venerdì 31 gennaio 2014

NEBRASKA

 

L'accostamento nasce per forza di cose : il titolo, il bianco e nero della copertina e delle fotografia. Ma nel disco di Springsteen, uno dei suoi album più drammatici, intensi ed espressivi, il bianco e nero di quella indimenticabile copertina, una livida highway del midwest ripresa dal cruscotto dell'auto, con i tergicristalli appesantiti dalla neve, era "mitigato" dal rosso e nero dei titoli, non casuale rimando alla storia noir e di sangue che veniva raccontata o almeno aveva contribuito al tono "perdente" e al crudo  ritratto di un America marginale. Nebraska è uno dei punti più alti dell'ispirazione springsteeniana, istigato dal caso di cronaca che nel 1958 vide protagonista Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, lui diciannovenne che uccise la sorellastra di due anni e i genitori di lei e poi si diede alla fuga, con la compagna, dal Nebraska  fino al Wyoming lasciando lungo la strada undici morti. Alla fine della corsa lei fu rilasciata perché minorenne e lui condannato alla sedia elettrica e giustiziato il 25 giugno 1958. La storia fu narrata da Ninette Beaver nel libro Caril e raccontata da Terence Malick nel film Badlands (La Rabbia Giovane) ma la vicenda fu in qualche modo responsabile, assieme alla lettura dei romanzi di Flannery O'Connorr,  della vena che portò all'album Nebraska, anche se una delle più famose canzoni di quel disco, Highway Patrolman, servì a Sean Penn per un altro heartland-movie ovvero The Indian Runner (Lupo Solitario).

Le analogie finiscono qui, nel titolo e nel bianco e nero, ma chi dovesse vedere il bellissimo film di Alexander Payne, intitolato appunto Nebraska, non potrà fare a meno di trovarci quella desolata poetica delle strade secondarie, qui priva di fatti sanguinari ma inebriata da una contagiosa sebbene amara ironia,  che per molti anni ha accompagnato la musica e le visioni di Springsteen. Bisognerebbe chiedersi perché, al di là della cronaca, sia sempre il Nebraska ( e non, che so, l'Indiana o il Kansas o l'Iowa), il teatro del grande nulla americano.  La storia è semplice e presto detta:  Woody Grant ovvero un magistrale Bruce Dern, è un vecchio scontroso, amareggiato e smemorato, convinto di aver vinto un milione di dollari in quelle fittizie lotterie che sono un veicolo pubblicitario per vendere altre merci. Dern si avventura in un road movie provinciale tra la periferia di Billings in un Montana fuori da qualsiasi circuito turistico ed un piatto ed anonimo Nebraska, per andare a riscuotere il premio, accompagnato dal figlio quarantenne che prima cerca di dissuaderlo e poi lo asseconda in questo viaggio, conscio di regalargli un ultimo motivo di una vita altrimenti incanalata su un binario morto. Nel viaggio Woody Grant ed  il figlio (interpretato da Will Forte) incontrano cittadine semideserte e metropoli senza storia,  vecchi concittadini, riunioni di famiglia, parenti ingordi ed insulsi, ricordi, liti, riconciliazioni, in quello spirito nomade che è stato uno degli elementi caratteristici dei film della New Hollywood degli anni settanta, evocando pellicole come L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich e il più recente Una Storia Vera di David Lynch, con gli echi però agrodolci del neorealismo italiano.

Nebraska è neorealismo americano blue-collar, il critico cinematografico Giona A. Nazzaro su FilmTv  l'ha paragonato per essenzialità e composizione dello spazio, ad una canzone di Howe Gelb dei Giant Sand, personalmente trovo che la narrazione abbia i tempi ed il bianco e nero, magistrale la fotografia di Phedon Papamicheal, delle canzoni dello Springsteen suburbano, una provincia una volta saldamente operaia ed oggi dimenticata dalla crisi finanziaria. La fotografia è superba, desolata e poetica al tempo stesso e contribuisce a delineare lo spirito della storia, il profilo dei personaggi e gli spazi di un paesaggio che non si fa fatica ad accostare al mondo di Springsteen, in primis proprio Nebraska. Fotogrammi che lasciano senza fiato, che a tratti evocano gli scatti di Ansel Adams, quadri di un America profonda colta nelle lentezze di vite ordinarie ed un po' scontate di uomini tristi ed autentici, non ancora sconfitti dalla vita.  Alla donna della lotteria che chiede al figlio se il padre ha l'Alzheimer o la demenza senile, il figlio risponde " no signora, è solo che si fida di quello che la gente gli dice".  Ed è questa la frase del copione che ha convinto Bruce Dern ad accettare la parte dopo molti anni di inattività, un gigante cocciuto e commovente che non ride mai, non ha mai riso e non pensa alla morte, perché vive già in un cimitero ma al tempo stesso è un monumento ai pionieri d'America, è un puro. (Roberto Manassero, Film TV).

Tra periferie urbane, tristi quartieri residenziali di una lower class senza sogni, cittadine ridotte a  ghost town, luminosi scorci rurali, strade dritte nel vuoto, tavole calde misere come gli stessi frequentatori, frammentari dialoghi di una ineluttabilità del vivere, Alexander Payne (A Proposito di Schmidt, Sideways, Paradiso Amaro) costruisce una ballata crepuscolare e malinconica ma capace di regalare attimi di verità e di bellezza, oltre ad una divertente vena tragicomica. Buoni sentimenti espressi però a colpi di amarezza ed ironia. Accompagnate dalla bella colonna sonora di Mark Horton nello stile del Bill Frisell country-oriented, le immagini di Nebraska ci riportano all'essenza del cinema della New Hollywood e a quei road-movie che hanno formato il nostro immaginario americano ed una sensibilità folk-rock del vero sentire (e vedere).  Da non perdere.

 MAURO ZAMBELLINI

sabato 25 gennaio 2014

THE ANIMALS



 
   Hanno un bel dire i dylaniani ortodossi quando disquisiscono  delle meraviglie della House of The Rising Sun  contenuta sul primo album (1962) del maestro se lo stesso Dylan la prima volta che la ascoltò nella versione degli Animals andò con la macchina fuori strada. Non fu l'unico anche se il suo shock vale mille dei nostri, non avevo ancora l'età per la patente e  guidavo solo un motorino ma quando assieme ad un pugno di amici sentii nel mezzo degli anni sessanta in un jukebox di paese  House of  The Rising Sun avvertii che qualcosa stava succedendo e nulla sarebbe stato più come prima. Ero un pischello ma sentii che  quella canzone possedeva una tensione ed un melodramma incredibili, quell'arpeggio di chitarra all'inizio, la voce, quella voce, ed un organo che ti rivoltavano il cuore e i sensi e per la prima volta ti facevano capire cosa fosse veramente il blues, anche se erano dei bianchi a suonarlo, perché quella casa a New Orleans possedeva un  mistero che più intrigante non poteva essere  ed era tutta altra cosa rispetto a ciò che avevamo già sentito dei Beatles,  e sarebbe dovuto passare un altro anno prima che Satisfaction buttasse definitivamente all'aria tutta la nostra educazione piccolo-borghese, mettendoci di fatto sulle barricate contro la famiglia, la scuola, la chiesa e poi,  di lì a poco,  contro tutto il sistema, almeno così si diceva.
 

Mi sono sempre chiesto perché gli Animals, tra i gruppi inglesi della prima ondata, sono stati i più amati, da molti più degli stessi Beatles e Rolling Stones, sicuramente più di Kinks, Who, Small Faces, Yardbirds, probabilmente perché fin dal loro esordio trasmettevano  quell'orgoglio  blue-collar che gli derivava dall'essere prima di tutto dei provinciali che avevano trovato nel blues la via per fuggire da una vita anonima e poi sembravano davvero  dei  figli della classe operaia, dei ragazzi della porta accanto. Faceva quindi molto figo ,  al tempo, immedesimarsi in loro o  parteggiare per loro, sembravano già più adulti, scafati e insofferenti alle mode rispetto agli sbarbati baronetti, alle foruncolose pietre rotolanti e a tutto il mondo del beat londinese. Una sensazione "a pelle" condivisa però da molti, compresi gli stessi musicisti che trovavano nel gruppo di Eric Burdon  e Alan Price, i due fondatori della band, quella purezza e quell'anticommercialità che il blues sapeva sprigionare per essere musica di schiavi e oppressi,  basta leggersi qualsiasi biografia di Bruce Springsteen ad esempio  e ritrovare  quella passione e quella stima per il gruppo di Newcastle upon Tyne che altrimenti mancava per altre band dell'epoca. Senza dimenticare che tra le prime foavorite things  del Boss c'erano  It's My Life, uno di singoli di successo degli Animals,  e  Boom Boom  che d'accordo  era  di John Lee Hooker ma che Bruce, come tanti di noi, l'avevano conosciuta nella versione di Burdon e soci.
L'incredibile voce di Eric Burdon ti si appiccicava addosso e non ti lasciava più, ancora adesso a cinquanta anni di distanza quando partono le prime note di House of The Rising chiunque la stia ascoltando ha un sussulto, come se venisse proiettato nell'olimpo delle bellezze eterne,  si alza lo sguardo cercando altri occhi compiaciuti nel condividere un tale benessere, quel piacere momentaneo che trasmettono solo le grandi opere d'arte, perché House of The Rising Sun è una vera opera d'arte ed è la madre di tutte le canzoni rock che sarebbero venute in seguito.

E' un grande piacere ritrovare gli Animals nel 2013,  per la prima volta rimasterizzati in Cd con la sequenza dei loro primi quattro album americani per la Mgm, assemblati in un box-set insufficiente dal punto di vista del booklet (chissenefrega della t-shirt) e  con l''handicap di un prezzo troppo elevato per questi tempi (circa  90 euro), non una novità quando c'è di mezzo l'affarista Allen Klein, lo stesso che detiene i diritti dei Rolling Stones della prima era. Cinque Cd, compreso un raro Ep di quattro canzoni, sono il contenuto del Box, poche bonus tracks  ma tutto il meglio della loro produzione fino all'estate del 1966  con una qualità audio eccellente. Nel raro Ep si trovano versioni personalizzate di I Just Wanna Make Love To You e Big Boss Man di Willie Dixon, Boom Boom di John Lee Hooker e Pretty Thing di Bo Diddley ovvero le fondamenta della  loro musica , l'anima blues delle loro canzoni e le loro radici rhythm and blues e soul. Sono registrazioni che arrivano dal lontano 1963,  eseguite nello studio casalingo di Phil Wood a Wylam, pubblicate alla fine di quell'anno e poi ripubblicate nel 1965 in Early Animals per la Decca.

Originariamente edito dalla Mgm nell'agosto del 1964  è The Animals, secondo Cd in questione, prodotto da Mickie Most e grande debutto a 33 giri della band in terra americana. L''inizio è folgorante, c'è  House of The Rising Sun,  grande successo internazionale  di quell'anno ( uscì quasi contemporaneamente anche una versione italiana dei Los Marcellos Ferial)  e poi undici tracce esplicative del vangelo musicale del gruppo, qui formato da Eric Burdon, Chas Chandler al basso, Alan Price voce, piano e organo, John Steel alla batteria e Hilton Valentine alla chitarra. Compaiono Talkin 'Bout You di Ray Charles trasformata in Shout   e poi Around and Around e Memphis, Tennessee di Chuck Berry, I've Been Around di Fats Domino e I'm Mad Again di John Lee Hooker, più altre tracce meno note ma altrettanto rappresentative del loro blue collar soul-blues-rock  contraddistinto  oltre che dalla voce potente di Burdon, dallo spettacolare lavoro di Price con le tastiere, l'Hammond in primis ma anche pianoforte e Vox.  Il Cd contiene il primo 45 giri inglese del gruppo, Baby Let Me Take You Home ma la bomba rimane House of The Rising Sun ,  un traditional del cantante dei Monti Appalachi Clarence Ashley che la registrò nel 1934 ma che in mano agli Animals  divenne un  blues di sesso, violenza e penitenza. La interpretarono anche  Woody Guthrie, Leadbelly, Nina Simone, ma la versione degli Animals è la più bella anche se arrivò dopo quella di Dylan, da cui loro l'appresero. Burdon ci volle mettere l'afflato di una ballata inglese per accentuare il senso di peccato e miseria di New Orleans e cambiò una parte del testo, Valentine si inventò l'arpeggio iniziale e Alan Price fece il resto, imitando Jimmy Smith con quel suono pregnante ed intenso che traslocò  la casa del sole nascente direttamente  nella storia del rock.  Una sola bonus tracks in questo secondo Cd, la versione completa di Talkin' About You.

Il terzo Cd del Box Set riguarda The Animals On Tour , secondo Lp americano della band,  raccoglie registrazione effettuate  dal vivo in studio in diverse session del 1964 per capitalizzare il successo in classifica di House of The Rising Sun. La band  è la stessa del primo album e la scaletta di dodici brani prevede l'usuale carrellata di classici di John Lee Hooker, Chuck Berry, Jimmy Reed, una superba Worried Life Blues  di Merryweather,  Billy Boy Arnold, Ray Charles, il vero mito di Burdon, qui impegnato a dare fiato con l'aggressività di un working class hero a Mess Around, I Believe To My Soul e Hallelujah, I Love Her So.  Un menù che ricalca  i primi album degli Stones, tanto blues e r&b rivisto con l'urgenza e la spregiudicatezza dei giovani hipster bianchi inglesi, qui ci troviamo di fronte ad un cantante ed uno shouter con una profondità vocale ed  un trasporto emotivo quasi religioso, un artista  unico degno di essere affiancato ai grandi soulmen afroamericani. Anche qui un solo brano originale, firmato dalla coppia Burdon/Price poco prima che quest'ultimo lasciasse la band, ovvero la viscerale I'm Crying   con Burdon che urla il suo mal d'amore e Price che lo accompagna col Vox mentre Valentine graffia con una chitarra aspra come un limone. Due le bonus tracks, ancora Ray Charles (F-E-E-L) e Jimmy Reed (Baby What's Wrong).
Pur essendo delle registrazioni dal vivo effettuate però in studio, al disco fu messo il titolo fuorviante  di The Animals On Tour per sottolineare il fatto che tra il 1964 ed il 1965 il gruppo fu costantemente e senza tregua  in tour in Gran Bretagna, Europa e Stati Uniti.
Il quarto Cd presenta la rimasterizzazione del secondo album per la Mgm, Animals Tracks  del 1965, uscito in Europa con una copertina diversa, la celebre foto con gli Animals abbigliati da militari seduti sulle rotaie del treno. La versione Usa annovera le dieci tracce originarie rimpolpate  da cinque bonus tracks tra cui Roadrunner di Bo Diddley, la strepitosa  It's My Life e l'assist personale di Burdon come autore, il bel singolo I'm Going To Change The World.  C'è  ancora Price in formazione,  ad eccezione di We've Gotta Get Out This Place autentico inno generazionale scritto dal team newyorchese Barry Mann e Cynthia Weill, altro singolo da leccarsi i baffi, dove compare alle tastiere  Dave Rowberry proveniente dal Mike Cotton Sound. Gli Animals concepiscono un album dove, come i colleghi Stones, cominciano seriamente a cimentarsi in pezzi propri. La firma di Burdon la si ritrova in cinque tracce,  tra cui la meravigliosa e dolente For Miss Caulker uno dei suoi pezzi migliori, quasi ai confini del jazz. Originale è poi la sua rivisitazione lunga, jammata e a ruota libera di The Story of Bo Diddley mentre da par suo Alan Price risponde con Bury My Body ancora prima che Al Kooper e Shuggie Otis la facessero conoscere al popolo del rock in Kooper Session. Completano Animals Tracks la versione di Bring It On Home di Sam Cooke, il classico Don't Let Me Misunderstood,  torrida reinterpretazione di  una canzone incisa l' anno prima da Nina Simone, poi "mutato" negli anni settanta per via dei Santa Esmeralda  in un tormentone della disco music, e una Roberta tutta mosse e rock n'roll.
Ma è Animalization, quinto Cd, l'album migliore del lotto, o quello che focalizza i progressi della band verso una dimensione più complessa, non solo 45 giri e cover, ma tutte e due insieme e qualcosa di più. La produzione passa a  Tom Wilson (Dylan, Simon & Garfunkel) succeduto a Mickie Most, il quale dà maggior risalto ai vari musicisti. Burdon scrive con Rowberry  la struggente You're On My Mind  uno degli episodi melodici più riusciti dell'intero songbook della band e poi piazza l'urbano r&b Cheating e l'incalzante She'll Return, voce nera ed il piano di Rowberry che martella ossesso. Ma è la rivisitazione di una prison work song registrata dallo storico Alan Lomax a misurare l'abilità di Burdon e soci nel trasformare un traditional in una deflagrazione atomica. Inside-Looking Out è di una violenza e veemenza incredibile per l'epoca, un assalto frontale di nuovo blues come non si era mai sentito, drammatico, eccitante, disperato. Se poi aggiungete che la prima traccia di Animalization ( album che trasse origine dalle registrazioni per l'inglese  Animalisms) è Don't Bring Me Down della mirabile coppia Goffin/King, testo base con su cui è cresciutoa Tom Petty e altro momento di assoluta tensione e abbandono, col basso di Chandler e la chitarra di Valentine a creare un fuzz devastante e l'organo di Rowberry un segugio dietro la voce di Eric Burdon, avete la certezza della brutale e innovativa forza della animalizzazione in atto agli inizi del 1966. Animalization fu l'ultimo lavoro col batterista John Steel, sostituito in diverse tracce da Barry Jenkins dei Nashville Teens ed in pratica l'ultimo atto della storica formazione  degli Animals, sebbene Wilson produsse per gli americani un altro Animalisms. Qualche mese dopo se ne andrà anche Chas Chandler dopo aver scoperto  in un locale del Greenwich Village un chitarrista  che di nome faceva James Marshall Hendrix. Nel 1967 Eric Burdon  rimise insieme una nuova band col vecchio nome e poi si trasferì a San Francisco dove  venne contagiato dal movimento psichedelico in rapida ascesa. Ne fu coinvolto  e con i nuovi Animals pubblicò nel 1967 l'ottimo Winds of Change,  ormai distante da quella band che solo cinque anni prima in una città di porto nell'umida Inghilterra del nord aveva fatto conoscere il blues ad una generazione che ne aveva le scatole piene di Cliff Richard. Non ebbero la legittimazione culturale di Beatles, Kinks, Who, anche Stones ma gli Animals diedero una immagine del blues più aderente all'originale. E con House of The Rising Sun  introdussero un nuovo concetto di canzone pop.

 


MAURO ZAMBELLINI   

 





sabato 18 gennaio 2014

BOB WOODRUFF

 
La solita vecchia storia. L'inizio promettente come country-singer ed autore di  canzoni,  la gavetta con la band The Fields, due dischi all'attivo come solista negli anni novanta (Dreams & Saturday Nights del 1994 e Desire Road del 1997) svaniti nel nulla nonostante i titoli "filmici" e le ottime recensioni nel mondo del country, un amicizia consolidata col maestro  Doc Pomus, qualche canzone nella heavy rotation delle stazioni radio country americane e canadesi, sostanzialmente una carriera promettente ma ferma in rampa di lancio, fino all'inevitabile periodo depressivo coincidente ai problemi di una madre gravemente malata e sola. Un lavoro come magazziniere per poter procacciare i soldi delle cure mediche e un graduale scivolamento nelle spire della dipendenza. Eroina per di più, il conseguente deperimento fisico e diverse ricadute, dentro e fuori dai centri di riabilitazione fino ad una ennesima e quasi fatale overdose. Sopravvissuto per miracolo viene preso sotto cura da Buddy Arnold, fondatore del Musicians Assistence Program, che lo porta a Los Angeles ( Woodruff è nato nel 1961 a New York) e lo costringe a seguire un impegnativo programma di riabilitazione  che lo libera dalla dipendenza e lo ripulisce. Una storia simile a quella di molti outlaw del country,  Steve Earle su tutti, qui senza galera e vistosi guai giudiziari,  finita bene e argomento di una storia raccontata da William Michael Smith sulle pagine del Houston Press e  usata da Jesse Kornbluth del Huffington Post come paragone al  Jeff Bridges del film Crazy Heart. Il finale è positivo,  non ci sono bandiere a stelle e strisce che sventolano nell'ultimo fotogramma del film ma il recupero fisico e artistico di  Bob Woodruff , ancora tra noi con le sue canzoni, il suo talento ed un nuovo disco, The Year We Tried To Kill The Pain, titolo esplicativo sulla sua redenzione. Uno di quei dischi di songwriting al suono del rock che se fossero usciti all'inizio degli anni ottanta si sarebbe guadagnato lodi e segnalazioni da entrambe le sponde dell'Oceano, specie sulle riviste che bazzicano il confine tra canzone d'autore e roots- rock . Il disco del ritorno è stato registrato in Svezia, nuova frontiera del rock e del noir,  con un team di musicisti locali ma con l'aiuto  significativo di Benmont Tench al piano e all'organo, presenza che sposta il baricentro della musica di Woodruff, un tempo orientata verso il country, in direzione di un rock d'autore con forti accenni pettyani. Lo si avverte immediatamente, nell'iniziale I Don't Know, biglietto da visita di quella che è la parte rock del disco, chitarre in odore di Byrds, voce alla Petty, melodia ariosa, vento nei capelli e strade di California. Un bell'inizio per un disco senza smagliature, gradevole e fresco, di una piacevolezza estrema, ben cantato e ben suonato, con Woodruff che non ha smarrito la cura dei dettagli e la brillantezza compositiva, un mix di eleganza, appeal sixty-pop  appreso da Doc Pomus e tocco rootsy all' americana. Sono diverse le tracce che viaggiano su questa corsia, I'm The Train  sembra uscita da un disco di Roger McGuinn grazie anche all'agile arpeggio chitarristico di Woodruff, così come I'm Losing You , pedal steel e country-rock alla maniera di Petty e la dolorosa The Year We Tried To Kill The Pain, viaggio autobiografico in una esistenza devastata da alcol, droghe, incontri d'amore nella notte di Memphis sull'erba di Graceland (dopo averne scavalcato le mura) e soldi che finiscono, chiusa da un' insistente richiesta di salvezza attraverso l'amore. Mai banali i testi di Woodruff anche quando trattano una semplice love song,  nella lenta e accorata Feel Way I Feel, nella sussurrata e acustica If I was Your Man  e nella lacrimosa So Many Teardrops.  In Paint The Town Blue si sente l'eco dei Beatles, nella scoppiettante Bayou Girl  tra cipressi, spanish moss, paludi e swamp-blues si fa largo il piano boogie di Benmont Tench . Bob Woodruff non nasconde il suo ritrovato benessere facendosi fotografare in copertina e nel booklet in compagnia di una maliziosa signorina in guepiere. Tutte sue le canzoni ad eccezione di una rallentata e crepuscolare versione di Stop In The Name of Love  del rinomato team Holland-Dozier-Holland.

 

MAURO ZAMBELLINI    

 

lunedì 6 gennaio 2014

BRUCE SPRINGSTEEN HIGH HOPES


    Grandi speranze sfumate dopo un solo ascolto, questo per il sottoscritto è High Hopes, diciottesimo album di Bruce Springsteen. Sedotto dallo stile chitarristico di Tom Morello, ex Rage Against The Machine,  unitosi alla E Street Band nel marzo del 2013 durante il tour australiano di Wrecking Ball,  dove ha sostituito Steve Van Zandt,  Morello è diventato come afferma Bruce "la mia fonte di ispirazione che ha dato una forte spinta a quelle canzoni che già avevo scritto, riportandole all'oggi. E' uno dei pochi chitarristi che crea un mondo da sé stesso. E' come The Edge o Pete Townshend o Johnny Marr. La E Street Band è una grande casa, ma quando Tom è sul palco costruisce un'altra stanza". Morello non è nuovo alle collaborazioni con Springsteen, già nel 2008 aveva partecipato ad una versione live di The Ghost of Tom Joad  ad Anaheim in California e la sua chitarra rabbiosa aveva trasfigurato il celebre brano con una furia elettrica metal-grunge. In High Hopes  Tom Morello non è  una comparsa ma è presente in otto tracce su dodici e oltre a suonare la chitarra, duetta con Bruce in The Ghost of Tom Joad,  il cui arrangiamento si discosta di poco dal precedente episodio di Anaheim, poi finito in un singolo del 2010 in occasione del Record Store Day. La presenza di Morello nella registrazione del disco è decisiva e caratterizza il sound di High Hopes  a cominciare proprio dalla canzone titolo, il suo stile "spaziale",  assoli che si protraggono in lunghezza ed altezza, urli che si levano in cielo doloranti e stridenti, creano una enfasi sonora che sa di moderno mainstream, un boombastic sound in contrasto con quel rock n'roll ai confini del soul e del r&b che ci si aspetta da Springsteen e che nei suoi dischi in studio, purtroppo ormai, è divenuto una chimera. La scelta di ricorrere a Tom Morello per "rinfrescare" il sound si accompagna alla produzione di Ron Aniello (diverse tracce hanno ancora la produzione di Brendan O'Brien) e alla volontà dell'autore di registrare un disco "anomalo", probabilmente per inseguire il pubblico delle classifiche pop e una nuova fascia di pubblico più giovane. Ciò spiega i cambiamenti sonori in atto. Pensate, invece, come potrebbero suonare le canzoni di Springsteen prodotte dal Rick Rubin di Johnny Cash o dal T-Bone Burnett di John Mellencamp, ma questi sono sogni. A contrario di Neil Young, Tom Petty, Dylan e qualche altro, a Bruce oggi non interessa rimanere fedele al sound con cui è diventato grande e riconoscibile, vuole cambiare, rinnovarsi, un atteggiamento già sperimentato in passato, quando con Tunnel of Love   "strappò" rispetto ai dischi precedenti con la E-Street Band, ma là c'erano grandi canzoni ancora oggi memorabili (provate a riascoltarvi Tougher Then Rest , Walk Like a Man, Valentine's Day). Così High Hopes  rimbomba come una pioggia atomica e pare la completa dilapidazione di quello che fu il thunder road  della E Street Band. Molti si sono affrettati a dire che High Hopes  è un disco di rock dal suono moderno, sarà,  io non sono d'accordo, almeno che per rock non si intenda quel rumore mainstream molto amplificato che accomuna molte produzioni attuali, dagli U2 ai bolsi Pearl Jam degli ultimi due dischi. L' aver affidato il timone della band a Tom Morello, come negli anni recenti aver insistito col produttore Brendan O'Brien, dimostra come in sala di registrazione Springsteen sia alla mercé del "mago" di turno.  Naturalmente  High Hopes  ha anche le canzoni e non solo il sound ma anche qui, ahimè, sorgono altre perplessità, un album costruito con tre cover (High Hopes, Dream Baby Dream, Just Like Fire Would), due out-takes di The Rising  ( Harry's Place, Down In The Hole), due canzoni note e sfruttate (American Skin e The Ghost of Tom Joad) più cinque brani nuovi, pare proprio una anomalia.  Come ormai è noto a tutto il mondo, High Hopes è una bella canzone dal tiro roots che gli Havalinas, scapestrato trio di Los Angeles capitanato da Tim Scott McDonnell inclusero nel loro unico album del 1990 prodotto da Don Gehman. Springsteen la rintracciò negli oscuri archivi del rock n'roll e con tanti applausi da parte dei fans più smaliziati, la rimise in circolo al tempo di Blood Brothers  offrendone una buona e scalpitante versione, rispettosa dell'originale. Adesso High Hopes  non è più la stessa, ha cambiato i connotati, è  un bombardamento di batteria e chitarre metal con trombe e feedback che azzera quello che era il suo fascino originario in favore di un sound che sa di anni ottanta.  American Skin (41 Shots), diciamoci la verità non è mai stato un pezzo memorabile a parte la sua denuncia contro la violenza ed intolleranza poliziesca, è stata "arricchita" di un arrangiamento elettronico e di tastiere, con un crescendo poderoso che sfocia nell'esplosione finale di Morello, tutto muscoli e poco cuore. The Ghost of Tom Joad dopo l'inizio morriconiano con il violino, è stata messa a bagno nel cromo-vanadio,  Furore di Steinbeck è finito nel furore chitarristico di Morello, l'antica e nobile chitarra acustica pizzicata alla Woody Gutrhrie sfigurata da una bruta mitragliata elettrica, come dire la forza più che la ragione. D'accordo ingigantirla coi i watt in concerto ma che senso ha riproporla  così su disco, considerato il fatto che in questa versione è già stata pubblicata. Dream Baby Dream si salva non fosse altro perché tra rumori di ferraglia si scorge l' harmonium dei Suicide e la voce grave di Bruce intona un pathos solenne e grandioso  a cui è difficile resistere.  La versione scarna e ascetica del Devils and Dust Tour  era comunque altra cosa.

Springsteen giustifica la ripresa di queste canzoni affermando che "questi sono tra i pezzi migliori scritti da lui e meritavano una registrazione con tutti i crismi ", i tempi sono cambiati da quando impiegava quattro o cinque anni prima di far uscire un nuovo album, adesso non passa anno che non ne sforni uno, riadattando canzoni note e assemblandole con qualcosa di nuovo così da mettere frettolosamente insieme un album con l' intento di motivare un nuovo tour. Quando lavora duro Springsteen dà il meglio di sé, così è nei concerti, così era nei dischi che lo hanno reso leggenda, non ha la stoffa del genio alla Bob Dylan ma lo spirito di un working class hero che arriva con un duro, sisetmatico e pignolo lavoro a grandi risultati.  Se Wrecking   Ball  era un disco riuscito, il suo miglior lavoro da The Rising  ( a parte le Seeger Session)  High  Hopes  non pare altrettanto anche se la classe non svanisce di colpo e ci sono canzoni che alla lunga potrebbero crescere, e sono le canzoni in cui Morello è in disparte o assente. Just Like Fire Would, per esempio,  dove il chitarrista è un po' più defilato, Frankie Fell In Love,  This Is Your Sword  e The Wall. La prima è una canzone dei Saints, gruppo australiano della prima ondata punk, che Springsteen rifà secondo le dinamiche di un teso rock da strada, con i fiati in stile Southside Johnny and The Asbury Jukes e col controcanto di Little Steven. Una ventata di vecchio Jersey sound, finalmente. Frankie Fell In Love , ispirata dai ricordi di quando Bruce e Steve bighellonavano nel loro appartamento di Asbury Park, ha l'energia del classico Springsteen sound e, nel testo,  un surreale dialogo tra Shakespeare ed Einstein davanti ad una birra, con lo scienziato che scrive numeri sul tovagliolo mentre il poeta suggerisce  che tutto ha avuto inizio con un bacio. This Is Your Sword  cita riferimenti biblici ed occhieggia alle'atmosfere celtic-roots di Wrecking Ball , The Wall, come dice l'autore, è stata scritta dopo aver visitato con la moglie Patti Scialfa il Vietnam Veterans Memorial a Washington, sebbene il titolo e l'idea siano in verità dell'amico Joe Grushecky.  Si ispira ai ricordi di Walter Cichon, uno dei primi  rockers del Jersey Shore degli anni sessanta, leader dei Motifs, una band ammirata da Bruce per la loro carica sexy e ribelle, crudi ma sempre un passo avanti agli altri, cool ma sempre accessibili, "con loro si poteva parlare di musica e non solo adorarli come gli eroi che tutti avrebbero voluto essere. " "In sua presenza percepivo per la prima volta quell'aura di mistero della vera rockstar". Walter Cichon risultò disperso durante le operazioni in Vietnam nel marzo 1968 e fu una terribile perdita per gli amici del Jersey Shore ma, come scrive lo stesso Springsteen nelle note "in qualche modo nella mia mente si esibisce ancora regolarmente,  con quel suo modo di vestire, di stare sul palco, di tenere il tamburello, quel suo modo libero e rilassato, quel suo  temere e amare, quel suo andare contro tutto ma con la consapevolezza che comunque, alla fine, ce la farai. ". Quando dietro ad una canzone c'è una storia, la canzone funziona e così è per The Wall , lirica, commovente, evocativa, una ballata sottolineata dal pianoforte e da una malinconica fisarmonica. Anche Hunter of Invisible Game  è una ballad melodrammatica che rispecchia la vena intimista di Springsteen.  Fosse stato tutto così High  Hopes  ci saremmo accontentati ed invece Harry's Place, moderna storia di un gangster che tira le fila delle vite altrui, è piena di riverberi, echi, trucchi, suono pompato e pomposo,  Down in The Hole, voce filtrata e metallica è costruita sul ritmo di I'm on fire  e pare una brutta copia con un po' di elettronica in più, Heaven's Wall testo biblico ed una marea di raise your hands, batteria metronomica e wah wah da gruppo metal, è un falso gospel che scompare al confronto di Land of Hopes and Dreams  e della stessa innovativa Shakey Ground.  

Nessuno qui vuole mettere in discussione un personaggio ed un artista che ci ha dato tanto coi dischi e i concerti, uno dei pochi "casi" artistici dove musica e vita personale si sono spesso abbracciate con coerenza e franchezza  ma  dietro ad una copertina che ricorda un disco di Elvis Presley c'è più enfasi che rock, più calcolo che cuore, e allora a qualcuno è venuta la voglia di zittire per un attimo le ovazioni da stadio e chiedere di nuovo un disco di credibile rock n' roll senza trucchi e silicone,  perché uno Springsteen che insegue  " il gusto delle masse" è cosa che non appartiene alla sua (e nostra) storia.  

MAURO ZAMBELLINI