mercoledì 24 novembre 2010

Cheap Wine > Stay Alive!


Centinaia di concerti, migliaia di chilometri, decine di corde rotte, di bacchette spezzate, fiumi di birra, abbracci stritolanti, risate incontrollate, personaggi pazzeschi, follia in libertà nel cuore della notte, esplosioni di adrenalina, energia a tonnellate, diluvi di sudore….. che cosa si nasconde dentro un concerto rock?”
I Cheap Wine tentano di spiegarcelo con questo doppio CD intitolato semplicemente ed eloquentemente Stay Alive! due ore di rock senza tregua con le chitarre a palla e i ritmi pazzeschi che ricrea la magia di un loro show con tanto di set acustico, ballate al neon e rock n’roll al serramanico. Registrato in tre location differenti nell’aprile del 2010 al Fuzz di Pesaro, allo Spazio Musica di Pavia e al Teatro Zeppilli di Pieve di Cento Stay Alive! è la dimostrazione che anche in Italia pulsa un cuore rock, basta cercarlo fuori dai circuiti ufficiali e nelle strade secondarie.
Nonostante il gruppo pesarese non possa contare su un budget da major e su amici che contano, con i mezzi tecnici adeguati alle possibilità e una produzione in proprio i Cheap Wine ce l’hanno fatta e ci consegnano un live che rimarrà nella storia del rock in Italia. Un live ben fatto, registrato come si deve, che trasmette a pieno la carica di un loro show ed esplicita con la ricchezza degli arrangiamenti i lavori ancora in corso nel gruppo che qui, con l’aggiunta del pianista e tastierista Alessio Raffaelli, raggiunge uno status di rock n’roll band internazionale. Stay Alive! non è solo il classico live che un gruppo mette in cantiere per coronare una carriera, e i Cheap Wine se lo meritano visto la lunga e difficoltosa strada percorsa ma più specificatamente è la misura di quanto questa band è maturata, migliorandosi e aprendosi verso temi e suoni che hanno allargato il loro range espressivo ed il loro set.
Due CD, più di un’ora ciascuno. Si comincia con una parte elettroacustica come nei recenti show del gruppo. Spirits ha lasciato il segno e ha portato nuova linfa al loro scenario musicale, le ballate sono avvolgenti e gli intrecci di chitarre acustiche una delizia. Just Like Animals, The Sea Is Down, Circus Of Fools, A Pig On A Lead, le riletture di Murderer Song e Among The Stones, una Nothing Left To Say che con piano e armonica si apre alla Jungleland e la rincorsa delle chitarre di Among The Stones creano uno stato di palpabile attesa con atmosfere sospese tra folk, blues, ballads e melodie avvincenti. Poi arrivano le chitarre elettriche e la storia cambia. Michele Diamantini sale in cattedra e i Cheap Wine sciorinano un rock crudo, folgorante, psichedelico a tratti, underground. Marco Diamantini tiene ferma la barra delle ballate ma è duro timonare una barca che è ormai una ciurma inebriata di rock n’roll. Sono sventolate elettriche in un vento di burrasca, Evil Ghost e poi Shakin’The Cage, un semi-punk lanciato a mille, Youngstown di Springsteen che parte riflessiva e lenta per poi trasformarsi in un urlo di ribellione con un crescendo ad hoc, ottima cover per un gruppo che non ha mai nascosto una sincera sensibilità sociale.
Devastante il secondo CD, qui i Cheap Wine non fanno prigionieri, sono duri, rabbiosi e metropolitani,figli dei giorni del vino e delle rose. Il pianoforte di Raffaelli è il valore aggiunto, un po’ lirico e un po’ honky tonk, le chitarre distorcono, basso e batteria martellano cattive, una dopo l’altro arrivano i classici del loro live set, da Dance Over Troubles, Time For Action e Freak Show presi dall’omonimo album a Snakes, Move Along e City Lights (il consueto ed esaltante piece de resistence chitarristico) presi da Moving, da Leave Me A Drain fino all’irrinunciabile finale corale di Rockin’ In The Free World. Un grande Live.

MAURO ZAMBELLINI NOVEMBRE 2010

mercoledì 10 novembre 2010

Mississippi blues #2

(continua)

Bastano pochi blocchi per scendere all’inferno e i quartieri residenziali si trasformano in quartieri fatiscenti dove miseria e degrado balzano subito all’occhio. Sono gli all black blocks dove si vive con poco ed il rap ha sostituito il blues. Quando passi con la macchina provi un certo disagio, ti senti osservato, quasi minacciato con gli sguardi. Forse è solo una sensazione o la coda di paglia di noi bianchi ma è meglio stare in campana quando si sconfina. E’ una città nera Memphis, interessante anche se non bella e oggi un po’ depressa ma se si esce dalla città sulla highway # 69 che va a sud vi imbatterete nella gigantesca scritta (e magione) di Graceland. Che è da vedere comunque perché Elvis è Elvis. Ultimo simbolo di un Tennessee che diventa Mississippi, di un rock n’roll che diventa blues. Se seguite la 61 e siete nel periodo giusto ovvero nei primi giorni di ottobre troverete caldo meraviglioso ed un festival, il King Biscuit Blues Festival che è una festa per occhi, orecchie, cervello e palato. Meno per le arterie. Ad Helena, una cittadina dell’Arkansas appena al di là del grande fiume, ogni anno va in scena uno dei festival americani di blues più celebri e rinomati. Ci viene gente da tutto il mondo e per tre giorni questa cittadina oggi messa in ginocchio dalla crisi ma un tempo cruciale snodo commerciale della produzione cotoniera si riempie di un pubblico variopinto di ogni colore, età e ceto sociale alla ricerca del blues, del divertimento e del soul-food. Pittoresco è dire poco ma l’Arkansas Heritage&Blues Festival, così si chiama oggi, sa offrire uno grande scenario musicale proprio in mezzo al nulla di una regione povera e dimenticata. Quest’anno le teste di serie si chiamavano B.B King, Dr.John e Taj Mahal ma altrettanti chicche sono stati i set di Paul Thorn, una rivelazione per me che non conoscevo questo rocker, il rovente chitarrista Smokin’Joe Kubeck con il cantante Bnois King, quei simpatici tamarri southern rockers dei Kentucky Headhunters, il potente e sanguigno Michael Burks e la signorile Marcia Ball pianista di classe alle prese con un band da leccarsi i baffi.
Ma il Mississippi non è solo Delta, ci sono cittadine deliziose e amene come Natchez al confine con la Louisiana, una piccola New Orleans con l’architettura del French Quarter che trasuda tutto il fascino e l’ eleganza del Sud. Fu città portuale ed un centro per il commercio del cotone ma attorno al suo porto sul fiume si sviluppò una città secondaria, la Natchez under-the-hill , uno dei luoghi più torbidi, pericolosi e turbolenti di tutto il Mississippi che attirò giocatori d’azzardo, ladri, prostitute e maneschi di ogni genere. Mi è venuto in mente Willy De Ville passeggiando per le sue strade e difatti il nostro soulman preferito dopo aver lasciato New Orleans prese casa o meglio fattoria con cavalli non troppo distante da qui, nella zona boschiva e collinare che si estende ad est.
Anche nella parte settentrionale del Mississippi ci sono colline, boschi e blues.
Oxford, ridente cittadina sede della famosa Ole Miss, una delle storiche università pubbliche degli Stati Uniti dove nel 1962 dopo diciotto mesi tra dispute legali e politiche le autorità federali concessero il diritto a iscriversi a James Meredith, primo studente di colore, è popolata di studenti e pub dove la buona musica corre a fiumi. Al Larry’s Proud ci hanno suonato tutti, da Warren Zevon a Elvis Costello, dai più stagionati bluesmen ai Drive By Truckers e nel campus universitario il Blues Archiv ospita centinaia di registrazioni. A Oxford ci visse William Faulkner il che spiega la presenza di belle e comode librerie dove ci si può accomodare sulle poltrone e leggere quello che si vuole senza l’obbligo dell’acquisto. Ma Oxford è anche la sede della Fat Possum Records l’etichetta che ha tenuto a battesimo quel blues denominato Hill Country Blues che si è sviluppato in questa regione collinare, tra Oxford e Holly Springs. Un blues spartano, agro ed elettrico, molto ritmato e basato su pochi accordi, un blues ipnotico che ha avuto come antecedenti Mississippi Fred Mc Dowell e conseguenti J.R Burnside e Junior Kimbaugh ma che ha finito con l’influenzare anche i North Mississippi AllStars, Jon Spencer Blues Explosion, gli White Stripes e i Black Keys ovvero parte del miglior rock americano di oggi. E qui il cerchio si chiude ed il viaggio finisce.
Alla prossima.

Mauro Zambellini Ottobre 2010





(2 - continua)

mercoledì 3 novembre 2010

Mississippi blues

Me l’ero promesso, quando compio 60 anni me ne vado a vedere il blues, là dove è nato. Nel mio percorso musicale ho sempre distinto tra pop e rock e da sempre ho preferito quest’ultimo, per questo mi piacciono di più i Rolling Stones dei Beatles. Il rock è musica popolare nel senso che proviene dai linguaggi base del blues, del country e del R&B, il pop è fruizione popolare non necessariamente legato agli idiomi della musica popolare. Lady Gaga è pop, Madonna è pop, anche i Beatles sono pop pur su un piano diverso, colto, articolato, raffinato ed intelligente. I Rolling Stones non sono pop, sono rock perché derivano dal blues e dal R&B mentre i Beatles hanno avuto un rapporto solo marginale col rock n’roll degli anni ’50 e col folk europeo. Così, con l’ amico Roberto Neri, organizzatore dell’Ameno Blues Festival sono andato alla sorgente, alle mie radici o meglio alle radici della musica che amo. Sono andato al blues, sono andato nel Delta del Mississippi che non è un delta come quello del Po(p) ovvero tanti rivoli di acqua che scaturiscono dal corso principale del fiume, quello succede più in giù in Louisiana verso New Orleans dove ci sono i bayou e le paludi, nel Mississippi invece è una regione costituita da una pianura alluvionale dove la terra è resa fertile dalle acque e dove è un continuo susseguirsi di campi di cotone e coltivazioni. Un paesaggio piatto ed un enorme spazio (solo 2,5 milioni di abitanti in un’area sei volte il Massacchusetts) attraversato da strade dritte come la scia di un aeroplano delimitate ai lati dai numeri delle Interstate, da un numero inverosimile di procioni morti e da storti pali della luce e punteggiato da desolate e spiritate cittadine che in pratica si riducono ad un crossroad con intorno qualche casa e quando va bene un drugstore. Ogni tanto, in qualche villaggio dalla storia blues si incontra un sopravvissuto juke joint con le insegne scrostate e gli assi cadenti, più in là in mezzo alla campagna a fianco di qualche bianca chiesetta metodista o battista c’è la tomba di qualche bluesman e di Robert Johnson qui ce ne è più di uno. Non tutti i juke joint sembrano catapecchie come il Blue Front Cafè a Bentonia e non tutti i negozi di dischi sono come l’Aikei Pro’s Records Shop ad Holly Springs in realtà un rigattiere che assembla in maniera caotica tutto l’hardware usato rintracciabile nella regione delle North Hills , qualcuno è ancora arzillo e programma musica costantemente come ad esempio il Ground Zero di Clarksdale, una cittadina che nel suo nulla è un luogo dell’anima e dello spirito. La città non è grande ma ha una storia che da sola riempirebbe un libro di blues. Possiede un bellissimo ed eloquente Delta Blues Museum, una stazione ferroviaria rimessa in quadro ed una libreria-record store, il Cat Head che è il sogno di quanti arrivano fino a lì e vogliono comprarsi dischi dei musicisti locali e libri fotografici. Ma è l’atmosfera di Clarksdale a stregare, un atmosfera sonnolente, assolutamente silenziosa nel caldo del pomeriggio, con strade vuote, qualche auto americana degli anni ‘50/60 che si ferma al semaforo e lascia intravedere il conducente che sta trasportando un amplificatore vintage (mi è capitato anche questo), un cinema chiuso che fa tanto Ultimo Spettacolo con l’insegna che avvisa di un film sui Piranha, tanti negozi chiusi, parecchi definitivamente altri perchè forse è sabato pomeriggio, uno store di strumenti musicali con una Fender rossa appesa ed edifici che una volta erano magazzini o uffici e adesso hanno l’aspetto di un’archeologico modernariato urbano. Clarksdale, come l’ho vista io, sembra una città cadente e sospesa nel tempo, un reperto degli anni cinquanta se qualcuno avesse spento i colori ed il bianco e nero avesse avvolto il tutto. Di cose da vedere ce ne sono comunque parecchie e non starò qui ad elencarle ma citare il Riverside Hotel è doveroso perché dopo lo sconcerto iniziale davanti ad una facciata talmente fatiscente da credere ad un rudere inagibile c’è la sorpresa di trovarsi l’allampanato e simpatico Mr.Rat che vi accoglie nelle sue romantiche stanze e vi racconta tutto quanto è passato in quell’hotel dalla morte di Bestie Smith fino all’attivo interessamento di un tale (dice lui) Bill Wyman che ha messo lui e la storia dell’hotel nel libro Blues Odyssey, Journey To Music’s Heart and Soul pubblicato in Inghilterra.
A Clarksdale la vita arriva quando cala il sole e soprattutto nel fine settimana perché sono in molti, ragazzi universitari e gente di ogni tipo e colore a riempire il Ground Zero e sudare e divertirsi al suono del il blues perché lì è ancora storia, passione, amicizia, pulsazione, sesso e alcol.
Il Ground Zero è di proprietà dell’attore Morgan Freeman che gli ha dato una bella spinta propulsiva. E’ un edificio ampio dentro corredato da una veranda in legno dove sono sistemati una vecchia stufa arrugginita e quattro o cinque vecchi divani che vengono presi d’assalto da chi vuole fumare (ma nel Delta si può fumare dappertutto) o solo chiacchierare o per smaltire la sbronza quando le birre sono troppe. Dentro il soffitto è alto, c’è la cucina, il banco per le t-shirt, i tavoli ed il lungo bancone per bere, il tutto attorniato da un pullulare di manifesti, scritte, fotografie e da un palco che diventa ribollente appena Super Chickan e le sue tre Fightin’ Cocks salgono ed iniziano a rollare un aspro ed eccitante Delta blues elettrico che va avanti per più di tre ore coinvolgendo ragazze, donne e uomini in una sfrenata danza del sabato sera. Ci si riempie con hamburger e soul food, si beve birra e tequila ma quello che fa la differenza è l’attitudine delle persone che in barba alla crisi ballano, ridono, scherzano, cantano, fraternizzano in modo spontaneo come da noi è orami impossibile vedere. Persone di tutti i colori, di tutte le età e di tutti i ceti sociali (c’era anche Morgan Freeman il 9 ottobre) in virtù di trasversalismo che fa la differenza e non erige barriere.
La crisi negli Stati Uniti è molto più evidente che da noi (senza ammortizzatori sociali e con la carta di credito sempre in mano i danni sono enormi) e non dico solo nella zona del Delta dove la povertà è sempre esistita ed i neri hanno sputato sangue da sempre. Anche a Memphis tappa iniziale del mio viaggio al contrario ovvero dal rock n’roll al blues e non viceversa come la storia insegna, la crisi la vedi perfino nel centro città, a downtown, a pochi metri da Beale Street, una volta malfamato quartiere nero e oggi via turistica ( ma c’erano solo americani) dove si va a bere e a sentire il blues ed il rock n’roll suonato da piccole e gagliarde formazioni locali che riempiono locali come il Blues Hall, il B.B King Blues Club, il Blues City Cafè e altri juke joint disseminati lungo i suoi marciapiedi. Basta svoltare l’angolo e le luci al neon scompaiono, il downtown diventa semideserto anche di giorno, poche le persone che passeggiano, tanti i negozi sbarrati o in vendita, un’aria desolata investe il centro anche se non ci sono sensazioni di pericolo, piuttosto sembra che la popolazione sia drasticamente diminuita ed anche il traffico automobilistico scarso. Si vedono persone solo nelle tavole calde per impiegati ed in qualche ristorante annesso agli alberghi o nei Val-Mart a formato ridotto che vendono di tutto, dai calzini ai farmaci. Tra downtown e midtown, dove ci sono i quartieri residenziali dei bianchi, la situazione è ancora più triste, non-luoghi affiancati a palazzi e grattacieli in acciaio e vetro dallo stile hi-tech sono occupati da squallide sterrate che servono a parcheggio o aree dimesse che in un futuro più florido potrebbero ospitare altri palazzi. In questa terra di confine nessuno passeggia tranne alcuni homeless che camminano guardando fissi a terra senza la forza di chiedere qualcosa nemmeno quando le auto si fermano al semaforo. Il traffico urbano è irrisorio se confrontato a quello delle nostre città, si gira in macchina potendo guardare attorno con agio e cambiando stazione radio, una vera goduria dell’andare in macchina perché oltre le community radio in A.M che trasmettono in certi orari della giornata del fantastico blues ci sono le FM divise per decadi (dalla musica degli quaranta fino agli anni novanta) oltre a Elvis 24 ore su 24 e alla E-Street Radio con all Bruce live e in studio.
Oasi di vita sono i tanti musei dedicati alla musica, splendido quello della Stax in un quartiere che è meglio arrivarci in macchina e di giorno, il Sun Studios che è sulla Union una delle arterie che tagliano la città da est a ovest, il Rock and Soul Museum vicino alla fabbrica e allo store della Gibson che sono nei pressi di Beale St. ed il commovente e curato Museo dei Diritti Civili in Mulberry St. ritagliato dentro il Lorraine Motel dove il 4 aprile del 1968 nella room 306 fu assassinato Martin Luther King. Il Lorraine è ubicato vicino ad una delle zone più trendy (ma prendete questo aggettivo per quello che può valere a Memphis, nulla a che vedere con le zone alla moda milanesi e italiote) ovvero il South Main Arts District popolato da cafè, qualche libreria, negozietti di abbigliamento e ristoranti tra cui l’ Arcade, una folkloristica tavola calda autenticamente vintage sopravvissuta agli anni 50 dove fu girato il film Mystery Train di Jim Jarmusch.
I quartieri residenziali a Memphis sono a midtown, belle case unifamiliari della borghesia bianca con annesso verdi e rigogliosi giardini senza steccati e station wagon parcheggiata e ampi parchi ( tra cui l’Overton cantato dai Lucero) nelle vicinanze di centri di cura e università. Poplar Avenue è un’altra delle lunghe vie che tagliano in senso orizzontale Memphis, al numero 1931 c’è l’Hi-Tone, un rock-club frequentato da studenti che bevono birra in quantità industriale e appassionati di ogni età (a contrario dell’ Italia nei posti dove si ascolta musica c’è spesso un pubblico trasversale che non ti fa sentire come l’ultimo dei mohicani)dove mi è capitato vedere uno scoppiettante show di J.J Grey and Mofro introdotto da un gruppo texano di rock-soul psichedelico chiamato Jonathan Tyler and The Northern Lights molto sorpresi di trovare degli italiani in quel posto. All’esterno ho capito la gerarchia delle band: i texani che facevano da supporter avevano un piccolo van, J.J Grey un vero autobus con tanto di Tv e toilette.





(1 - continua)