venerdì 9 aprile 2021

DRIVE BY TRUCKERS: selected live

Erroneamente descritti come una band di Southern Rock, etichetta in qualche modo oggi fuorviante, i Drive By Truckers si sono rivelati una orgogliosa formazione del Sud senza peli sulla lingua, capaci durante l’’amministrazione Trump di lanciare frecce avvelenate contro il governo americano. Non si sono radicalizzati con l’arrivo del ridicolo e pericoloso tycoon dai capelli arancioni, hanno cantato l’America lasciata ai margini in tempi non sospetti quando, all’inizio degli anni duemila, con tre album in sequenza definirono un amaro punto di vista del Sud odierno. Dopo il burrascoso e giovanile avvio all’insegna di un punk sporco di radici, nel 2001 con Southern Rock Opera  rivedevano con disincanto ma inalterato amore l’epopea di quel genere e dei suoi protagonisti, e nei tre anni a seguire con Decoration Day  e The Dirty South raccontavano attraverso un rock arruffato, sincero e disordinatamente coinvolgente, l’incubo a cielo aperto di una terra trasfigurata da un artificioso progresso imposto dalle corporation, dalla corruzione politica e da interessi incuranti della vita delle persone. A metà strada tra orgoglio e disprezzo per un paese che da sempre rivendica la propria diversità e le sue ossessioni puritane, Patterson Hood, Mike Cooley, entrambi nativi dell’Alabama, e compagni non si sono fatti inghiottire dagli stereotipi sudisti, cantando piuttosto le dissonanze e le desolazioni umane di una società stridente, contradditoria, sbriciolata. Un paese senza ritorno che può sopravvivere solo cantando le proprie disfatte e le proprie miserie. E cosi hanno fatto i Drive By Truckers parlando “dell’ascesa e caduta del Southern Rock, rispettandone miti e leggende, ma anche dell’umanità inscindibile di quella regione, di gente umiliata ed emarginata, spesso pronta a trasformare le proprie rivendicazioni in una sorta di sciovinismo” (Fabio Cerbone, Levelland)Per poi affrontare nel sanguigno e variegato The Dirty Sound  un universo di povertà, superstizione, incesti, catastrofi ambientali, dissoluzioni famigliari, dipendenze di varia forma e natura. Con l’intatta capacità, comunque, di usare il rock n’roll, e i suoi piccoli e grandi miti (Carl Perkins’ Cadillac, Danko/Manuel,Steve McQueen,Ronnie and Neil, Cassie’s Brother)  per un messaggio democratico in grado di offrire un senso di appartenenza ad una memoria comune, piuttosto che un alienato orgoglio regionale. Le canzoni dei Drive By Truckers sono zeppe di riferimenti geografici, nomi di persone, inflessioni sudiste, caricature locali, ricordi,  frullati dentro un sound che è spugna di una miriade di idiomi disparati, un intreccio di rock n’roll, Delta blues, country-soul, rhythm and blues, interpretati con l’urgenza di una scapigliata garage band.

Nella sterminata discografia dei DBT (13 album in studio, 6 live più o meno ufficiali, due collection ed una pletora di singoli ed EP) chiunque può ritrovare un pezzetto della loro visione, dall’innocente euforia punk di Gangstabilly  e Pizza Deliverance  alla lucida trilogia “sudista” menzionata sopra, dalla grandiosità di English Oceans  alle allucinazioni di Brighter Than Creation’s Dark , dalla sobrietà rock di A Blessing and A Curse  al southern country-soul (Patterson Hood è figlio di David Hood, storico bassista di Muscle Shoals) di The Big To-Do  e Go-Go Boots, per chiudere con gli episodi arrabbiati e politici  di American Band, The Unraveling  e The New Ok , ultimi capitoli di una saga che ha ribaltato il concetto stesso di Southern rock.



L’intero cammino discografico avrebbe bisogno di un libro intero, qui mi limito a segnalare tre album live registrati  in momenti diversi, in grado però di offrire un angolato spaccato della loro evoluzione artistica. Beninteso, non c’è pellicola migliore per fotografare una band in action se non osservarla in concerto, considerato poi che nell’ambito live le formazioni del Sud non sono seconde a nessuno. Se Alabama Ass Whuppin'  registrato nel 1999 in diversi locali di Athens, città dove sono cresciuti come collettivo, è il furioso attestato della loro giovanile attitudine punk mischiata con i bollori di una disordinata vita sulla strada, bisogna aspettare il 2006 per avere qualcosa di più solido e maturo. In realtà la testimonianza uscirà anni più tardi in occasione di un record store day nel formato di un triplo vinile, assemblato come un bootleg degli anni settanta, salvo l’aggiunta all’interno di un poster disegnato dal loro grafico di fiducia, Wes Freed, (poco meno di un membro della band)  in quello stile gotico-sudista  che ha identificato la loro iconografia .

In quell’anno i Drive By Truckers fecero più di 200 concerti di promozione all’album A Blessing and A Curse.  La band si era fatta notare per delle esibizioni viscerali e arrembanti, conquistandosi seguito e popolarità ma problemi personali e finanziari si addensavano sopra la loro testa  e la “famiglia” cominciava a mostrare segni di stanchezza. Il matrimonio tra il chitarrista e cantante, Jason Isbell, unitosi alla band nel 2001, e la rispettiva moglie, la bassista Shonna Tucker  entrata nel 2004, cominciava a scricchiolare e di lì a poco avrebbero divorziato, qualcun altro aveva avuto figli e stare cosi a lungo  on the road diventava difficoltoso. Il mantenimento dell’equilibrio fu opera delicata e non fu certo di aiuto l’ingente quantità di birra e whiskey che innaffiava le giornate della band. Inoltre, il nuovo album non aveva ricevuto la stessa accoglienza dei precedenti, i fans si aspettavano un altro The Dirty South  e avvertivano i travagli che accompagnarono la sua realizzazione. Con le finanze ridotte al lumicino, i DBT accettarono in estate un tour nazionale come supporter dei Black Crowes ,ma dato che le band in cartello ogni sera erano tre, si trovarono costretti ad un set di 35 minuti nel tardo pomeriggio, quando invece i loro show mediamente duravano tre ore. Arrivarono a Richmond in Virginia a luglio, stanchi e frustrati. L’anno, in quella città, non era cominciato nel migliore dei modi. Il giorno di capodanno del 2006 un crimine orrendo aveva impressionato l’intera nazione. Kathryn e Bryan Harvey assieme ai loro due figli di 9 e 4 anni, e tre membri della famiglia Baskerville-Tucker erano stati brutalmente massacrati nelle loro case di Richmond, e le immagini di quell’orrore avevano fatto il giro delle TV nazionali destando shock e dolore. I DBT avevano appreso del fattaccio nel mentre di una telefonata con l’amico Wes Freed, il quale conosceva molto bene la famiglia Harvey. Un altro amico di infanzia di Patterson Hood ovvero Jay Leavitt gestiva a Richmond l’emporio di dischi Plan 9 Records, ubicato proprio di fronte al negozio di giocattoli World of Myrth di proprietà di una delle vittime, Kathryn Harvey. Erano buoni amici ed amavano entrambi i Drive By Truckers. Gli stessi Harvey spesso frequentavano i loro concerti, e come risposta, Patterson Hood quando il tempo glielo permetteva, si spingeva fino ad Huntsville per vedere in scena Bryan, cantante e chitarrista degli House of Freaks. Tutti questi legami, bruscamente spezzati dal brutale eccidio per rapina (i due autori  Ray Dundridge e Ricky Gray sono stati condannati all’ergastolo e alla pena capitale)  spinsero i DBT a rendersi disponibili per un benefit concert indetto dalla Harvey Foundation  e organizzato da Jay Leavitt proprio nei locali del suo Plan 9 Records. Unico compenso una cassa di birra e due bottiglie di whiskey. Duecento persone accorsero a quell’evento, svoltosi nel 25esimo anniversario di apertura del negozio. Sciolto ed informale ma estremamente emozionante, Plan 9 Records July 13, 2006 , questo il titolo del triplo vinile, è considerata dagli stessi DBT una delle loro migliori performance di quell’era, quando la band contava sui tre chitarristi e cantanti Hood, Cooley ed Isbell, sulla bassista Shonna Tucker, sul batterista Brad Morgan, e sul virtuoso di lap steel John Neff, uno attorno al gruppo fin dagli esordi.  Solo qualche mese dopo questa line-up sarebbe cambiata, qualcuno andandosene per la propria strada, pur rimanendo buoni amici. Quel mitico show del 13 luglio 2006 sancisce la fine di una fase, documentato da sei facciate di disco a dir poco devastanti. Un live che comincia quasi in sordina per poi esplodere in una deflagrazione elettrica talmente coinvolgente che fa pensare all’idiozia di quanti sentenziano che l’idea romantica e pura del rock n’roll è ormai roba da idealisti, e scontato è accettare l’uso di questo per vendere auto, lingerie, jeans e quant’altro. Forse sarà così ma non hanno fatto i conti con autentici outsiders come i Drive By Truckers, la cui sincerità depone per una visione non compromessa della musica. Il materiale di A Blessed and A Curse  è una, ma non la sola, delle anime del concerto visto che in quei giorni i DBT lo stavano promuovendo. Feb 14, Aftermath USA, Gravity’s Gone, Easy On Yourself, Wednesday  fanno da riscaldamento prima che la band si scateni in una performance vibrante, trascinante e sudata che si sviluppa attorno al talkin’ narrativo di Hood e a quelle fiammate che rendono ribollenti le ballate, intrise sia di disperazione che di romanticismo.  Per contrasto il cantato monocorde di Cooley allenta la tensione scalando le marce ma mantenendo salda la direzione rock , in mezzo la voce malinconica di Jason Isbell, accompagnata dai languori della pedal steel di Johnny Neff, evoca paesaggi country. Come se i Black Crowes si unissero ai Lucero nelle desolate pianure desertiche dei Richmond Fontaine. La tempesta chitarristica trae beneficio dal suono della lap-steel, Nine Bullets  emana sapori di country-rock anni ’70,  Decoration Day  sembra scritta dopo decine di ascolti consecutivi di Simple Man  dei Lynyrd Skynyrd, i quali riappaiono nell’ applauditissimo faccia a faccia di Ronnie and Neil, dove si sentono sia l’uno che l’altro. Brillano  i pezzi forti del loro repertorio più antico : la chiacchierata e rutilante 18 Wheels Of Love, il folk stravolto di The Day John Henry Died, la dolce Marry Me,  una scorticata Zip City che pare rubata ai Crazy Horse, l’ imprevedibile Moonlight Mile  di Sticky Fingers  e poco “coperta” dagli stessi Stones, la commovente A World of Hurt e quella Let There Be Rock  in cui Hood racconta di essere nato troppo tardi per vedere gli storici Lynyrd Skynyrd ma di essersi consolato con Molly Hatchet e AC/DC. Plan 9 Records  July 13, 2006   è un live formidabile che ritrae una band in completa ascesa, un documento imprescindibile per gli amanti del rock n’roll.

Due anni dopo è già un’altra storia, Jason Isbell se ne è andato e al suo posto è arrivato un tastierista che usa però anche le chitarre: Jay Gonzalez. Il resto rimane invariato. I due timonieri Hood e Cooley portano la band ad Austin in uno show trasmesso dalla TV locale KLRU per la serie Austin City Limits. Un CD con annesso DVD, Live from Austin, TX,  fa rivivere la serata del 26 settembre 2008. Il lunare Brighter Than Creation’s Dark  è l’album in promozione del tour e i brani estratti permettono alla band di riannodare le radici country della loro musica con un inizio prevalentemente acustico. Il piatto forte rimangono comunque i classici del loro repertorio tra cui gli oltre undici minuti fluviali di 18 Wheels Of Love, cadenzati da Hood con un lento talkin’ che apre a squarci elettrici di romanticismo springsteeniano. Sulla stessa linea il “romanzo” formativo di pura indole rock di Let There Be Rock, e poi Marry Me qui accelerata alla Replacements, la sonnolente Space City, l’amara storia di amici portati via dall’Aids in The Living Bubba ed una abrasiva e rockatissima Puttin’ People On The Moon pescata da The Dirty South, che  alla luce delle scalette live rimane uno degli album più amati.



Ma è Brighter Than Creation’s Dark  ad offrire ai DBT la possibilità di mostrare una facciata intimista. I suoni acustici  di Perfect Timing  e Heathens inducono ad atmosfere country, Mike Cooley si concede la splendida A Ghost To Most , accompagnato nei paesaggi dell’Ovest dalla evocativa lap steel di Neff, gli risponde pressante Hood in The Righteous Path con le elettriche e la lap steel che si impastano in un sentiero fatto di promesse e cadute. Shonna Tucker firma e canta la dolente I’m Sorry Huston prima che la rugginosa 3 Dimes Down apra la seconda parte dello show, la più corposa. Meno dirompente e lungo di Plan 9 Records, Live From Austin  attesta un momento di transizione nella loro storia, prima della definitiva consacrazione.

E’ It’s Great To Be Alive! , titolo preso dai versi di una canzone di A Blessing and A Curse , il monumentale triplo che incornicia tre serate di fuoco tenute al Fillmore di San Francisco il 20, 21 e 22 novembre del 2014 nel tour promozionale di English Oceans. Un live esaltante che offre la panoramica completa delle diverse anime di una band che nel tempo è cresciuta enormemente. Quarantacinque brani sparsi in tre CD, un piece de resistence dove passa di tutto, da un arruffato e imbastardito Southern rock a malconce storie perse nel diluvio di un dopo sbronza, dai racconti sghembi di un Sud trasfigurato a lunghe esternazioni strumentali talmente acide e fuori di testa da far pensare  che il deserto (Gran Canyon) arrivi fino in Georgia, dalle cavalcate roots  intrecciate con fremiti punk ad un rock n'roll fuorilegge che mischia Memphis, Stones, Clash e  Lynyrd Skynyrd. Oltre a quelle ballate di dannata poesia elettrica che immortalano Patterson Hood come il miglior letterato rock della sua generazione, Jeff Tweedy permettendo. Attorno a Hood e Cooley ci sono i due rodati Brad Morgan, e Jay Gonzalez ed il nuovo bassista Matt Patton. In pista vengono portati  i classici ma c’è un abbondanza di titoli che non compaiono negli altri due live citati sopra. Come Where The Devil Don't Say, Woman Without Whiskey,  la remota Runaway Train, una canzone di quando si chiamavano Adam's House Cat Drive, Goode's Field Road, Uncle Frank, la scatenata Hell No, I Ain't Happy osannata da tutto il pubblico, lo strambo quadretto famigliare di Box of Spiders preceduto dalla lunga dissertazione di Hood, il dramma ad alto voltaggio elettrico di Mercy Buckets, l’intensa ballata Angels and Fuselage, e poi Get Downtown, Girls Who Smoke, Birthday Boy, Used To Be A Cop. Oltre agli estratti di English Oceans  tra cui l’ idilliaca First Air Of Autumn, Made Up English Oceans ed il delirio psycho-younghiano della kilometrica Grand Canyon. Negli assoli chitarristici Gonzalez e Cooley non fanno rimpiangere le digressioni di  Wilco, Hood è un narratore come pochi e Cooley l’esatto suo alter ego, la sezione ritmica pesta compatta, quando ospitano una sezione fiati, a cui però il mixaggio non rende giustizia, pagano debito al R&B di Muscle Shoals. Con più di tre ore di musica, It’s Great To Be Alive ! racconta l’odissea di una band che è diventata una delle verità del rock degli anni duemila.



 

MAURO ZAMBELLINI