giovedì 15 settembre 2022

ASPETTANDO COLOMBO Una storia degli anni settanta


 

Londra, agosto 1977

La ristampa in box contenente tre CD doppi riguardanti uno dei più prestigiosi live in ambito rock mai pubblicati, ovvero Waiting For Columbus dei Little Feat,  riavvolge il mio nastro dei ricordi a proposito di uno degli episodi più fortunati  della mia esperienza di fan. L’anno era il 1977, lo stesso della nascita ufficiale del punk e della morte del Re del rock n’roll, non un anno qualsiasi quindi ma venendo dalla periferia dell’impero ed ignaro della rivoluzione in atto a Londra, mi misi in viaggio con un amico e le rispettive fidanzate (una sarebbe poi diventata mia moglie) per una vacanza in Irlanda, luogo sognato per i suoi paesaggi, la sua musica e i suoi alcolici ma allora non ancora nel mirino delle agenzie turistiche. A quel tempo non esisteva Internet, tutto girava in modo diverso, si partiva spavaldi ed avventurosi senza sapere bene cosa avremmo trovato sul percorso, senza prenotazioni e con qualche costosa telefonata internazionale per capire di traghetti e passaggi. Unica garanzia erano gli indirizzi e le segnalazioni delle guide turistiche Clup, edizioni universitarie allora in auge tra il pubblico “alternativo” ancora a digiuno di Routard, almeno in Italia. Del tutto fortuito poi incontrare, strada facendo, qualche concerto o avvenimento artistico appetibile perché come detto, Internet non c’era e pure le riviste internazionali di musica erano da noi di difficile reperibilità. L’unica cosa su cui si poteva contare era la propria autovettura, la tenda, il sacco a pelo e la piccola Bialetti per il caffè, salvataggio d’obbligo dai surrogati d’oltralpe. Fuori dalle grandi metropoli, difatti, si ricorreva al campeggio, per scelta e per economia e la Bialetti anche nei momenti più critici ti faceva sentire a casa. Bisognava avere dimestichezza con le carte geografiche e stradali ma quello è sempre stato un mio pallino tanto che anche oggi quando faccio le escursioni motociclistiche non uso mai il navigatore a meno di non trovarmi nel dedalo urbano di città come Lione o Marsiglia. Ricapitolando siamo in quattro a partire da Somma Lombardo , ci sono le due fidanzate e l’amico Friz (in realtà si chiama Maurizio ma in età di gioventù, 18 anni circa, dopo una bevuta collettiva di frizzantino nel Circolo del paese vicino dove si andava a rimorchiare le ragazze, tornando a casa coi rispettivi motorini lo trovammo riverso a terra col suo Bianchi Falco 50cc e i 45 giri che gli avevamo affidato perché si era soliti portare sempre appresso il mangiadischi, sparsi per tutta la piazza. Fu naturale chiamarlo da lì in poi Friz ), direzione Nord, attraversamento della Francia fino a Calais, imbarco per Dover e poi Londra. Due giorni nella metropoli inglese e poi altra cavalcata fino in Galles a Holyhead dove un altro traghetto ci avrebbe portato a Dublino. Naturalmente in quell’era senza Internet e piuttosto avversi per spirito “alternativo” nonché ideologico alle agenzie turistiche, capitava di arrivare a Calais e non avendo nessuna prenotazione aspettare ore per il primo traghetto disponibile. Stessa storia a Holyhead dove arrivammo in una notte buia e tempestosa e aspettammo mezza giornata prima di imbarcarsi. Era il prezzo dell’avventura e andava bene così, in fondo a guardar bene quel mondo meno globalizzato  e più lento era più umano di quello attuale. L’arrivo a Londra fu comunque problematico perché districarsi tra le sue vie con la nostra Renault 4 guidando a sinistra e contemporaneamente cercando un hotel adatto alle nostre tasche non fu per nulla semplice. Lo trovammo con la sua unica stella dalle parti di Earl’s Court e l’impresa ci sembrò di grande auspicio. Bagagli in camera, una doccia nel bagno comune in corridoio, e poi via entusiasti e pimpanti alla scoperta della grande città. D’obbligo servirsi della metropolitana ma prima di scendere nell’abisso delle linee londinesi compro un giornale, non ricordo il nome, di quelli che ti dicono cosa fare in città in termini di spettacoli, concerti, musei, ristoranti, club, cinema e chi più ne ha ne metta. Già appassionato da anni di musica e al tempo conduttore di Radio Varese 100 e 700, radio libera da me ribattezzata (è stato pubblicato anche un libro a proposito)in maniera iperbolica come si usava tra situazionisti, l’unica radio libera dell’occidente occupato, mi cade l’occhio su un trafiletto che annuncia quattro serate al Rainbow Theatre dei Little Feat. Fermi tutti, panico, innalzamento improvviso della pressione arteriosa, aumento del battito cardiaco. Conosco e apprezzo i Little Feat e l’occasione di trovarseli a portata di mano, per di più casualmente, a Londra è un colpo di fortuna che neanche se vendi l’anima nei crossroads del Mississippi ti riesce. Oggi sapremmo tutto sei mesi prima riguardo al possibile tour inglese dei Feats, anche in quale albergo alloggiano, ma quella era preistoria rock, un altro mondo felice nella sua limitatezza di informazioni. Mi volto verso gli amici e comunico che per qualsiasi cosa al mondo voglio andare al concerto dei Little Feat la sera stessa. Di nuovo panico, ma degli altri. Friz li conosce marginalmente anche se ha sempre avuto buon orecchio per la musica e rimane in stand by, immediati musi lunghi per le due donzelle che manco sanno dell’esistenza di Lowell George e compagni e sognavano una cenetta in qualche tipico pub londinese. Accampano pretesti in difesa della loro resistenza, “ma senza biglietti è inutile andare” anche perché la scritta sold out a margine del trafiletto non lascia scampo, e poi “il teatro sta dall’altra parte della città ed è un casino arrivarci”. Non indietreggio, loro possono fare ciò che vogliono ma io vado in metropolitana dall’altra parte della città a vedere i Feats, cascasse il mondo. Li avviso della eccezionalità dell’evento, dicendo di una band che difficilmente esce dagli Stati Uniti, trovarsela lì a due passi è una vera fortuna. Friz si lascia convincere e a questo punto è fatta, perché due splendide ragazze, sole, a digiuno di inglese e geografia urbana, con orientamento ai minimi termini e fondi limitati per il taxi, dove vanno? Non è maschilismo ma real politik e  quindi il gioco è fatto. Adesso, penso dentro di me, una volta che ho convinto la ciurma, la devo far entrare in toto in teatro, e quel Sold Out di tutte le serate è piuttosto sinistro. Rischio di fare la figura dello scemo se fallisco la missione, niente concerto e niente cenetta al pub tipico. Musi lunghi per un paio di giorni. Ma quando si è giovani non si ha paura di nulla.  Costruito negli anni 30 e conosciuto come Finsbury Park Astoria e divenuto Rainbow Theatre nel 1971 dopo uno show degli Who, il teatro è stato sede di centinaia di concerti, da Frank Zappa ai Faces, da Alice Cooper ai Pink Floyd, da Bowie ad Eric Clapton, da James Brown ai Grateful Dead, dai Queen a Marc Bolan, per non dire di King Crimson, Bob Marley, Ramones e Van Morrison. La lista è lunghissima e i Little Feat sbarcarono lì la prima volta il 19 gennaio del 1975.  Arriviamo davanti al teatro l’afosa sera del 2 agosto , c’è un po’ di ressa, il pubblico diligentemente sta già varcando le porte ed effettivamente alle casse troneggia “tutto esaurito”. Sul viso delle fidanzate appare un misto di rabbia e ghigno soddisfatto, Friz è perplesso, io individuo in pochi minuti l’anello debole della situazione. Nella hall, prospiciente l’entrata principale, scordatevi  security,  metaldetector e i controlli di oggi (mi ripeto, era un’altra epoca) scorgo un robusto colored man ( mi piacerebbe chiamarlo afromericano ma siamo in Inghilterra ed evitatemi l’accusa di razzismo) addetto al taglio dei biglietti di entrata. Gli giro intorno alla chetichella, incrocio il suo sguardo, in un momento di pausa cerco di trovare un contatto orale con lui dicendogli del mio lungo viaggio dall’Italia e del desiderio di vedere questa band, impossibile da vedere alle nostre latitudini. Il tutto avviene furtivamente, con uno stentato inglese ma con una mimica che non lascia dubbi. Gli ripeto che non sapevo del concerto, altrimenti mi sarei munito di biglietti, insomma stabilisco una spicciola complicità mentre i paganti entrano sparsi. Lui mormora qualcosa e sorride, sembra suggerirmi una possibilità, che colgo al volo e da buon italiano dico agli altri tre di starmi appresso e non proferire verbo, solo seguire i miei passi. Mi avvicino al tipo di colore e gli allungo di nascosto delle sterline, stropicciate, se ricordo bene l’equivalente di un paio di biglietti. Lui non proferisce parola, le impugna come fossero dei ticket, se le tiene strette in mano, si sposta  guardando  l’orizzonte ed io mi infilo tra le tende del teatro portandomi dietro gli altri tre. Tu sei pazzo, mi dice quella che sarà la mia futura moglie, pazzo sì ma dentro il Rainbow Theatre,  in attesa dei Little Feat che non sono quelli del “dopo” ma quelli con Lowell George, cazzo. I problemi però non sono finiti perché senza biglietti non abbiamo nessun posto assegnato. Ci sediamo vicini in una postazione di buona visibilità ma non prestigiosa. Regola numero uno, è sempre meglio volare basso specie se si è clandestini, ma arrivano i legittimi detentori di quei posti per cui dobbiamo sloggiare. Facciamo un altro tentativo ma solita storia, la paura è diventare sospetti che vagano senza meta. Con il sold out è ingenuo aspettarsi posti vuoti a meno di qualche abbandono dell’ultimo momento. Invito gli altri a sparpagliarsi ( ci ritroveremo uniti al momento dell’encore tutti in piedi mischiati al pubblico plaudente, davanti a Mick Taylor che suona A Apolitical Blues e Teenage Nervous Breakdown) prima che  qualche “maschera” ci “avvisti” e ci accompagni fuori tirandoci per le orecchie e dandoci un calcio nel sedere. Altro che portoghesi, italiani! Così facciamo, per via che il teatro si riempie e noto altre persone in piedi. Ci confondiamo e aspettiamo un po’ tesi l’inizio del concerto. Poi mi sciolgo ed è un orgasmo perché l’esibizione sarà eccezionale, trionfale, esaltante, con i Little Feat raggiunti in otto brani dalla sezione fiati dei Tower of Power e da Mick Taylor fuoriuscito da poco dai Rolling Stones e ancora in perfetta forma. Morale : ancora oggi l’amico Friz non smette di ringraziarmi per avergli dato la possibilità di assistere ad un avvenimento così eccezionale, per di più immortalato da uno dei dischi live imprescindibili nella storia del rock, Waiting For The Columbus  pubblicato nel 1978 e oggi documentato in modo perfetto e ampio dall’odierna ristampa deluxe con l’aggiunta dell’intero concerto londinese del 2 agosto, di quello alla Manchester City Hall del 29 luglio del 1977 e di quello al Lisner Auditorium di Washington, D.C del successivo 10 agosto. Una band catturata al top delle proprie possibilità,  solo un anno prima della improvvisa morte del suo leader  Lowell George.

E le ragazze mi chiederete ? Mah, visto l’entusiasmo del sottoscritto non poterono fare altro che buon viso a cattivo gioco ma di quel concerto non le ho sentite più parlare, tranne che citare l’escamotage dell’ingresso in qualche serata tra amici. Penso che dei Little Feat si ricordino poco, una l’ho persa di vista tanti anni fa, l’altra divenuta mia moglie è andata in trance a Zurigo nel 1981 vedendo il Bruce Springsteen del periodo The River  e giustamente perdendo la testa per lui. Dopo Londra raggiungemmo comunque l’Irlanda e fu una vacanza felice. A Dublino apprendemmo della morte di Elvis Presley ma il rock n’roll continuò ugualmente a vivere e a riempire di gioia la mia esistenza.

Mauro Zambellini

N.B Il pezzo continua con la disamina della ristampa di Waiting For Columbus e sarà pubblicata, assieme al testo qui, sopra nel prossimo numero di Ottobre della rivista Buscadero.