venerdì 27 giugno 2014

I ROBINSON

 
 

Chi segue le malefatte del rock ne era già al corrente : una delle più strepitose rock n'roll band degli ultimi ventanni, i Black Crowes, ne avevano le scatole piene di stare assieme. Succede anche nelle migliori famiglie e nei matrimoni che sembrano stipulati per durare un'eternità, figuriamoci poi se nello stesso nucleo sono presenti due fratelli di sangue, ve li ricordate i fratelli Fogerty nei Creedence o più recentemente i Gallagher negli Oasis, per rammentare i primi casi che mi vengono in mente. Bene, i fratelli Robinson, Chris e Rich,rispettivamente cantante e chitarrista dei Black Crowes, alle zuffe manco ci pensano, di litigi neanche a parlarne, sono del sud e certe cose le risolvono con flemma e fatalismo, nessun rancore tra loro, solo la voglia di staccare per qualche tempo la spina e farsi i fatti propri, ognuno a proprio modo. Chris, il cantante, l'autore, il frontman, il predicatore, lo sciamano, lo stregone hippie, il visionario cosmico, l'ugola più devastata sotto la Mason Dixie Line, l'unico a tenere insieme Faces, Rolling Stones, Traffic e Led Zeppelin in un corpo unico, si è mosso per tempo qualche tempo fa, quando col chitarrista Neal Casal, il bassista Mark Dutton, il batterista George Sluppick e l'altro Black Crowes, il tastierista Adam McDougall, ha messo insieme Chris Robinson Brotherhood, una band vecchi tempi, che ama suonare e stare sulla strada, vivere come degli hippies senza seguire calcoli discografico ed imposizioni di manager, un furgone pieno di strumenti, la scorta di marja, le birre e via a seguire i propri istinti, i propri umori, le proprie passioni, l'essere vagabondi per spirito, stile ed attitudine. Due splendidi album, lo psichedelico e sperimentale e Dead-iano Big Moon Ritual , il più rockato e rootsy The Magic Door  ed un terzo, uscito recentemente, dal titolo esplicativo Phosphorescent Harvest. Tre dischi che da una parte segnano un allontanamento dalle atmosfere sulfuree e bluesy dei Black Crowes  e dall'altra indicano un chiaro flirt col rock psichedelico e funambolico della California anni 60 e 70. Chris Robinson non si è mai accontentato di rimanere su un piedistallo a bearsi dei risultati raggiunti, ha sempre cercato di cambiare, ampliare il suo punto di vista, la sua ottica musicale, la sua filosofia, quasi non si preoccupasse, da vero beat, quale fosse la meta ma comunque consapevole di quale fosse la direzione. Con Phosphorescent Harvest siamo di fronte a qualcosa ancora di diverso dai primi due dischi della CRB, un non ben definito caleidoscopio delle loro tre anime, quella psichedelica, quella rootsy e quella soulful. Più che altro un mix delle due cose sottintese dal titolo, la psichedelia da una parte, suggerita da quel phosphorescent, e i temi pastorali e agresti dall'altra, indicati dal termine harvest. Il raccolto fosforescente offre le sue cose migliori nella parte più rootsy ed è un disco piacevole ed intrigante ma, a mio modo di vedere, un passo indietro rispetto ai due precedenti lavori dei CRB, per il suono fastidiosamente saltellante della chitarra di Casal in qualche brano, per le composizioni meno convincenti e ripetitive e anche per il tentativo di cercare un appeal maggiormente commerciale. Per entrare veramente in sintonia con Chris Robinson e la sua musica  bisogna aspettare la quarta traccia, Badlands Here We Come, forse la cosa migliore dell'intero disco, finalmente ispirata e con una band  che suona come sa fare dal vivo ( se vi capita procuratevi la favolosa serie di Cd Betty's Blend registrati alla Great American Music Hall di San Francisco nel dicembre del 2012, la si può trovare in giro senza svenarsi), una ballad, Badlands, che a parte il titolo, evoca l'ariosità della prima Steve Miller Band senza fare a meno del  romanticismo di Chris Robinson, che canta con sorprendente leggiadria ed ottimismo, senza la sua dolente sofferenza, come raramente gli capita. Bella è pure Beggar's Moon, energia cosmica e soul-rock mischiati ad arte, con vaghe citazioni di New Orleans e strade del sud. Non trascurabile è Tornado, non fosse altro perché evoca quel sound californiano da Laurel Canyon a cui Chris Robinson è legato spiritualmente e fisicamente e Wanderer's Lament, altra ballata dai toni agresti che potrebbe essere uscita dalle out-takes di Before The Frost....dei Black Crowes. Dove invece Phosphorescent Harvest sembra meno riuscito è nei brani in cui la band gioca di  "innovazione" creando un artificioso rock psycho-prog con sonorità leggerine e commerciali che mal aderiscono all'immagine ruvida e stradaiola della band. Il finale di Jump The Turnstile è convincente ma le prime tre tracce che aprono il disco  con quei suoni zampillanti e puliti deludono, così come Humbolt Wind Chimes è troppo kraut-rock per dei neo-hippies dell'ovest. Sebbene Chris Robinson continui ad essere quello sciamano del rock n'roll di cui tutti abbiamo bisogno almeno una volta all'anno, Phosphorescent Harvest rallenta la corsa dei CRB facendoci rimpiangere i vecchi Crowes. 


Da parte sua il fratello Rich non è stato a guardare e anche lui si è lasciato sedurre da quel Going To California che tanto tempo fa intonavano i Led Zeppelin, tra i tanti gruppi del British rock una delle influenze primarie dei Black Crowes. Anche lui come Chris ha puntato  dritto verso ovest, verso la California e con il suo terzo disco solista, The Ceaseless Light, ha allargato gli orizzonti e allungato i tempi creando una musica non troppo diversa da quella dei CRB ovvero svolazzi chitarristici in libera uscita, leggiadre armonie col profumo dell'oceano, ballate che iniziano pigre e assonnate e poi salgono nel cosmo col suono liquido delle chitarre e delle tastiere. Insomma rock californiano anni '70, di quello fumato e rilassato, con la voce e gli strumenti che occhieggiano agli album psichedelici del periodo magari aggiungendoci qualche zampata di Stones ed un rimasuglio di southern rock.  A questo punto non si capisce perché i due, Chris e Rich si siano separati e abbiano messo i  Black Crowes in stand by visto che la direzione era la stessa  e magari bastava risistemare la carrozzeria dei BC e traslocare gli umori di Before The Frost....Until The Freeze al caldo mite della California. Ma si sa come vanno le cose tra fratelli e così oggi al posto di un disco super  ne abbiamo due del tutto buoni ma simili tra loro e lontani dall'essere quel botto deflagrante che ci si aspetta da una band come i Corvi Neri. Rimaniamo in attesa e accontentiamoci di The Ceaseless Light, la cui partenza è di tutto rispetto, con i primi tre brani sicuramente migliori dell'apertura dell'imparentato Phosphorescent Harvest, anche se col passare del disco la qualità di scrittura di Rich Robinson mostra la corda,  il disco si smorza un po' pur rimando su un livello più che dignitoso, anzi.  I Know You, Down The Road, One Road Hill sono davvero un bel inizio, fresco, vaporoso, sognante, le chitarre in gran spolvero e la band ( Joe Magistro alla batteria, Amy Helm, la figlia del compianto batterista di The Band e Steve Molitz alle tastiere) sintonizzata sulle lunghezze d'onda di Big Sur , nonostante il disco sia stato registrato a Woodstock, ovvero nella boscosa e montuosa East-Coast. I titoli sono espliciti, la strada è il luogo dove nasce e vive questo rock, inutile cercare furbizie moderniste o trend sonori, qui è il caro vecchio rock arioso e sballato dei settanta a farla da padrone, sia negli accenni più sanguigni e southern come il ritmato Trial and Faith  e Inside, gli episodi più vicini ai Black Crowes, sia in quelle ballate, e sono la maggior parte, che salgono tra paesaggi bucolici, visioni pastorali, buone e antiche vibrazioni. La chitarra di Rich Robinson lascia a casa per una volta i crudi  riff di blues e di rock n'roll e si concede un viaggio astrale tra jam, armonie  ed improvvisazione, non perdendo mai la bussola e tenendosi nei paraggi  del fratello, il quale però a dirla tutta, ha dalla sua una band, i CRB, che davvero ricordano quelle di una volta, nata sulla strada e cresciuta nei concerti, come si dice in gergo growing up in public. Pure la chiusura di The Ceaseless Light è sula falsariga di quella di   Phosphorescent Harvest, difatti Obscure The Day  è un lungo strumentale tra improvvisazione, cosmic-rock e prog. Due dischi piacevoli e con una qualità sonora eccellente, lavori che dimostrano quanta creatività abbiano ancora in serbo i fratelli Robinson anche quando sono  (apparentemente) distanti l'uno dall'altro, ma allora perché andarsene ognuno per la propria strada e non mettere nuove energie nella più grande rock n'roll family degli ultimi ventanni.

MAURO ZAMBELLINI   

 

 

mercoledì 18 giugno 2014

THE GREAT CRUSADES Thieves of Chicago

 

Poco nota ma attiva da più di una decina di anni, questa band nasce per volontà del cantante/chitarrista Brian Krumm a Champagne nell'Illinois nel 1996 sebbene l' assetto definitivo risalga al 1998 in quel di Chicago. Accanto a Krumm sono il bassista Brian Hunt ed il batterista Christian Moder, un trio che sfugge a facili etichettature visto il tipo di musica di cui sono portatori. Hanno alle spalle diversi dischi,  il primo, The First Spilled Drink of Evening, titolo da applausi, risale al 1997 e si guadagnò la segnalazione di David Fricke su Rolling Stone che li paragonava ad una versione americana dei Tindersticks. Never Go Home del 2002 prese quattro stelle dall'edizione tedesca di Rolling Stone, lì popolari per il fatto di lavorare da tempo con etichette tedesche, prima la Glitterhouse adesso la Blue Rose. Diversi lo sono davvero i Great Crusades e lo si capisce da questo buon disco costruito sulla voce rauca e baritonale di Krumm e su canzoni che propongono un mood notturno di tavole calde e locali aperti fino a tardi dove ci si immagina una atmosfera da Nighthawks di Edward Hopper o una sceneggiatura chandleriana. Il noir è  evidente in Thieves of Chicago, il titolo, i ladri di Chicago, la fotografia urbana della copertina, la voce vetrosa di Krumm in storie di malaffare, armi, diavoli, vite sbagliate, giochi crudeli, vecchi amanti. Abbondano le citazioni, per Keith Richards, per gli Uncle Tupelo, per Melody Maker e la California, soprattutto per Chicago, habitat di canzoni che spaziano dal rock urbano al country più malinconico e periferico (Old Lovers, Old Friends), dal cupo decor alla Nick Cave di This City Is a Shambles Tonight  con un pizzico di Johnny Cash (The Devile and his Relations) al bluesato after-hour di A.J Croce, dal furente e gelido rock metropolitano di Til The Needle on the Record Goes to Bed  al dolce lullabye di Cruel Joke. Ma è Tom Waits il riferimento più stretto perché Krumm ha sicuramente fatto una dieta a base di alcol e sigarette ed il suo cantare da crooner perso nella notte e nella bottiglia fa venire in mente i primi dischi del maestro, in primis The Heart of Saturday Night. Ma Chicago non è Los Angeles e spesso i marciapiedi più che bagnati dalla pioggia sono sferzati da vento e neve e allora The Great Crusades rubano suggestioni che stanno più a nord, a storie che hanno a che fare con il senso di colpa, il rimorso, le perdite. Musica a tratti scura, inquieta, qualche volta vicina ai Sixteen Horsepower, altre volte del tutto originale ed eclettica, come quando viene riveduta a mo' di marcia funebre  New Orleans Why Did You Make Me Care? di Beck dove sia Allen Toussaint che Louis Armostrong sarebbero stati a loro agio, oppure nella title track dove si respira aria da cabaret tedesco interpretato da Randy Newman. Strambi, non c'è che dire, dategli un ascolto.
MAURO ZAMBELLINI  

mercoledì 4 giugno 2014

THE ROLLING STONES Zurigo 1/06/2014

 
 
La Svizzera non ha mai tradito i Rolling Stones, nessun loro show nel passato è stato annullato per magre prevendite come invece è successo da noi, e anche questa volta il rinnovato Letzigrund Stadion di Zurigo è zeppo in ogni suo ordine di posti, sono 50 mila le persone presenti, tra cui applaudita al suo arrivo sugli spalti, Tina Turner. Serbavo un bel ricordo degli Stones in terra elvetica, nel luglio 1995 a Basilea  assistetti ad un grande concerto nel corso del Voodoo Lounge Tour, per di più supportati dai Black Crowes,  per cui quando sono state rese note le date dell'appendice europea del 14 On Fire Tour, non ho perso tempo e mi sono subito accaparrato il biglietto, memore anche di altre gloriose ed indimenticabili trasferte zurighesi. Beh, nessuno vuole paragonare questo 1 giugno 2014 con quel rivelatore 11 aprile 1981 all'Hallenstadion ma il rock n'roll è comunque servito da collante a 33 anni di storia e di vita vissuta e se allora ero un giovane ancora alla ricerca della terra promessa e oggi solo uno stagionato appassionato di  rock, è altrettanto vero che l'entusiasmo non è scemato e se mi avessero detto a trentuno anni che a sessantaquattro mi sarei di nuovo imbarcato in un viaggio di 600 km (andata e ritorno) solo per stare in piedi in mezzo ad una folla che parla tedesco e beve birra in quantità industriali in un prato di uno stadio, per assistere a dei settantenni che suonano la loro satisfaction di musicisti, forse mi sarei messo a ridere e avrei proferito " ma non dite cazzate, il tempo non aspetta nessuno, chissà dove sarò a quell'età". Ed invece ha ragione Steve Wynn quando una volta disse : se a ventanni si è stati rivoluzionari, a sessanta si è almeno anticonformisti".

 
 
E quindi eccoci qui in una bella e mite serata di primo giugno, in compagnia di Chiara, sul prato del Letzigrund Stadion tra giovani che bevono e anziani che fumano, ad aspettare che gli amati Rolling Stones mi regalino un altro concerto da ricordare in eterno, non fosse altro perché questa sembra essere la loro ultima tournè. Mai essere sicuri con chi ha venduto l'anima al diavolo ma Jagger prima o poi deciderà di scendere al livello degli  umani, e poi si vocifera che Richards abbia ritirato fuori l'idea degli X-Pensive Winos e Ron Wood, che proprio il primo giugno compiva sessantsette anni e sul palco è stato omaggiato di una enorme fetta di emmenthal, non voglia perdersi la reunion dei Faces. Certo un concerto con Faces come supporter e Stones headliner sarebbe un fantastico evento di selvaggia gerontocrazia rock n'roll, di quelle mai viste nemmeno su Marte. Ma veniamo all'oggi, dopo l'apertura di The Temperance Movement, rokketari troppo fracassoni per i miei gusti, il palco si illumina di colori sgargianti prima che Start Me Up dia il via alla festa.  Avete presente i rockers tutto in nero tipo Nick Cave o E-Street Band degli ultimi anni, beh tutto il contrario, qui sono i colori forti e gli accostamenti improbabili a dominare, il mix cromatico e di luci è studiato nel più piccolo dei dettagli e offre uno spettacolo straordinario, perché i quattro sono abbigliati in modo da trovarsi in sintonia o in forte contrasto, a seconda dell'esigenza della canzone, con quello che si vede negli schermi giganti, due laterali ed uno esagonale al centro del palco, ognuno delimitato da una cornice a losanghe il cui colore muta e trasformalo lo schermo in quadro imponente con dentro i musicisti che suonano, cantano, si muovono, scherzano. Una scenografia che man mano che la notte scende diventa uno spettacolo nello spettacolo, un paese delle meraviglie al servizio dell'incanto del rock n'roll. Jagger cambierà più volte mise, sfoggia giacche di lamé e lustrini, un frac rosso bordeaux con gli strass, una aderente t-shirt viola, una camicia azzurra in Gimme Shelter ed una lunga pelliccia in Sympathy For The Devil durante la quale il palco va letteralmente a fuoco inghiottito dalle fiamme che dagli schermi sembrano venire avanti in un effetto tridimensionale. Keith Richards si presenta con camicia fucsia su t-shirt viola, pantaloni scuri, foulard e scarpe verde smeraldo, Ron Wood è in giubbottino rosso su t-shirt gialla con scarpe da sneakers rosse, neanche sua figlia si vestirebbe così, Watts è il più sobrio, t-shirt rossa a maniche corte infilata su una maglia nera a maniche lunghe. Il gioco cromatico, a cui non sarà estranea Lisa Fisher nell'assolo vocale di Gimme Shelter, e i video offrono una scenografia che amplifica l'impatto emotivo e visivo. Rimarrebbe una illusione da cirque du soleil se non ci fosse però la musica dei Rolling Stones, i quali partono in sordina con Start Me Up, You Got Me Rocking e It's Only R n' R. E' proprio Jagger ad avere una marcia in meno, stranamente statico, ma dura poco. La band si scalda con la rutilante Tumbling Dice accompagnata da una cascata di linguacce e dadi che piovono dal video, poi Jagger si infila nell'abbraccio soul di Worried About You (da Tattoo You) e lo show ha inizio. Suona la pianola, canta in un falsetto che sembra fin esagerato nell'andare a cercare i Temptations, Ron Wood ci mette una zampata con la Gibson e Mick la chiude come una grande preghiera d'amore.

 
 
Let's Spend The Night Together è la canzone votata in rete dal pubblico  per la serata, ci credo poco, penso che siano gli stessi Stones a decidere quale sia il pezzo da fare, ma il pubblico va in visibilio, canta e balla, la versione è di ordinaria amministrazione, aspetto ben altro. Che arriva con una canzone di seconda categoria del loro repertorio ovvero Out of Control. Qui Jagger dimostra quanto talento possegga come cantante e performer, lenta all'inizio, quasi parlata, sale improvvisamente nervosa, tesa, lui soffia nell'armonica e poi sgambetta un finale bluesato intenso e sofferto. Sarà un istrione ma che artista. Honky Tonk Woman offre a Richards di ripassare i suoi riff in un maree di applausi e di donnine discinte che nel video fanno su e giù, poi con Wood e Watts si cimenta in una stentorea, acustica e tenera You Got The Silver e con la band al completo nell'arruffato dirty r&b di Can'Be Seen, due omaggi del pirata. Quando va in scena Midnight Rambler arriva Mick Taylor, la danza parte con l' assolo della sua Les Paul e con l'armonica di Jagger, il ritmo è frenetico, forse troppo ma c'è il rallenty a metà con la sezione ritmica che cala lasciando solo il brontolio di Jagger, poi entra in pista Ron Wood in  un assolo fulminante. Lo strangolatore di Boston è adesso accontentato, il finale è un fiotto di sanguinolento e pericoloso rock-blues. Miss You è quella che è, e Gimme Shelter, la mia canzone preferita del loro songbook, non è pari a quella di altre occasioni. Lisa Fisher la prende troppo alta, è mia impressione che lei abbia perso smalto e sex appeal, ma non faccio in tempo ad intristirmi perché Jumpin' Jack Flash mi scuote, il rock n'roll in tre minuti o poco più, un'invenzione da premio Nobel per la chimica. Il sabba di Sympathy For The Devil è quasi dovuto, fiamme e percussioni voodoo sono il lato circense del pezzo, Jagger ondeggia provocatorio, è dal 1968 che fa il belzebù  sul palco, il lungo immortale assolo di Keith Richards, ogni volta imperfetto, sgangherato, meraviglioso e sublime, è come una droga a cui non puoi fare a meno, erotica, eccitante. Chiude Brown Sugar ma è robetta da dimenticare. Alla fine il meno affaticato sembra proprio Jagger, i volti di Richards e Wood non nascondono la stanchezza e l'età, Chuck Leavell ha tenuto insieme il tutto con la sua maestria, Darryl Jones ha pompato funky dall'inizio alla fine, Bobby Keys ha fatto il suo dovere senza spendersi tropppo, Watts è il batterista che tutte le rock n'roll band dovrebbero (o vorrebbero) avere, preciso,  essenziale, swingato. La più grande rock n'roll band può contare su un batterista jazz, forse sta lì il segreto.

Zurigo non è stanca e il bis non si fa attendere, i due brani conclusivi incoronano un concerto che sebbene  qualche caduta di ritmo e stecca non ha scalfito la fama del più divertente spettacolo rock n' roll della storia. You Can't Always Get What You Want, introdotto dai ragazzi dello Zuercher Sing Akademic Choir, è una sontuosa cattedrale di gospel e soul-rock che sale maestosa al cielo, Satisfaction è in versione da delirio, una febbricitante cavalcata con Richards che regala il suo riff ai fan dei due lati del palco e Jagger che tira fuori l'anima, sfogando la rabbia repressa delle ultime disavventure in un finale alla James Brown. I fuochi d'artificio e l'inchino finale dei musicisti mette il groppo alla gola, è veramente finita la più grande avventura del rock n'roll? Stemperiamo la nostalgia con un bratwurst ed un birra, me lo hanno insegnato loro ad essere irriverenti, è solo rock n'roll ma cazzo come si fa a vivere senza.

 

MAURO ZAMBELLINI   GIUGNO 2014