crudi come Cabretta e Return To Magenta (1977/78) che avevano rimesso in gioco una serie di suggestioni come Brill Building sound, uptown soul, Phil Spector, Jack Nitzsche, spanish harlem, Drifters e Dion, Willy DeVille era entrato in contatto con uno dei più grandi autori di musica americana, Doc Pomus che ne era rimasto folgorato ed aveva visto in lui l’incarnazione del perfetto soul singer, un cane randagio con i modi del bullo che con uno slang mezzo portoricano riportava in auge i Drifters.
Confuso tra le orde di punk ed il rock al vetriolo del Cbgb, un club dove Mink DeVille per un paio di anni fu attrazione fissa assieme a Ramones, Patti Smith, Television e Talking Heads, Willy cambiò improvvisamente scenario e se andò a Parigi convinto di poter registrare nella ville lumiere il suo grande album, quello che lo avrebbe consacrato nell’olimpo del rock. Pensò in grande ma non tenne conto dell’ignoranza dei businessmen dell’industria discografica. Si affidò per gli arrangiamenti orchestrali a Jean Claude Petit, l’uomo che era stato dietro Edith Piaf, usò il sassofonista di Phil Spector Steve Douglas e la sezione ritmica di Elvis Presley ovvero il batterista Ron Tutt ed il bassista Jerry Scheff, oltre ai suoi buddies, il chitarrista Louis X. Erlanger, responsabile della infarinatura blues del Mink DeVille group ed il tastierista e fisarmonicista Kenny Margolis, un musicista che affiancherà Willy fino alla fine della sua carriera. Il risultato fu un disco che i francesi definirono superbe, intenso, passionale, ricco di swing e di sfaccettature cajun, con aperture liriche verso la chanson francese, in particolare Edith Piaf. Un album superlativo, uno dei suoi più belli, denso di un romanticismo che esala il fascino della Parigi delle caves, dei bistrot e anche dei blouson noirs, visto i riferimenti a Gene Vincent. Un omaggio a quella cultura europea che Willy, nato da madre indiana (pequot) ma con discendenze basche ed irlandesi, ha sempre avuto nel suo dna. La Capitol americana non seppe che farsene di un disco così, da Parigi si aspettavano che arrivasse un disco di new-wave alla moda, (“ma come? Questo non è punk, non è musica americana, mi dissero “i’m not american, i’m newyorker gli ho riposto e così è finito il mio contratto con la Capitol) gli europei invece andarono in giuggiole e lo incoronarono disco di culto per eccellenza. Venne pubblicato in Europa nel 1980, solo più tardi verrà pubblicato negli Stati Uniti.

Non era comunque la prima volta che Willy tradiva New York, la sua città adottiva, era nato difatti nel 1950 a Stamford, nel Connecticut “una città di fabbriche dove tutti lavorano e aspettano di morire”. A ventanni dopo qualche fallito tentativo di crearsi una band aveva pensato bene di trasformare una gang di teppisti di strada in rock n’roll band, il che spesso è la stessa cosa, chiamandola The Royal Pythons e con questi se ne era andato sulla west-coast a cercare fortuna perché in quei primi anni settanta non c’era niente di veramente interessante a New York se non vedere quegli scoppiati del flower power che adesso si iniettavano anfetamina e giravano come zombie nella Notte dei Morti Viventi. Nel 1974 è a San Francisco che DeVille fonda il primo nucleo di quello che sarebbe diventato Mink DeVille col bassista Ruben Siguenza, il batterista Tom “Manfred” Allen, il pianista Ritch Colbert ed il chitarrista Fast Floyd. Il primo nome affibbiato al gruppo è Billy DeSade & The Marquees ma con l’introduzione del chitarrista Louis X.Erlanger le cose cambiano ed il ritorno alla città madre è un atto dovuto. Mink DeVille diventa fisso al Cbgb (ci davano 150$ a sera da cui ci detraevano le spese per il bere, in pratica suonavamo gratis), sulla Bowery soffia il vento del punk ma Willy ama Muddy Waters, John Lee Hooker e John Hammond Jr. il cui disco del 1965 So Many Roads è quello che gli cambia la vita.
Gli anni del Cbgb (sulla raccolta della Atlantic Live At Cbgb c’è una ballata dall’inconfondibile lezzo rollingstoniano, Cadillac Moon che Willy non ha mai più cantato ma che, a parere di chi scrive, rimane uno dei suoi highlights sconosciuti) sono alle spalle da un pezzo quando ritrovo Willy DeVille per la seconda volta. E’ a Piazza Vetra il 19 luglio del 1982 durante la rassegna Milano Suono, un festival col sottotitolo di Inventario dei percorsi musicali nelle metropoli degli anni ottanta organizzato da Radio Città e dalla giunta socialista. La pomposità del sottotitolo presuppone che nella stessa serata siano in cartello le performance di Siouxsie and The Banshees, Echo & The Bunnymen e per ultimo, all’una di notte per uno show di soli 40 minuti visto le proteste degli abitanti della zona, Mink DeVille. Ci sarebbe dovuto essere anche Angelo Branduardi ma per fortuna la sua esibizione saltò. Lo show di Mink DeVille fu interrotto all’una e trenta dall’arrivo della polizia chiamata dalla gente del Ticinese. Willy scese dal palco incazzatissimo, non conosceva ancora l’ italian style ovvero l’abitudine ad usare il rock and roll per fini meramente elettorali. Già prima del concerto non era lo stesso rilassato DeVille del Chelsea Hotel. Avvicinatomi alla roulotte che fungeva da camerino e tentato vanamente di parlargli avevo trovato un uomo nervoso e ansioso che cercava qualcos’altro che non fosse parlare del suo lavoro. Voleva la droga, me lo fece capire apertamente. Forse non aveva tutti i torti, essere relegato a notte fonda in un parco sorbendosi le esibizioni di quei dark inglesi deve essergli sembrato insopportabile se non offensivo. Ma nonostante le condizioni al contorno Willy in divisa d’epoca ovvero giacca e pantaloni attillati neri, stivaletti alla Beatles, cravattino stretto e camicia viola emozionò quanti lo avevano aspettato con impazienza fino a quell’ora. Il suo primo show milanese fu introdotto dallo strumentale Harlem Nocturne e poi, dopo le rose rosse buttate al pubblico, con le maracas in mano Willy aveva sciorinato la danza sinuosa di Slow Drain per poi passare ai pezzi forti del suo set, a Savoir Faire, Cadillac Walk, She’s So Tough, Spanish Stroll, alla ballata Just Your Friends e a Love & Emotion l’ ultimo arrivato da Coup de Grace. Un sound secco, tagliente, rocknrollistico, il Mink DeVille di New York City. Poi, dopo una sferzante versione di Lipstick Traces ecco la polizia e tutti a casa con l’amaro in bocca.
La volta successiva che lo vedo è un concerto grandioso, vigoroso e potente, carico di passione e di tosto r&b urbano. Il suo miglior concerto italiano dell’era Mink DeVille. E’ il 6 giugno del 1984 e in circolazione c’è Where Angels Fear To Tread altro disco della scuderia di Ertegun che a contrario del precedente non gode della produzione dell’amico Jack Nitzsche, l’uomo che ha saputo in tempi diversi offrire a Willy sempre il sound giusto. E’ un disco ispirato ma non ha l’immediatezza di Coup De Grace nonostante includa quello che sarà il tormentone Demasiado Corazon, una ballabile salsa-rock che lo porterà anni più tardi, ahimè, negli studi Mediaset. Nuoce ad Angels quell’aria un po’ compiaciuta di chi si sente sul palcoscenico come una Billie Holiday al maschile ma finalmente DeVille può sfruttare il momento favorevole. L’Atlantic gli aveva dato la possibilità di ripulirsi un pò, di risolvere i problemi con la sua vecchia band e di ricostruirsi una carriera ed una immagine, in parte compromessa dalle sue pericolose abitudini, almeno negli Stati Uniti. Quelli tra il 1982 ed il 1985 sono anni positivi per Willy ed il suo nome esce dalla cerchia degli “specialisti”per fare il giro d’Europa dove i suoi dischi vendono abbastanza bene e la sua musica viene accomunata al nuovo emergente mainstream rock che monta dal New Jersey.
Quando arriva a Milano il Teatro Tenda è gremito, lo sparuto nucleo di appassionati che lo aveva atteso fino a notte fonda qualche anno prima a Piazza Vetra è diventato una folla. Lo strumentale Goodbye Pork Pie Hat di Charlie Mingus prende il posto di Harlem Nocturne e dopo l’overture arrivano sia le immancabili rose rosse per le “signore” delle prime fila che questo affusolato ganzo ricain con la sigaretta infilata tra le labbra a mò di gangster e la stretta giacchetta nera ormai lisa da rocker degli anni ’50. Lo show è sontuoso, la band conta sui servigi di Kenny Margolis, Rick Borgia e Louis Cortellezzi ovvero il cuore pulsante di Mink DeVille, il suono è una frustata di rock n’roll al serramanico con venature blues, soul e latin. Vanno in scena per la prima volta (in Italia) Each Words Beat Of My Heart, Lilly’s Daddy Cadillac e Demasiado Corazon che mette a ballare tutto il Tenda. Willy è padrone della città ma non dimentica gli intenditori del soul, accenna a Save The Last Dance for Me e a Spanish Harlem presi dal repertorio di Ben E.King, all’epoca uno dei suoi cantanti di riferimento.

Quando lo si rivede di nuovo parecchia acqua è passata sotto il ponte. Consumato il suo feeling con Doc Pomus con un album, Sportin’ Life, piuttosto scadente e sovraprodotto e tentata la carta della collaborazione illustre con Mark Knopfler sfociata nel contraddittorio Miracle, bello per chi scrive ma poco amato dall’autore e dal pubblico in generale, Willy DeVille nel 1988 aveva lasciato l’amata New York per trasferirsi a New Orleans e cercare in quella città quel gusto, quella senso della storia e quegli umori che anni prima aveva cercato a Parigi. Sembrava la città ritagliata a sua misura: il blues, il jazz, l’architettura coloniale, l’eredità francese, l’ influenza spagnola, la cucina creola, il Mardi Gras, le strade strette all’europea, il fascinoso intreccio di culture, etnie, magia, odori e colori. Willy si immerge a capofitto in un mondo che lo rigenera e gli offre una nuova chance artistica ed esistenziale. Avevo lo stesso feeling che si prova quando qualcuno torna a casa. Era molto strano… vivevo nel Quartiere Francese a due strade da Bourbon Street. Di notte quando andavo a letto sentivo il boogie che saliva dalla strada e alla mattina quando mi svegliavo sentivo il blues.
Nel 1990 Willy incide un “piccolo” album, Victory Mixture con cui omaggia i santi della città, i musicisti e gli autori del soul di New Orleans, facendo partecipare gli stessi alla realizzazione del disco, nomi storici come Dr. John, Eddie Bo, Allen Toussaint, Earl King. Il disco pur edito da una etichetta minore, la Orleans Records che in Francia è rappresentata dalla Sky Ranch (distribuzione Fnac) diventa il primo disco d’oro della sua carriera con più di 100 mila copie vendute. Un vero miracle che permette a DeVille, ormai privatosi di Mink, di andare a Los Angeles ad incidere Backstreets Of Desire, quello che è unanimemente considerato il disco più famoso della sua carriera grazie ad una intrigante versione Texico che il nostro dà di Hey Joe. Lo smilzo bad boy della bassa Manhattan è ormai un ricordo, adesso c’è un artista a tutto tondo che ha saputo fondere nel suo pirotecnico rock n’roll ampie dosi del soul di New Orleans e di mexican flavour assimilando i ritmi caraibici degli Wild Magnolias, lo zydeco blues di Zachary Richard e le romantiche ballate spagnoleggianti che parlano di eroi da malavita, amori arrabbiati e uomini che cercano di togliersi dalla cattiva strada. Il disco vede la luce nel 1992 ma che fosse New Orleans il nuovo scenario della sua vita se ne ha un primo assaggio nell’autunno del 1990 quando al Rolling Stone di Milano Capitan Uncino, questo è il suo look dell’epoca con giacche e mantelli da Pirata dei Caraibi, camicie con lo sbuffo e jabot, rimuove completamente Miracle e con un onestissimo quintetto r&b (basso, chitarra, batteria, tastiere e sax) sparge caldi umori southern con You Better Move On di Arthur Alexander e con i brani di Victory Mixture Beating Like a Tom Tom e Every Dog Has His Day. Ma il nuovo corso è santificato dall’apparizione del maggio del 1993 e dal tutto esaurito del City Square. Merito forse di Hey Joe, di certa stampa specializzata italiana che nutre per DeVille un particolare affetto e del serio lavoro di promozione degli uomini della Ricordi che si muovono con DeVille come nessun altro aveva mai fatto. I risultati si vedono, Willy è ormai una star e si può permettere una band di gran classe. La dirige Freddy Koella, un tipetto apparentemente anonimo che con le chitarre è un sorta di prestigiatore e ricava un mondo elettroacustico che abbraccia il twangin’ degli anni 50, il blues ed un inconfondibile latin mood. Willy è in forma più che mai, nella conferenza stampa del giorno precedente al concerto elargisce battute e risate oltre agli sguardi complici verso la sua nuova moglie Lisa, che è anche sua manager e al City Square è un fiume in piena. Sembra Otis Redding quando canta Key To My Heart e Hello My Lover, fa l’incantatore di serpenti con Hey Joe, strappa brividi erotici con Bamboo Road, rilancia il suo vecchio amore Stand By Me e chiude con una incandescente versione di Dust My Broom di Elmore James prima di rispolverare uno dei suoi inni del periodo newyorchese, Easy Street. Se ne va sudatissimo rimettendosi il mantello da Capitan Uncino mentre la band continua a suonare, come fosse Elvis Presley a Las Vegas o James Brown all’Apollo. Fenomenale. Qualche ora più tardi in un locale cittadino intratterrà gli invitati in un after-hour a base di vecchi blues e di vino rosso. A conclusione di questo tour apparirà nello stesso anno un Live edito dalla Fnac mentre il suo voodoo charm sarà testimoniato da Big Easy Fantasy del 1995.

Con gli stessi uomini Willy torna a Milano il 2 marzo del 1995 ma lo show pur ricopiando in larga parte lo stesso copione compreso il finale di Dust My Broom, non sarà della stessa intensità di quello di due anni prima. Causa un lungo viaggio in macchina di 12 ore che lo ha portato da Parigi, Willy è stanco e non riesce a ricreare la fantasmagoria del precedente show milanese. Il pubblico capisce e si accontenta. Quando lo rivedo quattro anni dopo è un' altra storia ancora. Capita a Parigi il 28 ottobre del 1999 al Trianon, un vecchio teatro in legno scuro usato negli anni della Belle Epoque dai chansonniers di Montmartre per i loro spettacoli. Trasuda fascino e Willy ci sta a pannello, si sente a casa e saluta Parigi chiamandola sister city. La formazione è cambiata e ridimensionata, accanto a Willy ci sono due voluminose coriste di colore, un organista, un contrabbassista ed il solito Koella alle chitarre. Il nuovo show ha un sound più scarno ed acustico ma un profondo Delta blues e la coreografia gospel delle voci femminili aumentano le suggestioni notturne ed il forte impatto emotivo e visivo. che visivamente ricordala copertina di Loup Garou dove Willy all’angolo di Bourbon Street sembra un vampiro in attesa di succulente prede. Willy è magnetico, vampiresco oserei dire, vestito completamente di nero entra in scena con una maschera da lupo mentre sullo schermo vengono proiettati le effigia di due cavalli (da poco l’artista assieme alla moglie Lisa aveva traslocato in una fattoria del Mississippi allevando cavalli e altri animali), c’è un attimo di silenzio e poi la lunga ipnotica cantilena di Loup Garou con un sottofondo di sibili, fruscii, echi, voci sommesse e sordide percussioni ulula loup-garou bal goulà. I parigini ne sono stregati ed anche il sottoscritto rimane a bocca aperta. La caliente solarità di Backstreets Of Desire si è trasformata in una notte buia e inquietante. C’è ancora New Orleans ma non è quella colorata del Mardi Gras, è la New Orleans del 1880 e del 1890, quella dell’assenzio, del voodoo, degli schiavi che scompaiono misteriosamente, di Intervista col Vampiro. Ma Willy non si limita ad apparire come un nuovo Dracula e sciorina sorprendenti delizie come la cover del classico Goodnight My Love, la straziante Carmelita di Warren Zevon, storie di due junkie nell’America degli anni ’70 e i brani del nuovo Horse Of A Different Color, in particolare Runnin’ Through The Jungle e Goin’ Over The Hill di Fred McDowell. Ricompare anche la gloriosa Steady Drivin’ Man di Return To Magenta, album tornato prepotentemente in auge, una originale Cadillac Walk senza batteria e poi Across The Borderline in versione voce/chitarra/mandolino e contrabbasso. Il bis è la ciliegina sulla torta: una kilometrica Save The Last Dance For Me ed una lentissima e strascicata Billy The Kid presa dal Dylan di Pat Garrett and Billy The Kid.
Parigi non delude mai, quello del Trianon rimane uno degli show più originali e presagisce la svolta acustica del Live In Berlin.
Quando incontro Willy DeVille nel backstage è rilassato e di buon umore, seduto su un divano attorniato dalle coriste e con la moglie vigile a distanza. Vestito con un abito da indiano di pelle scamosciata con lunghe frange riesce anche a scambiare nella confusione della stanza alcune parole. Qualche mese prima ero stato a New Orleans e per il Buscadero (n.206) avevo scritto un pezzo sul lato oscuro della città intitolato Bayou des Mysteres. Gli faccio vedere il giornale, lo sfoglia interessato e capita sul pezzo, lo guarda con attenzione e davanti alla foto di due ceffi di colore (moglie e marito) con un machete in mano che secondo un volantino locale praticano il voodoo mi dice “Come fai ad avere questa foto? Io li conosco, sgozzano galli, se vedono questa foto pubblicata su un giornale ti tagliano la gola” Sorrido ma non troppo divertito, svio il discorso chiedendogli di Carmelita di Warren Zevon e mi risponde che lui la canta meglio anche se nutre grande stima verso l’autore. Gli chiedo di Bob Dylan e di Billy The Kid ma fa finta di niente, torna tra le sue donne ed io me ne vado. La storia continua.
Il 25 ottobre del 2003 a Chiari grazie alla gentilezza di Franco e Mauro dell’ADMR, Paolo (Carù) ed il sottoscritto lo avvicinano per una chiacchierata lampo immediatamente prima del concerto. Il tempo per scambiare qualche impressione sul suo bellissimo The Willy DeVille Acoustic Trio in Berlin e assisto ad un autentico scontro tra titani (Willy e Paolo) sulla paternità di Hey Joe. Paolo ipotizza che l’autore della canzone Billy Roberts sia in realtà Dino Valenti (cantante dei Quicksilver morto per aneurisma nel 1994), Willy, capelli lunghissimi neri e lisci, pizzetto e baffi sottili, una camicia bianca con pizzi, nega secco e ribadisce l’origine messicane di Hey Joe, “Dino Valenti era un uomo molto impegnato ed ha preso idee da ogni parte, sicuramente l’ha cantata ma non penso che l’abbia scritta lui Un tizio mi ha detto che questa canzone veniva cantata in Messico più di cinquantanni fa”.
Quello del 25 ottobre 2003 è un DeVille che terrà la scena da grande e temprato performer ma è un uomo provato dalle vicissitudini della vita. Dal 2000 si è disintossicato da una ventennale dipendenza dall’eroina e ha di nuovo traslocato, spostandosi a vivere a Cerrillos Hill nel New Mexico. Una tragedia ha però segnato la sua vita: sua moglie Lisa si è suicidata in un periodo in cui Willy si era innamorato di un'altra donna. Fuori di testa per il dolore l’artista è uscito di strada con l’auto e l’incidente gli ha procurato una tripla frattura della gamba. Sul palco zoppica e si aiuta con un bastone oltre che con qualche bicchiere di vino ingollati in un colpo solo. Sono con lui il contrabbassista David Keyes ed il pianista Bill Mitchell nella stessa dimensione trio acustica del Live In Berlin. La voce con il tempo si è fatta strepitosa, profonda come una caverna, capace di passare dall’anima al cielo nel volgere di qualche secondo. Seduto su uno sgabello o appoggiato al pianoforte Willy rilegge alcune canzoni (sue e di altri) immortali (Trouble In Mind, Spanish Harlem, Big Blue Diamond, Betty&Cupree, Since I Met You Baby) con l’intimità del grande incantatore che va all’essenza del blues, del soul e del jazz. Nessun orpello, nessun colpo elettrico, solo un piano, un contrabbasso, il fumo delle sigarette, i silenzi spezzati dalla sua voce incredibile, una performance di rara intensità che, partita in sordina, arriva a commuovere con le drammatiche versioni di Heaven Stood Still (Le Chat Bleu) e Nightfalls (Miracle). Un concerto sofferto e venato di malinconia.
A Chiari ci passa un’altra volta, poi nel 2004 torna a Los Angeles per registrare Crow Jane Alley, terzo disco col produttore John Philip Shenale in cui piange la perdita dell’amico Jack Nitzsche. “Io e Jack ci siamo conosciuti e siamo diventati subito amici, io ho influenzato lui e lui ha influenzato me. Era uno vero e non ci metteva molto a partecipare a qualsiasi cosa avessi in mente, abbiamo fatto tre dischi assieme ed è stato il più bel periodo della mia vita. Jack mi manca molto, era il mio migliore amico, il mio fratello di sangue”.
Adesso Willy si veste e porta monili da nativo Americano, i suoi capelli neri sono lunghi come quelli di un Apache, il suo viso è sempre più spigoloso, il suo sguardo penetrante. Dopo quindici anni torna a vivere nella sua New York con la terza moglie Nina. E’il suo ritorno a casa. C’è qualcosa di sinistro in tutto questo. L’ultima volta che lo vedo è a Trezzo d’Adda il 14 marzo 2008 e per l’occasione ha ripristinato il nome Mink DeVille. La band annovera vecchie conoscenze degli anni ’80 e ’90 (il batterista Shawn Murray, il percussionista Boris Kinberg) ed un paio di coriste ma il sound è virato verso un elettrico rock urbano, graffiante, velenoso, nel più classico idioma newyorchese. Un ritorno al passato che Willy, pallido, con occhiali, camicia bianca e palandrana nera avvalora ripescando Cabretta attraverso belle versioni di Mixed Up Shook Up Girl, Spanish Stroll, Venus Of Avenue D e con un uso massiccio della Gibson suonata alla Chuck Berry e Keith Richards. Non è un concerto memorabile ma Willy sembra sopravvivere a sé stesso grazie alla musica. Musica che abbraccia il blues di Muddy Waters Rose Out of the Mississippi Mud, la punkeggiante White Trash Girl, la nerissima Bacon Fat e gli scampoli del suo New York soul. Trova posto anche il sottovalutato Pistola con So So Real e Been There Done That. E’ l’ultimo atto della storia. L’ultimo di noi a parlare con lui è Paolo Carù (intervista nel N.298) all’indomani dell’uscita di Pistola. E’un Willy DeVille sfuggente e un po’ confuso, che non parla quasi mai di musica e tende a portare la discussione su un piano gradito a lui.
Nel febbraio del 2009 gli viene diagnosticato l’epatite C e a giugno gli viene scoperto un cancro al pancreas. Muore il 6 agosto in un ospedale di New York tre mesi prima del suo 59esimo compleanno. La stampa ufficiale non gli ha mai prestato molta attenzione, specie negli Stati Uniti e continua a farlo anche alla sua morte. Poche righe di circostanza e nulla più. Come uno qualsiasi. Per noi rimane una divinità. Sia lode a te, zingaro della musica e delle emozioni.

MAURO ZAMBELLINI SETTEMBRE