venerdì 21 novembre 2014

BLUE COLLAR ROCK



Negli anni ottanta per reazione alla musica sintetica e di plastica che riempiva le classifiche e le radio si cominciò a parlare di blue collar rock, di rock operaio, con riferimento alla musica che band e musicisti legati ad un contesto proletario suonavano negli Stati Uniti. Non era un vero e proprio sottogenere perchè come tutto il rock classico derivava dal rock n'roll degli anni cinquanta, dal blues e dal rhythm and blues ma gli autori di questa musica possedevano un low profile indistinguibile dai fruitori e dal pubblico a cui si rivolgevano, spesso come loro ragazzi della porta accanto e figli di quella classe operaia bianca che abitava i sobborghi delle città industriali della East Coast degli Stati Uniti. Città come Pittsburgh, allora capitale della siderurgia, Detroit, il New Jersey, Cleveland, divennero i centri di un rock sudato, sanguigno e spavaldo che cantava di fughe da una realtà che un ceto sociale basso aveva decretato come immutabile e stabilito ed invece questi rockers minavano alla base usando le chitarre per sogni di riscatto, vite diverse, aspirazioni fuori dalla fabbrica, amicizie, amori e futuro dignitoso. Orgogliosi ma intenzionato a giocarsi con la musica una chance per una vita migliore (cosa che i neri facevano con la boxe o il basket), questi rockers erano lo specchio del loro pubblico, ne condividevano mentalità, cultura, cuore e valori, oltre a possedere l'attitudine di chi sul palco dava il tutto e per tutto, come fosse una questione di vita e di morte. Da lì, da quel girone in tuta blu del rock sono usciti Bruce Springsteen, valga a simbolo la sua Factory per come un figlio "fuggiva" la vita di merda del padre, Bob Seger, Joe Grushecky, John Mellencamp sebbene in un ambito più rurale, John Cafferty, Steve Earle pur con le differenze dell'essere un texano a Nashville, Charlie Pickett, anche i Blasters a ben vedere, con caratteristiche legate al rock n'roll fifties e appartenenti alla vasta area di sobborghi di Los Angeles, e altri nomi minori che comunque traducevano una delle verità più profonde e sotterranee della musica rock ovvero che questa musica non comincia e non finisce con le superstar ma con i cento e cento dischi dimenticati che brillano lo spazio di un istante. Gli anni seguenti hanno un po' cambiato lo scenario, alcuni di quei blue collar sono diventati delle star ma non hanno smarrito, è il caso di Springsteen, il sentito legame con le radici e l'ambiente da cui sono usciti, lo testimonia la popolarità che gode ancora oggi nelle città della cintura industriale della East Coast, ma la definizione blue-collar ha perso un po' di smalto e ragione, in virtù del fatto che la classe operaia è stata ridimensionata dalla crisi e certe roccaforti industriali si sono trasformate (Pittsburgh) o degradate (Detroit), finendo come termine nell'essere usato, a volte a sproposito, come una etichetta vetusta ed ingiallita per band dalla dimensione locale, proprie di un sottobosco marginale e localistico, solitamente confinato a club e bar e a qualche disco realmente indipendente. Ne è un esempio GB Leighton di Minneapolis col suo Live From Pickle Park, anche se la scena cosidetta americana ha talvolta partorito nomi ascrivibili all'universo blue collar mediati con una matrice rurale e country-folk.

 Proprio la fusione di americana con l'attitudine orgogliosamente blue collar di un rock di serie B dà modo di apprezzare due dischi interessanti recentemente usciti sul mercato . Il primo, e di certo più eccitante è The First Waltz degli Hard Working Americans, sigla sotto cui si nasconde un supergruppo formato da personaggi minori ma validi del rock Usa, come il cantante e songwriter Todd Snider, il bassista dei Widespread Panic Dave Schools, il chitarrista di Chris Robinson Brotherhood (e Ryan Adams) Neal Casal, il tastierista Chad Staehly (Great American Taxi) ed il fratellino di Derek Trucks, Duane, alla batteria. Hanno debuttato nel 2013 in un concerto a Boulder in Colorado e nello stesso anno hanno pubblicato l'eponimo album registrato negli studi di Bob Weir a San Rafael in California. Danno il meglio di sé in concerto, scelta quasi obbligata per una blue collar band, considerando il fatto che il disco d'esordio era composto interamente da cover. The First Waltz, titolo di caustica ironia low class, è un rockumentario in DVD che assembla prove di concerto, spezzoni di show a Boulder, Nashville e San Francisco, racconti personali, scene di strada, estratti di registrazioni in studio, corredato da un CD che funge da colonna sonora del film. Ne esce una fotografia variopinta ed eloquente di una ruvida band di strada che si muove tra roots e southern rock, blues, jam psichedeliche e folk con una musica pulsante, sanguigna, onesta e coinvolgente. L'identità di quelle che erano definite bar-boogie band qui in possesso di un contagioso groove che apre a jam, strumenti a ruota libera, riletture sciolte, improvvisate, per nulla canoniche. Una band che dal vivo è garanzia di divertimento e sano rock dal basso, giusta attitudine e feeling d'assieme, basta ascoltarsi la lunga Mission Accomplished che altro non è che una jammata rivisitazione di Willie and The Hand Jive per accorgersi che questi Hard Working Americans sarebbero capaci di farvi perdere la testa se per caso venissero a suonare sotto casa.

 Un mix di Black Crowes, NMAS, Bottle Rockets con il piglio dei blue-collar rockers e l'inventiva della band  californiane, anche se di base pulsa un rock sporco di blues, autostrade e Memphis. Proprio l'origine dei brani coverizzati svela la natura "proletaria" degli HWA, canzoni di autori non troppo di fama, che appartengono al sottobosco della musica roots e del rock provinciale, è il caso di Kevin Kinney e della sua Straight To Hell, brano che era su un disco dei Drivin n' Cryin oppure di I Don't Have A Gun di Tommy Womack, rock writer conosciuto da una cerchia ristretta di appassionati. La prima è una ballad segnata dalla voce straziata di Snider e da una lap steel malinconica, scaraventata all' inferno da un lancinante assolo di elettrica, la seconda sembra estratta da un disco di Chris Robinson Brotherhood. Appartengono allo stesso mondo dei B-records Down To The Well (solo sul DVD) di Kevin Gordon, lo scalpitante country-rock Stomp and Holler di Hayes Carll e la serrata Another Train di Will Kimbrough mixata con la cruda Workingman Blues mentre dal repertorio folk di Gillian Welch e David Rawlings arriva la delicata Wrecking Ball. Ma sono altre tracce a definire al meglio il set blue collar degli HWA, la scura ed ipnotica Blackland Farmer, misto di notturno blues, rimandi hillbilly e foschie roots che si alzano in una ubriacante coda strumentale, la già citata Mission Accomplished, una acida e doorsiana Guaranteed e quella The Mountain Song all'insegna dei Grateful Dead che va a braccetto con una delle quotes che accompagnano il disco, scritte nel booklet interno, ovvero Jerry Garcia è importante come Benjamin Franklin ed il rock n'roll ha lo stesso valore della Costituzione. La classe operaia va in paradiso.

Che il blue-collar rock non ne faccia una questione di quote rosa, ovvero chi sa suonare col cuore e con l'anima venga avanti, non importa se maschio o femmina, lo dice il nuovo disco di Mary Cutrufello, Faithless World. Lo scalpore che accompagnò il suo debutto nel mondo discografico, prima un album autoprodotto e poi nel 1998 When The Night Is Through per la Mercury, è ormai un lontano ricordo, con gli anni la tenace cantante e autrice di Houston (ma cresciuta nel Connecticut) è rimasta relegata al circuito marginale dei piccoli club e bar. In Italia c'è venuta parecchie volte e chi l'ha vista dal vivo sa che se il clamore è svanito, questo non si può dire della sua grinta e delle sua onestà artistica. Faithless World sembra quasi una ripartenza per una cantautrice rock che da giovane ha idolatrato Springsteen e col tempo si è costruita una sua personalità tra songwriting rock e radici. Brava nello scrivere, la Appaloosa offre la possibilità di leggere i testi del disco tradotti in italiano, Mary Cutrufello possiede una voce rauca e grintosa che si adatta al suo rock arrembante e alle sue storie di perdenti e illusi, ne è esempio l' inizio del disco con Cold River e Promise Into Darkness, due brani che avrebbero fatto la felicità di quanti sull'onda di Darkness e The River si sono messi ad imitare il Boss. Il mondo di Mary Cutrufello si consuma in stanze di motel, nelle strade della vasta provincia americana, in città anonime, in relazioni fallimentari e occasioni perdute, un universo proletario che pur non direttamente legato alla classe operaia ne riflette la precarità, la miseria, il desiderio di agganciare un ultima chance. Mary Cutrufello ha una verve ruvida e texana, tutto Faithless World parla un linguaggio diretto, senza fronzoli e autoindulgenza, ma radicato nel rock. Basta arrivare al terzo brano, Lonesome and The Wine, una storia di solitudine e tradimento in un fugace incontro nel bar di un hotel, per accorgersi che tra gli amori della Cutrufello oltre al Texas e al Boss ci sono gli Stones di Dead Flowers e quel modo di fare country fuori dagli stereotipi e da Nashville che è la cifra stilistica di Steve Earle. In Worthy Girl, non sono una ragazza degna e non voglio saperne del tuo amore, la cantautrice mostra il suo lato riot girl, la voce è aspra, le chitarre mordono ma è l'organo di Tommy Barbarella a dare spessore al brano, una presenza importante anche in Promise Into Darkness e Fool For You, quest'ultimo un rockaccio tutto nervi urlato con la rabbia dei bassifondi. La tensione si allenta in Fools and Lovers ed in Three Broken Hearts altro episodio da roadhouse dove gli uomini si succedono in camere di motel senza amore e lei rimane con un grande vuoto nel cuore, lasciandosi scappare l'unica occasione per cui valeva la pena tentare. Ci pensa la ferrovia di Santa Fè (Santa Fe Railroad) a portare un po' di conforto, qui il country è solo uno sfondo per una ballad dai colori western in cui primeggia il tocco della lap steel di Mike Hardwick e la Cutrufello si fa carico di una calda nostalgia. Di coraggio ed orgoglio ne ha la Cutrufello, per come ha vissuto la sua vita, per come ha gestito una carriera di alti (pochi) e bassi (tanti) ma chiudere un disco con una Canzone sulla Fed-Ex non è da tutti. Inventa un roots-blues agro e polemico dove lei veste i panni di un esausto corriere con la schiena rotta che fa le sue ingombranti consegne in mezzo alla neve e al casino totale dopo aver guidato tutto il giorno, mandando a quel paese lui e quei posti di merda in cui vivono. Ribelle nei modi, blue-collar nello spirito, è un Mondo Senzafede ma l' indomita Mary Cutrufello ci ha fatto il callo.



MAURO ZAMBELLINI







martedì 4 novembre 2014

AUTUNNO CALDO


Nulla a che vedere con il più tribolato contenzioso governo/sindacati con imminente sciopero generale, qui stiamo sul frivolo e parliamo di rock anche se chi ama il genere sa quanta cultura si nasconda dietro un disco. Un autunno così caldo non capitava da diversi anni, ottimi o buoni dischi arrivati sul mercato in finale d'estate o al primo freddo, qualcuno firmato dalle grandi star, altri più anonimi ed indipendenti. Di Gary Clark Jr. e del suo Live ho già scritto in questo blog, per chi scrive è il disco blues dell'anno pur irrobustito da una massiccia dose di rock e di Hendrix, che rimane sempre il più grande bluesman elettrico. Se non siete ancora convinti del ragazzo nero venuto dal Texas procuratevi il DVD Rock In Rio, testimonianza di un concerto tenuto in quel festival a Lisbona il 29 maggio di quest'anno. E' una bomba, non è lungo come il doppio live CD, solo dodici pezzi ma bastano e avanzano per far capire come canta e suona il nostro, coadiuvato da una band (basso, batteria e altra chitarra) formidabile ed incendiaria. E' un bootleg ma video e audio sono eccellenti, trovatelo, costa poco e vale molto.

        A questo punto è il disco dell'anno e non lo dico solo io, difficile fare meglio di Down Where The Spirit Meets The Bone di Lucinda Williams, un doppio album che riporta il rock in cima alle vette della grande musica con una sequenza di canzoni che racchiudono l'intero percorso della cantautrice e rockeuse della Louisiana e dimostrano cosa sia l'ispirazione quando questa si unisce a cuore, mente, esperienza, sentimento e tecnica. Messasi in proprio con la casa discografica Thirty Tigers, coadiuvata  da vecchi amici e grandi musicisti (tra cui l'immarcescibile Greg Leisz, lo swampin' Tony Joe White e l'eclettico Bill Frisell) Lucinda Williams ha infilato una carriera intera in 20 canzoni che hanno il potere di trascinare l'ascoltatore in un mondo popolato di tristezze e risalite, malinconie e rabbia, sogni e delusioni, creando un doppio album che ha la valenza di capolavori come Exile degli Stones, Blonde on Blonde di Dylan, London Calling dei Clash, The River di Bruce. Ispirazione, maturità, senso del rock n'roll, emozioni, anima scura e occhio vivo, Down Where The Spirits Meets The Bone è un doppio album amaro perché il mondo, della Williams ed il nostro, non è gioioso ma anche liberatorio, abbandonato allo swing di un rock n'roll di strada, con ballate che ti strappano lacrime e chitarre elettriche che  ti incitano a resistere verso la vita e la speranza, visioni che evocano quel Sud appiccicoso, celato, segreto e nascosto così come appare nudo e crudo nelle immagini della serie True Detective e cantilene vocali basati sulla ossessiva reiterazione di versi e parole così da trasformare la canzone in una specie di mantra ipnotico, assuefante, sensuale. Brani come Foolishness o Something Wicked This Way Comes  sono esempio di nuova metrica elettrica, non si scrivono e cantano tutti i giorni, bisogna avere percorso una intera storia musicale, dal folk al blues, dal country al rock  con dischi uno più bello e diverso dall'altro, oltre a possedere la magia di raccontare e dare corpo a quell'incessante serbatoio di umori, misteri e fascino che è la Louisiana. Down Where The Spirit Meets The Bone è proprio come suggerisce il titolo, spirituale e carnale, assolutamente colossale nella sua qualità artistica.

 

      Al primo ascolto sono rimasto con un sorrisetto ebete sulle labbra, come dire, carino, bravo brother Jackson. Poi dopo diversi ascolti ho cominciato a sciogliere la matassa e a mettere da parte la nostalgia, sono entrato dentro le note e il significato delle canzoni e alla fine mi sono trovato con un album che non passa mattina che non lo metta nel lettore come primo disco della giornata. Standing In The Breach è davvero un bel disco e lo dice uno che non è mai stato un fan sfegatato di Jackson Browne anche se Late For Sky  e Running On Empty hanno riempito con le  loro luci al calar della sera una fase della mia vita quando ero ancora giovane e la west-coast simboleggiava un futuro ribollente di speranze. Ma Browne era comunque troppo melodico e "poetico" per il mio essere, preferivo le facce sporche e i teppisti elettrici, anche se come anima inquieta Browne non si è fatto mancare nulla, amori naufragati, cocaina, depressione, smarrimento dopo il diluvio. Ma quando nel 1979 mise in piedi No Nukes c'era un altro in quel concerto che vestiva meglio le mie urgenze ed il mio diventare adulto e rifletteva le mie origini popolari. D'altra parte non ho frequentato il liceo ma l' istituto tecnico come perito chimico e questo forse spiega perché alle poesie preferivo le Fender.  Ma con gli anni in-anta ho riscoperto un lato melodico che Jackson Browne in Standing In The Breach coglie perfettamente. Non è nulla di nuovo Standing In The Breach ma è il cliché di Jackson Browne elaborato al meglio, c'è l'eco dei suoi vecchi inni, la sua voce è rimasta convincente come quella di un fratello che ti avverte dei pericoli e dei fallimenti ed il passato è filtrato da una consapevolezza del presente che è specchio di una mente aperta, un intellettuale affatto imbolsito che scrive di quanto sia capace l'uomo nel far del male all'uomo. In più c'è una band coi fiocchi, Don Heffington alla batteria e Bob Glaub al basso oltre a Greg Leisz e Val McCalum assi portanti anche del disco di Lucinda Williams, insomma Standing In The Breach è uno dei suoi migliori dischi di sempre.

   Se quello di Gary Clark Jr. è il disco blues dell'anno, Plain Spoken di John Mellencamp è il disco folk dell'anno. Dismessi gli abiti di little bastard dell'heartland rock,  Mellencamp insiste sulla strada iniziata con Life Death Love and Freedom e No Better Than This ma più che l'ipnosi rurale di quei due dischi, in verità un po' monotoni con canzoni troppo simili e lentezze asfissianti, qui sceglie un basso profilo elettro-acustico con una maggiore ricchezza strumentale, arrangiamenti più vari e soluzioni ricche dal punto di vista melodico. In definitiva Plain Spoken scorre con più brio senza rinnegare le tinte seppiate di un folk intriso di blues rurale, country urbano e songwriting dylaniano con l'unica eccezione di un finale, Lawless Times, all'insegna di un rock arruffato e garagista. Trouble No More del 2003, disco di cover e lucido excursus in quel patrimonio di musica americana con cui erano cresciuti lui e i suoi ascoltatori, risulta essere lo spartiacque della carriera di Mellencamp, dopo quel disco è cambiato e oggi la sua maturità e la sua coscienza lo portano ad avere una consapevolezza sociale ed una attenzione speciale verso quell'America che non crede più ai sogni. Una sorta di Woody Guthrie elettrico. 

   Se questi sono i grandi dell'autunno 2014  dietro c'è un pullulare di cadetti che regala lavori più che dignitosi. A cominciare dagli italiani dove una volta di più si fanno notare i pesaresi Cheap Wine con Beggar Town, un disco cupo e pessimista nei testi ma con una sintonia tra il pianoforte di Raffaelli e le svisate acide di Michele Diamantini pressoché perfetta, a cui si saldano il cantato misurato del fratello Marco e una sempre nervosa sezione ritmica. Stati d'animo rabbiosi con qualche squarcio di luce, ballate e fughe psichedeliche, i Cheap Wine arrivano con Beggar Town al punto climax della loro avventura, con un disco lucido ed una produzione da manuale, un suono secco e pulito pur nel sublime caos della loro tempesta elettrica. Mai uguali a prima ma coerenti con la loro storia e la loro progressiva evoluzione i Cheap Wine sono da un pezzo un punto di riferimento in Italia per quanti coniugano romanticismo ed urbano underground. Legati invece ad un contesto roots i Lowlands hanno pubblicato un album, Love Etc...., che riflette gli stati d'animo del loro frontman Edward Abbiaticon canzoni recuperate dal passato, canzoni che lo hanno aiutato a superare momenti funestati da perdite, abbandoni, delusioni. Edward Abbiati è un ottima penna nel panorama del rock made in Italy, il suo disco con Chris Cacavas, Me and The Devil, è una delle cose migliori dell'annata in corso e allo stesso modo Love Etc...pur essendo meno eclatante è un lavoro che esalta il suo lato intimista e riflessivo. Coadiuvato da un'ottima band a cui si è aggiunta una sezione fiati di derivazione classica e jazz, Abbiati coi Lowlands assembla canzone d'autore, folk-rock ed il respiro ampio di una sezione fiati, oltre a cori, violino e violoncello, portando  le loro radici in una bettola di New Orleans. Immutato il mood intimista e sentimentale delle canzoni ma il risultato è  un folk da marching band con parecchio swing nel sangue, armonie pop, coreografie dixieland, voci soul in uno dei dischi più anomali del loro itinerario musicale, un modo intelligente per parlare d'amore senza cedere alla retorica e ai piagnistei.  

 
Di tutt'altro tenore è Americana dei Guano Padano, un disco strumentale che come suggerisce il titolo si addentra nei paesaggi di quella musica americana che si nutre di suggestioni letterarie come le fotografiche sulla Grande Depressione di Dorothea Lange, gli scritti di John Steinbeck, Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters, Richard Wright,  Hemingway e John Fante. I Guano Padano ovvero le corde di Alessandro Stefana, il contrabbasso di Danilo Gallo, le percussioni di Zeno De Rossi più una serie di strumentisti vari compresi trombe, trombone e sassofoni, cuciono la fascinazione verso  americana con la stima nei confronti di quegli intellettuali italiani che negli anni neri del fascismo sfidarono il regime introducendo nella nostra cultura, attraverso letture e traduzioni, la letteratura americana contemporanea. Alcune tracce del disco sono influenzate da La Luna e i Falò e i Mari del Sud di Cesare Pavese ed il titolo disco si riferisce ad una controversa antologia realizzata negli anni 40 del novecento su progetto di Elio Vittorini, una collezione di testi di 33 narratori americani alla cui realizzazione collaborarono per le traduzione Cesare Pavese, Eugenio Montale e Alberto Moravia. Purtroppo Vittorini non riuscì a pubblicare Americana nel modo in cui lo pensò perché il regime fascista in quel periodo poco tollerava un'esterofilia che non parlasse tedesco. Eppure la curiosità verso la letteratura americana aveva suscitato fin dagli anni trenta un sotterraneo interesse tra gli intellettuali, così hanno fatto tanti anni dopo i Guano Padano approcciandosi quegli autori americani, subendone la stessa fascinazione e restituendo un'America primitiva, antica e vergine, uno score che traspone sterminate pianure, terre desolate e sobborghi poveri di città industrializzate, una musica che odora sudore, polvere e libertà. Ascoltare Americana è come immergersi in una soundtrack di un film in bianco e nero, il riferimento più vicino è lo splendido Nebraska di Alexander Payne con Bruce Dern e la musica di Mark Horton, il quale è difatti presente nel disco dei Guano Padano con dobro e banjo, assieme a Joey Burns dei Calexico. Visionario a tratti, affascinante sempre nelle sue evocazioni da road-movie,  Americana è un quadro di neorealismo elettroacustico con sprazzi ritmici e rarefazioni melodiche, visioni desolate ed improvvise esplosioni di energia, alchimie strumentali degne di Bill Frisell e scampoli dell'intreccio tra roots, jazz e musica etnica di Charlie Haden, svisate surf e accelerazioni twang anni '50, recitazioni orali, silenzi e squarci rumoristi alla King Crimson. Da sentire assolutamente.
 

    La parziale delusione di Somewhere Under Wonderland dei Counting Crows, uno degli album meno ispirati della loro collezione, è stata lenita da un paio di dischetti cosidetti minori ma interessanti. Cory Branan è un simpatico giovinastro del Mississippi con un pronunciato senso dell'ironia visto che il quarto suo disco lo intitola The No-Hit Wonder, dedica a chi come lui frequenta le retrovie della musica senza mai godere dei riflettori del successo. D'altra parte la sua non è musica di moda visto che il mestiere del cantautore country-rock è da parecchio in disuso ma il suo disco suona fresco e arzillo, come fosse l'esordio di Todd Snider. In effetti in The No-Hit Wonder un po' di nomi illustri ci sono, l'ex Drive By Truckers Jason Isbell, l'ex Black Crowes Audley Freed, l'ex Whiskeytown Caitlin Cary, gli Hold Steady Craig Finn e Steve Selvidge, amici che dicono dei bar frequentati dal nostro ovvero tanto entusiasmo, birra a fiumi e quell'honky tonk che a volte è scapigliato rockabilly, altre  ballate per addolcire un'esistenza di sfighe e magre ricompense. Insomma Cory Branan è l'ultimo cowboy arrivato in città, jeans lisi, stivali impolverati, faccia da schiaffi, come si fa a non volergli bene.  

 
 
Dal milieu cantautorale della East-Coast americana esce invece  Anthony D'Amato laureatosi a Princeton con il poeta e premio Pulitzer Paul Muldoon e oggi songwriter facente parte di quel giro d'artisti "colti" che comprende Pete Yorn, Rhett Miller, Josh Ritter. Adottato dalla scena newyorchese, D'Amato è autore di tre album, l'ultimo dei quali, The Shipwreck From The Shore è prodotto da Sam Kassirer ( Longhorne Slim, Lake Street Dive, Josh Ritter). Gli studi effettuati hanno segnato in modo netto il suo modo di comporre e cantare, se da una parte di fatti le sue canzoni mostrano evidenti sfumature poetiche con testi interessanti e complessi sull'amore ed il vivere, dall'altra parte il suo cantato sceglie un tono recitativo diverso dai conosciuti talkin' del folk-rock  d'autore. Questo modo di esprimersi regala a D'Amato una "voce" ed uno stile particolare pur muovendosi in un ambito di folk urbano e di indie-rock e soprattutto una coralità con cui, assieme ad un nutrito team di musicisti, costruisce canzoni che evocano band recenti come i Mumford and Sons e gli Of Monsters and Men. Non succede dappertutto in The Shipwreck From The Shore ma quando il pezzo si allarga in una complessità strumentale dove si sentono trombe, violini,tastiere, armoniche, clarinetti, oboe, oltre al consueto bagaglio di basso, chitarra,batteria, il senso epico di quelle band risalta in tutta la sua coralità. In altri momenti sono invece le ballate dai colori nordici e le solitudini dei grandi spazi a prevalere, gli arpeggi di chitarra e la vena folkie stralunata e poetica, cosa che piacerà a chi ha apprezzato i dischi di Jon Allen, Ben Howard, Josh Ritter, Willy Mason. Anime inquiete dai toni gentili. Vorrei parlarvi anche del nuovo disco di Ben Howard, I Forget Where We Were e del curuioso Heigh Ho di Blake Mills ma ad oggi non me li sono ancora procurati. Sarà per la prossima volta. Sweet november.

MAURO ZAMBELLINI