mercoledì 3 novembre 2010

Mississippi blues

Me l’ero promesso, quando compio 60 anni me ne vado a vedere il blues, là dove è nato. Nel mio percorso musicale ho sempre distinto tra pop e rock e da sempre ho preferito quest’ultimo, per questo mi piacciono di più i Rolling Stones dei Beatles. Il rock è musica popolare nel senso che proviene dai linguaggi base del blues, del country e del R&B, il pop è fruizione popolare non necessariamente legato agli idiomi della musica popolare. Lady Gaga è pop, Madonna è pop, anche i Beatles sono pop pur su un piano diverso, colto, articolato, raffinato ed intelligente. I Rolling Stones non sono pop, sono rock perché derivano dal blues e dal R&B mentre i Beatles hanno avuto un rapporto solo marginale col rock n’roll degli anni ’50 e col folk europeo. Così, con l’ amico Roberto Neri, organizzatore dell’Ameno Blues Festival sono andato alla sorgente, alle mie radici o meglio alle radici della musica che amo. Sono andato al blues, sono andato nel Delta del Mississippi che non è un delta come quello del Po(p) ovvero tanti rivoli di acqua che scaturiscono dal corso principale del fiume, quello succede più in giù in Louisiana verso New Orleans dove ci sono i bayou e le paludi, nel Mississippi invece è una regione costituita da una pianura alluvionale dove la terra è resa fertile dalle acque e dove è un continuo susseguirsi di campi di cotone e coltivazioni. Un paesaggio piatto ed un enorme spazio (solo 2,5 milioni di abitanti in un’area sei volte il Massacchusetts) attraversato da strade dritte come la scia di un aeroplano delimitate ai lati dai numeri delle Interstate, da un numero inverosimile di procioni morti e da storti pali della luce e punteggiato da desolate e spiritate cittadine che in pratica si riducono ad un crossroad con intorno qualche casa e quando va bene un drugstore. Ogni tanto, in qualche villaggio dalla storia blues si incontra un sopravvissuto juke joint con le insegne scrostate e gli assi cadenti, più in là in mezzo alla campagna a fianco di qualche bianca chiesetta metodista o battista c’è la tomba di qualche bluesman e di Robert Johnson qui ce ne è più di uno. Non tutti i juke joint sembrano catapecchie come il Blue Front Cafè a Bentonia e non tutti i negozi di dischi sono come l’Aikei Pro’s Records Shop ad Holly Springs in realtà un rigattiere che assembla in maniera caotica tutto l’hardware usato rintracciabile nella regione delle North Hills , qualcuno è ancora arzillo e programma musica costantemente come ad esempio il Ground Zero di Clarksdale, una cittadina che nel suo nulla è un luogo dell’anima e dello spirito. La città non è grande ma ha una storia che da sola riempirebbe un libro di blues. Possiede un bellissimo ed eloquente Delta Blues Museum, una stazione ferroviaria rimessa in quadro ed una libreria-record store, il Cat Head che è il sogno di quanti arrivano fino a lì e vogliono comprarsi dischi dei musicisti locali e libri fotografici. Ma è l’atmosfera di Clarksdale a stregare, un atmosfera sonnolente, assolutamente silenziosa nel caldo del pomeriggio, con strade vuote, qualche auto americana degli anni ‘50/60 che si ferma al semaforo e lascia intravedere il conducente che sta trasportando un amplificatore vintage (mi è capitato anche questo), un cinema chiuso che fa tanto Ultimo Spettacolo con l’insegna che avvisa di un film sui Piranha, tanti negozi chiusi, parecchi definitivamente altri perchè forse è sabato pomeriggio, uno store di strumenti musicali con una Fender rossa appesa ed edifici che una volta erano magazzini o uffici e adesso hanno l’aspetto di un’archeologico modernariato urbano. Clarksdale, come l’ho vista io, sembra una città cadente e sospesa nel tempo, un reperto degli anni cinquanta se qualcuno avesse spento i colori ed il bianco e nero avesse avvolto il tutto. Di cose da vedere ce ne sono comunque parecchie e non starò qui ad elencarle ma citare il Riverside Hotel è doveroso perché dopo lo sconcerto iniziale davanti ad una facciata talmente fatiscente da credere ad un rudere inagibile c’è la sorpresa di trovarsi l’allampanato e simpatico Mr.Rat che vi accoglie nelle sue romantiche stanze e vi racconta tutto quanto è passato in quell’hotel dalla morte di Bestie Smith fino all’attivo interessamento di un tale (dice lui) Bill Wyman che ha messo lui e la storia dell’hotel nel libro Blues Odyssey, Journey To Music’s Heart and Soul pubblicato in Inghilterra.
A Clarksdale la vita arriva quando cala il sole e soprattutto nel fine settimana perché sono in molti, ragazzi universitari e gente di ogni tipo e colore a riempire il Ground Zero e sudare e divertirsi al suono del il blues perché lì è ancora storia, passione, amicizia, pulsazione, sesso e alcol.
Il Ground Zero è di proprietà dell’attore Morgan Freeman che gli ha dato una bella spinta propulsiva. E’ un edificio ampio dentro corredato da una veranda in legno dove sono sistemati una vecchia stufa arrugginita e quattro o cinque vecchi divani che vengono presi d’assalto da chi vuole fumare (ma nel Delta si può fumare dappertutto) o solo chiacchierare o per smaltire la sbronza quando le birre sono troppe. Dentro il soffitto è alto, c’è la cucina, il banco per le t-shirt, i tavoli ed il lungo bancone per bere, il tutto attorniato da un pullulare di manifesti, scritte, fotografie e da un palco che diventa ribollente appena Super Chickan e le sue tre Fightin’ Cocks salgono ed iniziano a rollare un aspro ed eccitante Delta blues elettrico che va avanti per più di tre ore coinvolgendo ragazze, donne e uomini in una sfrenata danza del sabato sera. Ci si riempie con hamburger e soul food, si beve birra e tequila ma quello che fa la differenza è l’attitudine delle persone che in barba alla crisi ballano, ridono, scherzano, cantano, fraternizzano in modo spontaneo come da noi è orami impossibile vedere. Persone di tutti i colori, di tutte le età e di tutti i ceti sociali (c’era anche Morgan Freeman il 9 ottobre) in virtù di trasversalismo che fa la differenza e non erige barriere.
La crisi negli Stati Uniti è molto più evidente che da noi (senza ammortizzatori sociali e con la carta di credito sempre in mano i danni sono enormi) e non dico solo nella zona del Delta dove la povertà è sempre esistita ed i neri hanno sputato sangue da sempre. Anche a Memphis tappa iniziale del mio viaggio al contrario ovvero dal rock n’roll al blues e non viceversa come la storia insegna, la crisi la vedi perfino nel centro città, a downtown, a pochi metri da Beale Street, una volta malfamato quartiere nero e oggi via turistica ( ma c’erano solo americani) dove si va a bere e a sentire il blues ed il rock n’roll suonato da piccole e gagliarde formazioni locali che riempiono locali come il Blues Hall, il B.B King Blues Club, il Blues City Cafè e altri juke joint disseminati lungo i suoi marciapiedi. Basta svoltare l’angolo e le luci al neon scompaiono, il downtown diventa semideserto anche di giorno, poche le persone che passeggiano, tanti i negozi sbarrati o in vendita, un’aria desolata investe il centro anche se non ci sono sensazioni di pericolo, piuttosto sembra che la popolazione sia drasticamente diminuita ed anche il traffico automobilistico scarso. Si vedono persone solo nelle tavole calde per impiegati ed in qualche ristorante annesso agli alberghi o nei Val-Mart a formato ridotto che vendono di tutto, dai calzini ai farmaci. Tra downtown e midtown, dove ci sono i quartieri residenziali dei bianchi, la situazione è ancora più triste, non-luoghi affiancati a palazzi e grattacieli in acciaio e vetro dallo stile hi-tech sono occupati da squallide sterrate che servono a parcheggio o aree dimesse che in un futuro più florido potrebbero ospitare altri palazzi. In questa terra di confine nessuno passeggia tranne alcuni homeless che camminano guardando fissi a terra senza la forza di chiedere qualcosa nemmeno quando le auto si fermano al semaforo. Il traffico urbano è irrisorio se confrontato a quello delle nostre città, si gira in macchina potendo guardare attorno con agio e cambiando stazione radio, una vera goduria dell’andare in macchina perché oltre le community radio in A.M che trasmettono in certi orari della giornata del fantastico blues ci sono le FM divise per decadi (dalla musica degli quaranta fino agli anni novanta) oltre a Elvis 24 ore su 24 e alla E-Street Radio con all Bruce live e in studio.
Oasi di vita sono i tanti musei dedicati alla musica, splendido quello della Stax in un quartiere che è meglio arrivarci in macchina e di giorno, il Sun Studios che è sulla Union una delle arterie che tagliano la città da est a ovest, il Rock and Soul Museum vicino alla fabbrica e allo store della Gibson che sono nei pressi di Beale St. ed il commovente e curato Museo dei Diritti Civili in Mulberry St. ritagliato dentro il Lorraine Motel dove il 4 aprile del 1968 nella room 306 fu assassinato Martin Luther King. Il Lorraine è ubicato vicino ad una delle zone più trendy (ma prendete questo aggettivo per quello che può valere a Memphis, nulla a che vedere con le zone alla moda milanesi e italiote) ovvero il South Main Arts District popolato da cafè, qualche libreria, negozietti di abbigliamento e ristoranti tra cui l’ Arcade, una folkloristica tavola calda autenticamente vintage sopravvissuta agli anni 50 dove fu girato il film Mystery Train di Jim Jarmusch.
I quartieri residenziali a Memphis sono a midtown, belle case unifamiliari della borghesia bianca con annesso verdi e rigogliosi giardini senza steccati e station wagon parcheggiata e ampi parchi ( tra cui l’Overton cantato dai Lucero) nelle vicinanze di centri di cura e università. Poplar Avenue è un’altra delle lunghe vie che tagliano in senso orizzontale Memphis, al numero 1931 c’è l’Hi-Tone, un rock-club frequentato da studenti che bevono birra in quantità industriale e appassionati di ogni età (a contrario dell’ Italia nei posti dove si ascolta musica c’è spesso un pubblico trasversale che non ti fa sentire come l’ultimo dei mohicani)dove mi è capitato vedere uno scoppiettante show di J.J Grey and Mofro introdotto da un gruppo texano di rock-soul psichedelico chiamato Jonathan Tyler and The Northern Lights molto sorpresi di trovare degli italiani in quel posto. All’esterno ho capito la gerarchia delle band: i texani che facevano da supporter avevano un piccolo van, J.J Grey un vero autobus con tanto di Tv e toilette.





(1 - continua)

1 commento:

sergio ha detto...

Beato te che ci sei andato !
Questi sono i viaggi della vita , altro che Maldive & co.
qualcosa ti resta dentro per sempre
..Real America..

see you