martedì 2 gennaio 2018

MY BEST OF 2017



 
 

Un anno che annovera le scomparse di Gregg Allman e Tom Petty non può che essere un anno di merda.

Le morti non sono tutte uguali, sarebbe ipocrita affermarlo, se quella dolorosissima di Gegg Allman, a proposito il suo epitaffio intitolato Southern Blood è una delle perle del 2017 tanto intenso, romantico e caldo, pregno di tutti quegli umori e aromi "sudisti" che rendono quella musica una delle espressioni più coinvolgenti in ambito blues, soul e rock n'roll, era in qualche modo annunciata visto le sue precarie condizioni di salute, quella di Tom Petty è stata un vero shock, tanto che ancora oggi a tre mesi di distanza si fa fatica a credere che sia successa. Nonostante avesse annunciato l'abbandono di tour estenuanti, ma non di concerti singoli, Tom Petty era ancora nel pieno della sua creatività, ancora disposto a rischiare con progetti diversi, come dimostrano i dischi e i concerti sotto la veste Mudcrutch, e nello stesso tempo impegnato a continuare l'esperienza con gli Heartbreakers, una band che a mio modo di vedere è la più sfavillante e completa rappresentazione del rock n'roll, Stones permettendo. Il fatto di averlo poi visto in un memorabile concerto ad Hyde Park lo scorso luglio, ampiamente documentato su questo blog, ha reso ancora più sconvolgente e dolorosa la sua scomparsa, aver partecipato a quel concerto non fa altro che aumentare il dispiacere e l'incredulità. Certo Bruce Springsteen nel 1981 a Zurigo rimane per me la folgorazione in assoluto, il concerto della vita,  e Little Feat a Londra nel 1977 il colpo di fortuna che ti insegna che di quella musica non ne potrai più fare a meno anche se hai solo 27 anni. Ma quei concerti e ci aggiungo anche gli Stones del 1970,  visto l'età di chi scrive, erano ancora eventi per così dire formativi di un sentire, di una sensibilità e di una emotività in crescita, mirabolanti avventure di un divenire uomo che capisce che, oltre agli affetti e agli amori, l'arte e in questo caso il rock può essere fonte di emozioni forti, appaganti, profonde e formative. Vedere Tom Petty a 67 anni è un'altra cosa, l'uomo è fatto e rifatto, le eccitazioni giovanili passate da un pezzo e il disincanto sempre lì pronto a ridimensionare l'emozione, la conoscenza del rock talmente allargata  da richiedere ogni tanto una resettazione per poter carpire una nuova brezza, eppure in quell' Hyde Park di una calda sera d'estate, per di più attanagliato nella folla e pronto a difendere ad ogni costo una postazione faticosamente guadagnata (non ho mai avuto il privilegio di un pit), provare di nuovo quella magia, quello shining elettrico, quell'emozione forte ed incontrollata, quel piacere estatico nel vedere e sentire una band che ti scartabella l' enciclopedia del rock n'roll con un artista così sorridente e a proprio agio da sembrare un tuo  fratello, ecco allora capisci che il rock n'roll non è solo una musica ma una ragione di vita, ancora adesso che vai verso i 70 e certe cose possono essere sembrare fuori luogo ad una certa età. Quello di Tom Petty and The Heartbreakers il 7 luglio 2017 a Londra è stato il concerto perfetto, non ce ne saranno più uguali. Purtroppo l'ultimo dell'amato seminole, andato via troppo presto da questo mondo confuso, ma ancora da vivere finché ci saranno artisti come Tom Petty capaci di regalarti un raggio di sole anche quando il buio e le brutture sembrano diventate la norma. Ci rimane il suo ricordo, la sua musica, i suoi dischi (come quelli di Gregg Allman), non è poco, ma se ci fosse ancora lui, diventato finalmente bello a 60 anni con quella barba da ribelle e quella camicia rossa, mi sentirei più in sintonia col mondo.
 

 Ma come si è soliti dire in questi casi, con quel tocco di cinismo e superficialità che è dovuto, the show must goes on e quindi andiamo avanti, citando i numerosi ottimi concerti regalati dall'anno appena trascorso, dalla potente e funambolica Tedeschi-Trucks Band all'Alcatraz di Milano agli irriducibili Rolling Stones di Parigi, dalla R&B revue in pasta newyorchese di Little Steven and The Disciples of Soul, sempre all'Alcatraz di Milano, ai semiesordienti The Shelters nello stesso Hyde Park di Petty, dalla esuberante Marcus King Band al set strepitosamente rocknrollistico di Alejandro Escovedo con Don Antonio, dall'arruffato e anarcoide Dan Stuart all' 1 e 35, locale che stoicamente resiste nel deserto nazionale della musica live, alla riesumazione dei Green On Red per via di Eddie Abbiati-Chris Cacavas & Dirty Devils al Teatro 89. Per non dire di Ian Hunter e la sua Rant Band al Bloom, i Gov't Mule a Trezzo e i Tinariwen a Lugano, tutti concerti che mi hanno mandato a casa contento. Ho bigiato lo show dei Dream Syndicate e mi spiace, ma avevo valide giustificazioni, non ultima il fatto che ho maturato una certa avversione  per i locali in cui ti mettono come sardine in scatola, ti fanno sudare come ai tropici e ti riempiono i timpani con un audio che necessita almeno una settimana per togliere gli acufeni dalle orecchie.  
 

Detto questo passo ai dischi e faccio mio ciò che l'amico Marco Denti ha scritto sul Buscadero di gennaio a proposito del resoconto discografico del 2017, allorché ha riportato una riflessione di Henry Rollins, rocker di cui non mi sono mai appassionato più di quel tanto, pur stimandolo.  "Qualche tempo fa Henry Rollins ha tenuto un discorso, tra il serio e il faceto, durante una delle sue performance. Lo scherno principale riguardava i cosiddetti dj che credono di “andare a suonare” e da lì Henry Rollins metteva alla gogna, senza tanti complimenti, tutta la musica costruita con un computer qui e un sampler là, senza tante idee e con uno stile non dissimile alla catena di montaggio. Tralasciamo i commenti esilaranti e il torpiloquio di Henry Rollins (comunque lo trovate in rete, con i sottotitoli in italiano) che però, sul finire della sua intemerata diceva che sarebbe ora di “sentire del vero rhythm and blues, del vero soul, del vero jazz e del vero rock’n’roll, basta che ci sia meno roba precotta”. Il discorso di Henry Rollins non fa una piega e sarà anche musica stagionata quella del My Best of 2017 ma è roba vera, senza troppi conservanti e coloranti, senza narcisismi e quella velleità di indicare ad ogni costo una strada o un futuro, visto che tanti di questi oracoli il più delle volte si esauriscono nel giro di qualche anno, lasciando solo fumo ed una sensazione di vacuità che ti fa diffidare della prossima new thing. Preferisco l'arrosto e i dischi che resistono al tempo, che li ascolti tra 5 o dieci anni e ti trasmettono ancora quel senso sano della musica costruita con le mani, il cuore ed il cervello. Ognuno ha i propri gusti, su questo non si discute e sinceramente l'età mi ha reso conservatore al riguardo, un prezzo da pagare al diventare vecchio, una sopraggiunta pigrizia nel girovagare i nuovi territori preferendo invece concentrarsi sulle cose e i generi con cui si è più in confidenza, magari perché  sedimentate da una frequentazione che nel tempo ha significato anche profondità conoscitiva, piacere delle sfumature e dei dettagli. Vai a quello che sai che ti possa piacere, senza perdere comunque la curiosità della scoperta, e se devi fare troppa fatica per farti piacere una cosa che sembra troppo strana, lasci perdere. Non c'è più il tempo di una volta, le cose corrono veloci e si esauriscono in fretta, non mi interessa essere sempre sul pezzo, sulla novità, preferisco riconoscere una segnaletica emotiva che 50 anni e più di ascolti privati e concerti pubblici mi hanno forgiato in termini di passione, piacere, sensibilità.  Se di Gregg Allman ed il suo commovente Southern Blood, a proposito compratevi la versione in vinile perché la copertina ed il collage fotografico all'interno sono da urlo, ho già detto, l'altro mio preferito dell'anno è  50 di Michael Chapman, vecchio, resuscitato folk-rocker inglese che con l'aiuto di Steve Gunn, un americano che in un video gira per l'umida e verde campagna inglese con una Triumph vintage, ha realizzato un disco sublime, sospeso tra folk e rock, con venature perfino psichedeliche ma di quella psichedelia dolce ed autunnale con cui le ballate si alimentano di suoni circolari che si ripetono in una sorta di mantra elettro-acustico avvolgente ed  ipnotizzante. Ne ho già scritto a proposito di The Old and The Young su questo blog lo scorso febbraio. Mi è capitato di riascoltare 50 dopo diversi mesi dall'uscita, in macchina lo scorso settembre mentre attraversavo l'ampia pianura  della Camargue tra paludi ed un cielo delirante di nuvole frastagliate, ed è stato un vero trip. E' un disco che libera la mente in uno sguardo estatico di ciò che ci circonda, una purezza rarefatta d' altri tempi, 50 di Michael Chapman è un disco che fa ancora sognare e viaggiare, il fatto che sia un veterano con una lunga discografia alle spalle, cresciuto ascoltando Big Bill Bronzy, Django Reinhardt e John Martyn, ad averlo pubblicato contraddice l'affermazione per cui le cose migliori vengono create solo in giovane età. Le pinacoteche sarebbero spoglie.
 

Giovanissimi invece sono Greta Van Fleet, tre fratelli Kiszka più un paio di amici provenienti da Frankenmuth nel Michigan, che cantano come i Led Zeppelin e pestano duro un hard-rock venato di blues che si concede ugualmente a versioni che stanno agli antipodi del loro sound chitarristico. Difatti con From The Fires , il loro primo vero album  assemblato con due Ep, sciorinano la loro giovanile verve hard-rockin' strizzando l'occhio al British blues come al rock di Detroit, per poi far capolino in una improbabile A Change Is Gonna Come di Sam Cooke pur priva delle modulazioni morbide e sensuali dell'autore ma comunque degna dell'illuminato e democratico messaggio della canzone, qui rivista in una versione più strillata e white middle-class ma solenne nel suo significato. E la stessa cosa si può dire di Meet On The Ledge di Richard Thompson resa nota dai Fairport Convention, qui rispettata nelle sue cadenze da ballata, impreziosita da un backing vocale e da un melodico assolo di chitarra. La voce metallica di Joshua Kriszka, i riff al serramanico e l'odore di benzina esalato da Black Smoke Rising sono il biglietto da visita di questo giovanissimo combo che la rivista Rolling Stone ha definito "una delle dieci band del 2017 che dovete assolutamente conoscere". Non è un disco imprescindibile From The Fires  ma i Greta Van Fleet sono una promessa, come lo sono stati gli Strypes qualche anno fa.
 

Non sono una novità i Dream Syndicate ritornati ad un disco in studio dopo ventotto anni con inalterata brillantezza ed indiscussa ruvidezza rock.  Tre originali, il cantante e chitarrista Steve Wynn, il bassista Mark Walton ed il batterista Dennis Duck, più il collaudato chitarrista Jason Victor e la presenza di vecchi amici quali Chris Cacavas e Kendra Smith, per un album, How Did I Find Myself Here?, apprezzato da pubblico e critica, che non sposta di una virgola il loro sound fatto di cascate elettriche e fiondate ritmiche dietro una voce, quella di Wynn, che sembra sempre uscire da un romanzo hard-boiled. Cinque tracce feroci all'insegna del grande sole nero losangeleno, una ballata imbambolata (Kendra's Dream) ed un brano, la title track, che da sola vale il prezzo del CD, una lunga e liquida immersione sonora tra jazz e psichedelia che non può che rimandare a John Coltrane Stereo Blues. Tanto di cappello a Wynn e soci, almeno questo sindacato non si è venduto al sistema e nonostante gli anni continua a far sognare. Di più stretto accento roots sono due dischi che seppure non memorabili danno ossigeno alla mia attenzione verso il rock americano più provinciale e rurale, fino a poco tempo fa la miglior espressione di una rinascita delle radici a colpi di chitarre e ballate younghiane. Non è un caso che Lukas Nelson, figlio del famoso Willie, e la sua band i Promise Of Real siano l'attuale band di  Neil Young. Il loro disco, non il primo, a loro nome è una piacevole mistura di ballate agresti, southern rock, country-soul, dolcezze acustiche e cavalcate texane, dosate con cura ed iniettate con alcune  spregiudicatezze. Lukas Nelson ha una voce importante che sconfina anche nel falsetto, la band è di prim'ordine. Un disco a suo modo originale il loro, per come sa camminare nei fangosi e inflazionati terreni di quello che veniva definito alternative country con qualche idea fresca, un disco non troppo distante da Chris Stepleton ma più melodico e nello stesso tempo con chitarre sguainate. Mi è capitato di vederli dal vivo lo scorso ottobre nel piccolo spazio del Cafè de la Danse di Parigi ed è stato un concerto robusto e piacevole, con tante sfaccettature. Lukas Nelson ha il phisique du role del troubadour, alto, barba e capelli neri, una presenza significativa sul palco, la band ha carattere e non lesina in efficacia rocknrollistica, nemmeno quando la canzone dispensa malinconie da loser, Carolina ondeggia sul border e Just Outside of Austin fa capire che nel loro set e nel loro disco c'è tutta la scuola dei songwriter texani. Lukas Nelson non tradisce i natali, è rispettoso del passato, quando interpreta Breakdown di Tom Petty, La Vie en Rose di Edith Piaf, Cinnamon Girl di Neil Young e After Midnight di J.J Cale,  ed intraprendente quando distorce una melodia che sarebbe troppo facile attribuire al background di famiglia.
 

 

Era diverso tempo che non mi avvicinavo ai Son Volt, avevo trovato alcuni loro dischi ripetitivi e stanchi, cosa che non succede, a mio modo di sentire, con Notes of Blue un lavoro dove si ritrovano tutti gli elementi costitutivi dell'ispirazione di Jay Farrar, ovvero i paesaggi desolati e lividi della provincia americana, le periferie urbane anonime, la solitudine e la strada, ma in questo caso rinnovati con una lucidità ed essenzialità che sembravano smarrite. Il disco è piuttosto corto, circa 30 minuti, ma è perfetto per la voce neniosa e monocorde di Farrar, che qui trascina la band come da tempo non capitava mettendo le sue chitarre in primo piano, davanti ad un combo (la batteria di Jacob Edwards, il piano di Mark Spencer, il violino di Gary Hunt, la pedal steel di Jason Kardong) che sa livellare asprezze elettriche non prive di feedback e rumori grungy con sfumature roots evocative di un mondo rurale che resiste alla modernità. Aspri (esemplare è Static), perduti in ballate che sembrano sfumare nel vuoto della provincia americana ( Cherokee St., Lost Souls), dolci e acustici (The Storm), disperati come lo possono essere ad altre latitudini i Richmond Fontaine, con cui condividono il deserto esistenziale di tante condizioni umane, i Son Volt di Notes Of Blue sono la quintessenza di un rock scritto sulle pagine ormai ingiallite e intristite di On The Road.
 

Chi continua da un po' di anni imperterrito sulla sua strada fatta di dischi apparentemente dimessi e folkie è John Mellencamp, il quale riduce al minimo anche le copertine dei suoi dischi, il packaging dell'ultimo disco è così misero da far incazzare. A partire da Life Death Love and Freedom e poi con No Better Than This e Plain Spoken John Mellencamp insegue una visione della musica americana fatta di ballate elettro-acustiche dove le amare considerazioni sullo stato della sua nazione, in termini socio-politici, si traducono in una tristezza di fondo che trova veste in un folk-blues di protesta con sopra il fantasma di Woody Guthrie. L'amarezza è spesso la linea conduttrice del disco, ed una certa monotonia, specie nei primi due titoli riportati sopra sono il limite di una poetica altamente nobile nei contenuti ma piuttosto deprimente musicalmente. Se Plain Spoken aveva agitato le acque in senso positivo, ancora di più lo fa Sad Clowns & Hillbillies che proprio l'aggiunta della cantante country Martina McBride rende vario e movimentato, quindi più accessibile ad ascolti prolungati, senza che il tedio prenda alla gola. Suonato magnificamente pur nel dosaggio spartano di strumenti che ci mettono solo l'indispensabile, cantato con l'usuale bagaglio arrochito di Mellencamp, Sad Clowns & Hillbillies è una collezione di canzoni che viaggiano sui ritmi di una tradizione di folk-rock-blues ereditata da Dylan di cui l'artista dell'Indiana sembra oggi il più resistente e sincero degli interpreti. Mi sono trovato ad ascoltare per parecchio tempo il disco senza stancarmene, e questo è un buon segno.

La recente riscoperta del folk anche in ambienti vicino all'indie e all'underground ha permesso una delle più felici e anomale uscite del 2017, il secondo album dell'americano Jake Xerxes Fussell, degno figlio di una famiglia di ricercatori e archivisti di folk, il padre Fred Fussell e sua moglie Cathy. Dopo gli studi approfonditi all'Università del Mississippi e l'incontro con degli importanti musicisti (Robert Wilkins, Steve Mann, Etta Baker) JXF ha realizzato con la produzione di William Tyler l'esordio nel 2015 e bissato lo scorso anno con il magnifico What In The Natural World. Assemblato un vero e proprio collettivo di musicisti (Nathan Bowles, Casey Toll, Nathan Golub, Nathan Salsburg, Joan Shelley) JXF si addentra in un mondo di folk-blues con la compostezza e la creatività di un Ry Cooder catturando gli elementi essenziali del patrimonio originario ma rinnovando il linguaggio lirico con un tocco poetico e visionario di rara originalità. Esemplare è la rilettura in chiave jazz-blues di Bells of Rhymney di Dylan ma tutto il disco scorre con una fluidità incredibile al punto da reinventare in chiave folk un brano di Duke Ellington, Jump For Joy. Malinconico a tratti, swingato in altri momenti, rigoroso ma ugualmente suggestivo nelle riletture e nell' uso della chitarra, tra tagli sincopati e armonie circolari simili a quelle di Steve Gunn, arricchito da una voce significativa e a volte struggente, What In The Natural World è un disco magico, di quelli che Ry Cooder da un pezzo si dimentica di fare.
 

Noi orfani dei Black Crowes, nel 2017 abbiamo avuto una piccola ricompensa col disco omonimo di The Magpie Salute, la band formata da uno dei fratelli Robinson, il chitarrista e qui cantante Rich, dall' altro chitarrista Marc Ford che, a parere di chi scrive, è stata una delle pedine fondamentali degli album migliori dei Corvi Neri per quel suo suonare pindarico e fantasioso, giusto alter ego al rigore blues-rock di Rich. E poi il diligente Sven Pipien ed il magistrale tastierista Eddie Harsch, purtroppo scomparso alla fine delle registrazioni di questo The Magpie Salute.  In più possiamo aggiungere una delle voci di supporto, Charity White, anche lei un tempo alla corte del gruppo di Atlanta, qui in compagnia di John Hogg (ex Hookah Brown), Adrian Reju, Danielia Cotton e Katrine Ottosen. Completano la band il batterista Joe Magistro, il tastierista Matt Slocum ed un altro chitarrista, Nico Breciartua, un ensemble di dieci persone, una band ad ampio raggio di azione come nella migliore tradizione del sud ma disposta ad andare verso la psichedelia e la musica west-coast come testimoniano alcuni brani che sanno di Crosby, Stills, Nash & Young. Ho dato ampio spazio a loro su questo blog la scorsa estate, per cui non mi ripeto. Basta la loro versione di Wiser Time dei Black Crowes e Fearless dei Pink Floyd per far capire a chiunque che se passassero dalle nostre parti il loro non è un concerto da perdere.

Chi forse non ha ancora capito che Little Steven alias Miami Steve Van Zandt è l'uomo dietro ai migliori dischi di Springsteen, quelli che hanno fatto storia come Born To Run e The River, sono le migliaia di accesi springsteeniani che hanno disertato i suoi concerti italiani dello scorso anno. Poche migliaia di persone a Pistoia in luglio, due concerti cancellati a dicembre. Eppure il suo show (in particolare quello milanese) è stato tra i più divertenti e appaganti del 2017, uno spiegamento di forze, i Disciples of Soul, con tanto di coriste e fiati (alcuni Jukes) tali da permettere una sfavillante carrellata di tutto il soul e R&B americano, in particolare quello urbano della East Coast e della blaxpointation. Una meraviglia, già ampiamente illustrata con uno dei dischi a più alto tasso rock n' roll/soul/R&B dell'anno appena trascorso, quel Soulfire che regala alcune delle migliori canzoni firmate dal nostro e quel guitar meets horns che ha reso Little Steven il vero inventore del Jersey Sound. C'è tanto di Southside Johnny con i suoi Asbury Jukes ed un pizzico di Bruce Springsteen. Proprio da quest'ultimo un disco così lo si aspetta da anni, fortuna vuole che lo ha realizzato il suo braccio destro. Anche in questo caso trovate ampio resoconto nel pezzo scritto a maggio su questo blog.

Gli italianissimi Gang ci hanno invece fatto ricordare chi siamo e da dove veniamo, un canzoniere importante nato negli anni settanta di canzoni operaie e ispirate dalla resistenza, canzoni di rivolta e canzoni di disagio, canzoni col linguaggio del proletariato giovanile, canzoni di nuove esperienze e canzoni di strada, canzoni contro e canzoni di speranza, è stato ripreso in mano dai fratelli Severini che con l'aiuto del produttore Jono Manson e di un nugolo di bravi musicisti, hanno riattualizzato attraverso un arrembante folk-rock di deciso taglio americano offrendogli un rifugio nel tempo e nella storia e riportandolo ai  giorni nostri. Calibro 77  è una simbiosi tra le voci del nuovo umanesimo e la matrice rock e trova compimento nella personale interpretazione che i Gang offrono degli undici titoli presi in considerazione, canzoni di Gaber, Guccini, De Andrè, De Gregori, Ricky Gianco, Finardi, Claudio Lolli, Manfredi, Bennato, Pietrangeli e Della Mea. Un disco assolutamente stimolante dal punto di vista musicale ed importante dal punto di vista del contenuto, un attestato di memoria storica e culturale al ritmo della musica folk e rock che ha il potere di farci credere che non tutto è ancora perduto. E'stato il  disco con cui si è aperto il 2017.
 

Un anno di ottimi dischi live, almeno tre hanno fatto breccia nei miei ascolti, il potente Live From The Fox Oakland della Tedeschi-Trucks Band, ma a dire il vero la scaletta dello show milanese dello scorso 19 maggio è risultata ancora più sontuosa rispetto al live ufficiale, con le riprese di brani di George Harrison, B.B King, Staple Singers, Derek and The Dominos e Alex Chilton, quel Greatest Hits Live con cui Steve Winwood per la prima volta nella sua lunga carriera passa in rassegna dal vivo tutti i capitoli fondamentali della sua avventura artistica, e Sticky Fingers 2015 con cui i Rolling Stones hanno riportato sul palco del Fonda Theatre di Hollywood il loro celebre album del 1971. A proposito di tale disco mi va di aggiungere, in controtendenza a quanti reputano oggi gli Stones dei cadaveri, che il suddetto live, con un Ron Wood assolutamente grandioso ed un Mick Jagger non da meno, è la dimostrazione di quanto la band suoni oggi con scioltezza e libertà, molto meno condizionata dall'apparato spettacolare e dall'immagine da offrire al pubblico. Non hanno nulla da perdere se non il piacere di ritrovarsi di nuovo insieme a fare rock n'roll su un palco, e lo fanno oltre che con mestiere, con divertimento e quella passione che la fama e i soldi non hanno scalfito, e sebbene, considerato gli anni, le sere non siano tutte al top questo Sticky Fingers 2015 è in grado di farvi credere che il rock n'roll in mano a loro sia ancora roba sporca, pericolosa e dannatamente eccitante.
 

Mi rimane da aggiungere alcune cose a margine. Se vi piace il soul, Goin' Platinum di  Robert Finley ha tutte le prerogative per farvi divertire. Nato negli anni cinquanta a Bernice in Louisiana, Robert Finley ad undici anni aveva già la chitarra in mano ma solo alla fine del 2016 è stato capace di pubblicare un album professionale, Age Don't Mean A Thing. E' arrivato tardi ma ci è riuscito, dopo che per anni aveva cantato gospel in chiesa e fatto il bandleader per la banda dell'esercito americano in Germania. Naturale il passaggio nelle strade come busker ed un lavoro come carpentiere per poter sbarcare il lunario. Music Maker, una organizzazione no profit che aiuta i vecchi musicisti blues, lo ha scovato in una esibizione di strada in Arkansas, costringendolo ad abbandonare l'attività di carpentiere per una sopraggiunta cecità. E' stata la sua fortuna, il ritorno alla musica ha significato un tour con Alabama Slim e Robert Lee Coleman, un disco col produttore Bruce Watson e l'interessamento di Dan Auerbach dei Black Keys che, dopo averlo sentito cantare, l'ha coinvolto nella soundtrack della graphic novel Murder Ballads . Lo stesso Dan Auerbach, impressionato dalla sua performance, ha deciso di produrgli il nuovo disco, appunto Goin' Platinum! un lavoro che rivela Finley, erroneamente scambiato per bluesman, come  soulman vicino alle tematiche e agli umori del southern soul. Auerbach oltre a produrre, ha scritto, solo e con altri, il materiale del nuovo disco di Finley, una performance vocale intensa e graffiante, una voce forte che rammenta in parte quella di Wilson Pickett, magari meno urlata e più ancorata agli intrecci stilistici del sud. Con lui sono un stuolo di musicisti e sessionmen di prim'ordine, oltre alla chitarra di Dan Auerbach, c'è il piano e l'organo di Bobby Wood (J.J Cale, Bobby Womack), in qualche brano la batteria di  Gene Chrisman (Aretha Franklyn, Elvis Presley, Dusty Springfield), il mitico Duane Eddy ci mette le corde della sua chitarra in You Don't Have To Do Right e la sezione fiati della Preservation Hall di New Orleans presenzia in toto.  Alto, magro, cappellaccio, pantaloni di pelle e stivali,  Robert Finley è un voodoo man che maneggia blues e soul  con l'abilità di uno stregone, un sopravvissuto ad un'era in cui la tecnologia non era ancora padrona del mondo. 
 

La dimostrazione che il blues attecchisce ad ogni latitudine, anche le più fredde, viene dai Kaleo un quartetto islandese che sa il fatto suo in quanto a grinta,  attitudine rock e secche battute di blues. Ho scoperto per caso il loro A/B, pubblicato nel 2016, ma vi assicuro che se non fosse per un titolo cantato in lingua islandese, il resto potrebbe appartenere alla nuova leva delle band californiane, The Shelters e The Record Company in testa. JJ Julius Son è un ottimo cantante dalla voce cattiva e gli altri picchiano che è un piacere, senza demordere un attimo ma aprendosi quando il sole lo permette a ballate che evocano le bellezze del paesaggio islandese, in senso lato. Una prova viene da All The Pretty Girls, da Vor I Vaglaskogi e da Save Yourself.  Trovare per credere.
 

Di taglio epico è Hudson un disco di confine tra jazz, rock e musica sperimentale dove titoli che fanno parte dell'infinito songbook del rock (ci sono canzoni di Dylan, Joni Mitchell, Hendrix, Robbie Robertson) sono trattati in maniera del tutto eclettica da musicisti eccezionali quali il batterista Jack DeJohnette, il bassista Larry Grenadier, il tastierista John Medeski ed il chitarrista John Scofield . Un supergruppo che avrebbe potuto esprimere chissà quali virtuosismi e meraviglie e che invece si è concentrato sull'idea di una nazione invisibile rimasta immutata nello spazio e nel tempo. Groove, sfumature blues, atmosfere pastorali, una libertà espressiva molto jazzistica e naturale per questo tributo alla Hudson Valley e a Woodstock, l'area, il festival, lo spirito in generale. Grande sensibilità, grande musica.

E' tutto,  buon 2018 a tutti.

MAURO ZAMBELLINI     GENNAIO 2018